Si celebra oggi, come ogni 20 novembre, la

GIORNATA MONDIALE DEI DIRITTI DEI BAMBINI.

La data scelta coincide con il giorno cui l’Assemblea generale ONU ha adottato la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, nel 1959, e la Convenzione sui diritti del fanciullo, nel 1989.

 

Perché celebrare questa giornata?

Perché è grazie all’adozione e ratifica di documenti come questi che in quasi tutti i Paesi del mondo i bambini non solo godono dei diritti fondamentali, ma sono protetti e tutelati.

 

Cosa possono fare i professionisti sanitari in questa giornata?

Tutti i diritti implicano impegno e responsabilità da parte degli adulti, ma alcuni in particolare si traducono in doveri dei professionisti che si occupano di prevenzione e cura dei disturbi del neurosviluppo in età evolutiva.

Questi i più importanti secondo noi, riassunti ne

LA CARTA DEI DIRITTI DEI BAMBINI

E DEI DOVERI DEI PROFESSIONISTI

IMPEGNATI NELLA PREVENZIONE E PRESA IN CARICO

DELLA SALUTE IN ETA' EVOLUTIVA

 

Scarica l'allegato in fondo alla pagina

 

Fonti:
20 novembre: la giornata mondiale dei diritti dei bambini | Save the Children Italia 

Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza | UNICEF Italia

1607611722-convenzionedirittiinfanzia.pdf (datocms-assets.com)

I disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorders, ASD) sono un insieme eterogeneo di disturbi del neurosviluppo le cui manifestazioni e bisogni differiscono da persona a persona, rendendo necessario progettare interventi precoci e individualizzati.

In Italia si stima che 1 bambino su 77, nella fascia di età 7-9 anni, presenti un disturbo dello spettro autistico, con una prevalenza maggiore nei maschi, che sono colpiti 4,4 volte in più rispetto alle femmine.

Fonte: 2 aprile 2022, Giornata mondiale della consapevolezza sull'autismo (salute.gov.it)

 

SCARICA L'INFOGRAFICA DEDICATA ALLA GIORNATA MONDIALE:

I COLORI DELLO SPETTRO SECONDO IL TNPEE

 

Una rilessione sulla giornata, attraverso il punto di vista di Bradipi in Antartide 

Autismo e sensorialità, un video esplicativo: https://youtu.be/K2P4Ed6G3gw 

 

IL RUOLO DEL TNPEE

Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva è il professionista sanitario, specializzato in età evolutiva (0-18) che, attraverso un intervento precoce e globale:

- sostiene l’integrazione delle funzioni motorie-percettive dando valore agli atti come rivelatori dei processi adattivi e mentali del bambino;

- promuove l’organizzazione delle competenze emergenti e la modificazione dei comportamenti atipici;

- sviluppa le potenzialità presenti ed accresce il senso di efficacia e l’autostima;

- sollecita i processi di riorganizzazione funzionale contribuendo alla regolazione e alla stabilizzazione di uno sviluppo armonico. 

Il TNPEE utilizza il corpo nelle sue componenti motorie, percettive ed espressive, come strumenti privilegiati d’intervento.

Il movimento rappresenta infatti una potente forma di comunicazione presente fin dalla nascita ed ha un ruolo basilare nello sviluppo della conoscenza e delle funzioni cognitive profondamente radicate nella biologia del corpo, nell'esperienza vissuta e condivisa, nella cultura e nell'ambiente.

Inoltre, attraverso il gioco, l'interazione e la motivazione il TNPEE favorisce la sperimentazione di azioni organizzate e funzionali, condivise.

Il TNPEE utilizza in fase precoce strategie di sintonizzazione e di imitazione per rispecchiare la capacità di agire del bambino e rinforzarne l’identità; si avvale inoltre di tecniche specifiche per fascia d’età, per singoli stadi di sviluppo e di metodiche coerenti con il quadro funzionale del bambino, basate sull’evidenza di efficacia e riconosciute dalla comunità scientifica.

 


Per approfondire il ruolo del TNPEE 

 Brochure TNPEE

INTERVENTO MULTIMODALE PRECOCE PER BAMBINI CON DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO: PROTOCOLLO PER UNO STUDIO PILOTA – Il TNPEE (erickson.it)

«IO SENTO DIVERSO»: SFIDE SENSORIALI NELL’AUTISMO E RISONANZE NELLA TRAMA NEUROPSICOMOTORIA – Il TNPEE (erickson.it)

PIATTAFORMA DIGITALE PER LA PROGETTAZIONE DEGLI INTERVENTI NEL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO SUPER (Sistema Unitario in una Piattaforma Educativa e Riabilitativa) – Il TNPEE (erickson.it)

VALUTAZIONE DELL’ATTENDIBILITÀ DELLO STRUMENTO COSTRUITO PER SUPERVEDERE IL MODELLO OPEN NELL’INTERVENTO MULTIMODALE PRECOCE PER BAMBINI CON DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO – Il TNPEE (erickson.it)

LA COMUNICAZIONE AUMENTATIVA ALTERNATIVA IN CHIAVE EVOLUTIVA: UN APPROCCIO INTEGRATO PERLA CONQUISTA DELL’INTENZIONALITÀ – Il TNPEE (erickson.it)

APPLICAZIONE DELLO STRUMENTO QUANTITATIVO E QUALITATIVODI SUPERVISIONE NELLA TERAPIADI BAMBINI CON DISTURBODELLO SPETTRO AUTISTICO – Il TNPEE (erickson.it)

CONTATTO OCULARE, SGUARDO E INTERSOGGETTIVITÀ – Il TNPEE (erickson.it)

Il ruolo del TNPEE in un progetto terapeutico integrato secondo il modello DIR®/Floortime™ per un bambino con disturbo dello spettro autistico: Single Case Study – Il TNPEE (erickson.it)

Il gioco nell’intervento neuro e psicomotorio in età evolutiva – Il TNPEE (erickson.it)

 


ALTRE RISORSE UTILI

Le Linee Guida per Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti

Disturbo dello Spettro Autistico - LG Aggiornamento 2015.pdf (anupitnpee.it)

LA MAPPA DEI SERVIZI sul territorio nazionale

Mappa dei Servizi - OssNA (iss.it) 

Le utlime pubblicazioni dell'Osservatorio Nazionale Autismo 

Pubblicazioni Scientifiche - OssNA (iss.it)

In questi giorni di apprensione e dolore, che mettono nuovamente alla prova il mondo, con il pensiero ad una guerra drammaticamente reale e vicina, con le immagini e le parole di angoscia, morte, distruzione che riempiono le giornate,

la nostra Associazione Tecnico Scientifica vuole prendere decisa posizione contro una guerra

che lede il diritto fondamentale di ogni essere umano, bambini e adolescenti in particolare,

a vivere e sviluppare il proprio potenziale in un mondo di pace.

 

Cosa può fare il TNPEE per l’età evolutiva?

Certamente continuare a svolgere il ruolo terapeutico di promozione dello sviluppo psico-affettivo e di sostegno genitoriale, in collaborazione con l’equipe multiprofessionale.

Ascoltare attivamente le emozioni per aiutarne l'esternalizzazione e l'elaborazione.

Accogliere i vissuti negativi e aiutare a trasformarli in azioni improntate all'empatia verso il prossimo.

Garantire presenza e vicinanza.

 

 



Alcuni spunti di riflessione

I bambini e la guerra, condannati alla paura- Corriere.it

Spiegare la guerra ai bambini - Uppa.it

I TERAPISTI DELLA NEURO E PSICOMOTRICITÀ DELL’ETÀ EVOLUTIVA:

IDENTIKIT DEGLI ESPERTI DELLO SVILUPPO DEL BAMBINO

 

Fonte: Giornale Sanità - clicca qui per l'articolo originale

20 Giugno 2021

di Giuseppina Della Corte

 

LE DISABILITA’
Le disabilità dell’età evolutiva danno origine a quadri clinici peculiari e diversificati che vanno dai ritardi di acquisizione alle patologie o disturbi. Tali disabilità limitano le capacità del bambino o dell’adolescente a realizzare quanto funzionale al loro percorso di crescita.
Un approccio specifico alle problematiche e ai bisogni di salute dell’infanzia e dell’adolescenza è garantito dal Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva (Tnpee).

RUOLO CRUCIALE
Quando le difficoltà esordiscono in epoca precoce possono interessare competenze specifiche o globali e pesano sullo sviluppo del soggetto.
Per questi bambini muoversi, relazionarsi, comunicare, può risultare estremamente difficile. Da qui la necessità di rivolgersi al Tnpee quale professionista sanitario in possesso di un’appropriata formazione sull’età evolutiva ma di cui, purtroppo, spesso si fatica a riconoscerne le multidisciplinari competenze.

ECCELLENZA ITALIANA
Dall’individuazione della figura e del relativo profilo professionale, all’inserimento della commissione d’Albo nell’Ordine dei Tsrm-Pstrp (istituito con l’approvazione della legge n.3 dell’11 gennaio 2018 e successivi decreti attuativi), il Tnpee ad oggi è da ritenersi un’eccellenza tutta italiana che non trova figure analoghe all’estero e che dunque punta ad un riconoscimento intellettuale e sociale anche al di fuori dei confini nazionali.

GLI AMBITI DI ATTIVITA’
Quali sono gli ambiti, le attività, competenze, compiti assistenziali del Tnpee? Questi professionisti eseguono le attività di valutazione e riabilitazione avvalendosi di setting e strumenti di lavoro peculiari che consentono, nel loro insieme, al bambino/adolescente di acquisire e maturare le abilità necessarie al suo sviluppo.
Prima di addentrarci nelle dinamiche della seduta di terapia è utile sapere che ogni percorso riabilitativo è preceduto da un colloquio conoscitivo con i genitori e da una serie di incontri in cui il Tnpee valuta le abilità del bambino. La valutazione difatti prevede l’osservazione del comportamento del bambino e la somministrazione di test per appurarne le capacità, potenzialità e difficoltà. Segue un incontro con i genitori in cui condividere obiettivi e strategie.

LE SEDUTE DI TERAPIA
Nell’ambito del trattamento riabilitativo dall’accoglienza del paziente in poi è un susseguirsi logico e studiato di fasi.
Le sedute di terapia neuro e psicomotoria durano circa 45-50 minuti e si svolgono all’interno di un setting dalla caratteristiche ben definite. Il bambino infatti, viene accompagnato dal terapista in un ambiente in cui è presente materiale ludico di diversa tipologia, organizzato in modo preciso, tale da incoraggiare la relazione con l’adulto, l’azione motoria e le attività di gioco. Si tratta di strumenti vicini ai bisogni di crescita dei bambini che il Tnpee integra con lo scopo di favorire la comparsa delle capacità non ancora emerse ed evitare il consolidarsi di comportamenti difficili.
Talvolta può essere richiesto al genitore di assistere a parte della seduta per facilitare la separazione e il conseguente adattamento al terapista e al setting; tuttavia può essere molto utile anche mostrare al genitore le modalità di interazione o le strategie di intervento con il bambino affinché il nucleo familiare possa integrare quanto appreso dal piccolo nei contesti di vita quotidiana.
Ogni seduta di terapia è diversa l’una dall’altra poiché quando si lavora con il bambino/adolescente, si sta intervenendo su un soggetto in evoluzione costante che apprende di continuo. Il Tnpee è opportunamente formato per andare incontro alle loro esigenze, adeguando di volta in volta le modalità di interazione e le strategie terapeutiche durante l’arco della crescita.

Giornale di Neuropsichiatria dell'Età Evolutiva - Pacini MedicinaPacini  Medicina

A. Bonifacio1 , M. Della Rocca3 , M. Frasca2 , G. Gison1 , A. Iannetta2 , L. Laureti2 , L. Scarpellini2 , S. Tedeschi2

1  Psicologo, Tnpee, ATS Anupi TNPEE; 2 TNPEE ATS Anupi TNPEE; 3  Università degli Studi di Tor Vergata

 

Riassunto

Lo sconvolgimento sociale determinato dalla pandemia di COVID-19 e le conseguenti misure adottate per gestire la relativa emergenza sanitaria hanno stravolto la vita dei bambini, in modo particolare di coloro che presentano diagnosi di qualunque disordine dello sviluppo. Dall’analisi delle esperienze dei professionisti che operano con l’età evolutiva è emerso quanto la gestione familiare di questa popolazione sia stata particolarmente difficoltosa soprattutto per quei minori con diagnosi di disturbo dello spettro autistico e di disabilità intellettiva. La figura sanitaria del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE), che svolge attività di prevenzione, abilitazione e riabilitazione dei disturbi del neurosviluppo, ha rivestito un ruolo fondamentale in risposta alla necessità di supportare le famiglie e garantire la continuità terapeutica. In questo contesto ANUPI TNPEE, in qualità di Associazione Tecnico-Scientifica (ATS), ha promosso progetti specifici per fornire supporto e risposte mirate alle esigenze dei TNPEE e a quelle delle famiglie.

Parole chiave: Continuità terapeutica, Rimodulazione, Ottica sistemica, Multidisciplinarietà del lavoro, Educazione terapeutica


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Pediatria7 8 integrale pagina 14 bonifacio a 2020

L’esperienza improvvisa ed estrema della pandemia da COVID-19 ha ridefinito in modo a volte drammatico la vita di adulti e bambini con conseguenze sugli equilibri familiari – già precari in alcuni contesti sociali e territoriali – alterati dal confinamento in casa, dalla limitazione delle visite e dei contatti sociali, dalla riduzione delle possibilità di svago e di socializzazione, dalla difficoltà per molti di accedere alle nuove forme di didattica a distanza. Queste condizioni, già in fase di studio da parte di numerosi gruppi di ricerca e associazioni scientifiche, hanno avuto e probabilmente continueranno ad avere nel tempo effetti più significativi se consideriamo le famiglie di bambini e ragazzi con disturbi del neurosviluppo, in cui la quarantena ha esasperato situazioni di precarietà preesistenti nella gestione del carico assistenziale, acutizzando lo stress percepito da adulti, bambini e ragazzi. Per queste famiglie, l’integrazione della presa in carico nei diversi contesti (familiare, educativo, sanitario e sociale), come dettato da tutte le più recenti Linee Guida nazionali e internazionali, rappresenta una condizione determinante per l’efficacia dell’intervento, l’alleggerimento del carico assistenziale e per la promozione di una migliore qualità della vita dell’intero nucleo parentale. La sospensione del modello integrato delle attività di cura e del sostegno socio educativo, inevitabile in una primissima fase dell’emergenza, meno comprensibile nel corso dei mesi anche a causa di un silenzio istituzionale su tutta la “questione infanzia”, ha prodotto confusione e disorientamento; in molti casi le famiglie hanno espresso importanti difficoltà nella rimodulazione dei tempi e nella riorganizzazione delle routine nell’ambiente domestico, e occasionalmente si sono dovute confrontare con situazioni di conflitto e/o comportamenti disadattivi, lamentando la sensazione di un sentimento di abbandono anche oltre i dati oggettivi. 

Nel quadro dei disturbi del neurosviluppo i dati raccolti e in fase di elaborazione stanno dimostrando quanto la gestione del lockdown sia stata particolarmente critica per i disturbi ad elevata comorbilità e in particolare per i soggetti con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva. Le difficoltà socio-comunicative spesso rappresentano uno dei principali trigger di stress per i soggetti autistici e le loro famiglie; inoltre le peculiarità individuali dello stile di funzionamento (seppure con enorme variabilità di impegno, in funzione dell’età e dell’espressività del disturbo) richiedono una costante attività di mediazione dell’adulto di riferimento nella possibilità di “regolare” l’ambiente di vita, modulare il dosaggio degli stimoli presenti e finalizzare i comportamenti: un impegno che a seconda delle caratteristiche del nucleo familiare (numero di componenti presenti in casa, attività lavorativa dei genitori, topografia degli spazi domestici, ecc.) ha richiesto l’impiego di notevoli energie psicofisiche. La capacità di contenimento del disagio e degli effetti del lockdown è stata direttamente proporzionale alla capacità/possibilità di ricevere risposte ottimali dall’ambiente fisico e relazionale. Proprio nella necessità di rimodulare l’ambiente familiare come unico setting di lavoro possibile è emersa l’importanza dell’impiego delle competenze del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE), professionista sanitario della riabilitazione dell’età evolutiva. La specifica competenza del TNPEE in molte circostanze ha permesso di intervenire sull’intero sistema fa- miliare e non solo sul singolo bambino al fine di individuare gli specifici facilitatori ambientali che ne potessero garantire un ‘esperienza di vita equilibrata ed adeguata alla situazione eccezionale venutasi a creare in conseguenza della pandemia. Tra le strategie di contenimento degli effetti negativi del lockdown messe in campo dai TNPEE, definite in dettaglio nelle “Linee di Indirizzo e Raccomandazioni ai TNPEE” pubblicate nel maggio 2020, ha assunto un ruolo significativo l’attivazione immediata di modalità proattive da remoto a garanzia della continuità degli interventi, rinforzando l’alleanza terapeutica con la famiglia attraverso la co- progettazione degli interventi e il lavoro di rete per l’integrazione tra i vari contesti operativi. Da segnalare anche la pubblicazione e la stesura di numerosi strumenti informativi, come quello presentato in queste pagine dalla equipe della NPIA di Bari.

bimba che guarda dalla finestra

Bonifacio A., Pediatria - Magazine della Società Italiana di Pediatria - www.sip.it - volume 10 | numero 7-8 | luglio-agosto 2020

Nella

GIORNATA NAZIONALE

DEI PROFESSIONISTI SANITARI,

SOCIOSANITARI E SOCIOASSISTENZIALI

ad un anno esatto dalla pandemia Covid19,

vogliamo celebrare il TNPEE,

che non in tutti i casi ha lavorato in prima linea,

ma possiede strumenti professionali specialistici

per sostenere il paziente in età evolutiva

ad affrontare l’esperienza da ospedalizzazione per covid.

E, in caso di necessità, sa come diventare paziente modello,

in ascolto continuo del proprio corpo

e in osservazione del corpo di chi,

con altrettanta professionalità,

si prende cura di lui.

 

A TUTTI NOI PROFESSIONISTI SANITARI, GRAZIE.

 

>>SCARICA IL POSTER IN ALLEGATO IN FONDO ALLA PAGINA<<

20 NOVEMBRE 2020 

 

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Nella Giornata Universale per i Diritti dei Bambini

la nostra Associazione Tecnico Scientifica ANUPI TNPEE vuole ricordare i diritti che tutti dobbiamo garantire a bambini ed adolescenti con disturbi del neurosviluppo.

Nell'anno dei lockdown intermittenti, delle cure sospese, delle Terapie a Distanza, della Didattica a distanza o in presenza ma senza i pari, vogliamo che sia diritto di tutti i bambini l'accesso ad esperienze scolastiche integrate,  percorsi di prevenzione, diagnosi e presa in carico con personale formato e specializzato, in piena sicurezza.


Noi TNPEE, specialisti in età evolutiva, CI SIAMO.

Scarica l'allegato infondo alla pagina >> La Carta dei Diritti dei Bambini al tempo del Coronavirus secondo il TNPEE

 

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Corriede dei Ciechi - Nr 2/2019

Autori: Dott.ssa Livia Laureti; Dott. Giorgio Ricci.

 

Abstract
La legge 284/1997 conteneva disposizioni inerenti la Prevenzione della cecità e la riabilitazione visiva.

La legge aveva quale obiettivo principale la realizzazione di Centri di riabilitazione visiva sul territorio nazionale e le Regioni, grazie appunto al finanziamento previsto, dovevano procedere in tal senso. Solo poche Regioni hanno utilizzato coerentemente il finanziamento e oggi purtroppo assistiamo ad una realtà a macchia di leopardo, dove la qualità dei servizi offerti dai CERV nella maggioranza dei casi non rispecchia il modulo operativo necessario a coprire tutte le esigenze riabilitative, offrendo invece solamente un servizio diagnostico e di ipovisione.
Dicevamo che solo poche realtà hanno utilizzato in coerenza il finanziamento concesso e finalizzato, tra queste realtà, la Toscana. In Toscana sono operativi 3 CERV Firenze, Pisa e da pochi mesi Siena. I 3 Centri sono inseriti all'interno delle rispettive Aziende ospedaliere Universitarie e fanno parte integrante del sistema regionale della riabilitazione. Per la gestione dei 3 centri più i link di Arezzo e Grosseto, sono delegate sia IRIFOR che IAPB della Toscana che con apposita convenzione garantiscono i servizi con gli operatori previsti sia per gli adulti che per l'età evolutiva.
Vogliamo dare un contributo concreto alla inderogabile necessità di conoscenza delle attività di riabilitazione visiva e dei percorsi che ogni singolo centro propone in Italia, con l'obiettivo di stimolare una rete condivisa, anche nel contesto del Comitato tecnico nazionale presso il Ministero della Sanità, sede dove si dovrebbero monitorare tutte le attività dei Centri pubblici e privati.
Con questo spirito vogliamo presentare il percorso riabilitativo dell'età evolutiva del CERV di Firenze presso la AOU Careggi, invitando altri Centri e colleghi a seguire questa strada, perché ad oggi abbiamo solamente una conoscenza molto parziale sulle attività di riabilitazione visiva in Italia.

Navigare a vista: percorsi integrati e reti di cura
Il modello di intervento del Modulo età evolutiva del Centro Integrato per l'educazione e la riabilitazione visiva "C. Monti" di Firenze dell'AOU Careggi-I.Ri.Fo.R - IAPB Comitato regionale toscano


Il modello integrato
Il Centro Integrato sviluppa la sua attività su due Moduli: Età Evolutiva 0-18 anni ed Età Adulta e Senile. Un primo livello di integrazione deriva dal modello gestionale adottato che, nell'erogazione dei servizi, unisce tre partner: l'ente pubblico, cioè l'Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi e due enti territoriali senza fini di lucro: l'I.Ri.Fo.R. organismo dell'associazione di tutela della categoria (U.I.C.I.) e il comitato toscano dell'Agenzia Internazionale per la prevenzione della cecità (I.A.P.B.). Un secondo livello di integrazione, che riguarda i minori, è rappresentato dalla forte sinergia tra il Modulo Età Evolutiva e il Centro di Consulenza Tiflodidattica di Firenze, attivo sui percorsi di integrazione scolastica degli alunni ipo e non vedenti, sinergia che si proietta e coinvolge con forza propulsiva i servizi di riabilitazione e neuropsichiatria infantile territoriali, le istituzioni scolastiche e le agenzie educative 0-3 anni. Un terzo livello di integrazione per questo Modulo, a cui ha contribuito la collocazione del Centro all'interno del campus di Careggi, si realizza grazie al collegamento diretto con la T.I.N. del punto nascita più grande della regione e alla collaborazione strutturata, attraverso riunioni mensili, con l'equipe di oftalmologia dell'Ospedale pediatrico "A. Meyer", nonché il raccordo con la sua unità di riabilitazione.


Confronto tra salute e malattia - Prima tappa del percorso
La diagnosi di disabilità che il genitore riceve e la ferita narcisistica che si crea nel suo immaginario sono il primo crocevia a cui la preparazione e i soccorsi per fronteggiare shock, incredulità, dolore, sensi di colpa, non devono mancare. È un momento delicatissimo, sia quando il nome della malattia distrugge l'immagine della salute e la gioia che ne deriva, sia quando un disturbo evidente, ma non identificato mette in discussione lo sviluppo del bambino. Si tratta di una comunicazione difficile che i medici e il personale sanitario devono essere preparati ad affrontare; è necessario infatti riconoscere per prima cosa i propri sentimenti rispetto alla disabilità oltre che fare i conti con la personale capacità di accogliere e di elaborare il dolore; bisogna sintonizzarsi con il genitore senza fuggire o soccombere di fronte alla sua sofferenza, affinare le competenze per potere fornire risposte lucide e calibrate alle sue domande, pretendere dall'organizzazione il tempo necessario per farlo. Inutile dire che in questo campo c'è ancora molto da fare, soprattutto a livello della formazione delle professioni mediche e sanitarie; i corsi di laurea riservano ancora troppo poco spazio alle metodologie della comunicazione e relazione con il paziente, dell'ascolto, del lavoro in equipe. Le buone prassi che nascono dall'esperienza e dalla sensibilità dei singoli sono, tuttavia, sempre possibili. Ne è un esempio l'ambulatorio oculistico dedicato ai genitori di bambini con malattie genetiche e del metabolismo, che con periodicità convoca cinque famiglie alla volta, a cui dedicare più tempo e spazio per affrontare le situazioni in cui il disturbo visivo discende da una patologia che colpisce più sistemi. Un altro esempio riguarda l'accompagnamento dei genitori ai servizi di riabilitazione che viene garantito quando c'è una rete di comunicazione attiva con procedure e rapporti professionali consolidati che evitano vuoti assistenziali, assicurando la continuità e la coerenza delle cure.


Ci vede male, non ci vede: invio al Centro Integrato - Seconda tappa
La patologia oculare riscontrata ai punti nascita consente sempre più frequentemente di segnalare i bambini, fin dai primi mesi di vita, al Centro Integrato e ciò si ripercuote sul migliore esito della ri-abilitazione e della qualità complessiva della vita delle famiglie. Il raccordo esistente tra il Centro Integrato, le S.O.D. di oculistica e neonatologia dell'Ospedale di Careggi, le Unità di oftalmologia e di riabilitazione funzionale dell'Ospedale Meyer ha prodotto un abbassamento dell'età di presa in carico dei bambini con problematiche visive che è passata, dal 2015 al 2019, dalla media dei 4 a quella di 2 anni di età.
Per la fascia dell'età precoce 0-3 anni si attivano presso il Centro Integrato cicli intensivi di abilitazione visiva e multisensoriale della durata di tre mesi con approccio globale neuropsicomotorio, che perseguono i seguenti obiettivi:

  • scongiurare i rischi di sviluppo e le conseguenze secondarie dovute all'assenza o alla mancata integrità della funzione visiva;
  • offrire ai genitori un supporto puntuale per promuovere la relazione con il proprio bambino, la cui positività costituisce un importante fattore protettivo dello sviluppo;
  • favorire la condivisione dell'esperienza con altri genitori al fine di creare un vissuto comune in cui potersi confrontare, sentirsi meno soli e più fiduciosi nelle proprie capacità genitoriali;
  • integrare l'attività svolta dai servizi, ospedalieri e territoriali, nel delicato post-diagnosi e nei primi anni di crescita del bambino, attraverso un intervento abilitativo tempestivo, professionale e specifico.


Il ciclo abilitativo comprende 12 incontri individuali ambulatoriali della durata di due ore ciascuno e un incontro domiciliare. Sono previsti inoltre due incontri di gruppo di massaggio infantile per i bambini in età 0-15 mesi e fino ai 2 anni quando sussistono patologie neuromotorie che ne compromettono la deambulazione. Le attività sono svolte da una terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva e da un'operatrice di intervento pedagogico domiciliare precoce, entrambe con solida preparazione sui disordini visivi dell'infanzia. Gli interventi sono improntati al modello del Family Centered Service che poggia sui seguenti paradigmi: ogni bambino è unico, la famiglia è la costante nella vita del bambino, i genitori sono gli esperti sui bisogni e sulle sue abilità. Gli operatori aiutano i genitori a comprendere i comportamenti atipici correlati alla presenza del deficit visivo attraverso un processo di coinvolgimento nel quale vengono condivisi giochi, materiali, modalità interattive efficaci per favorire una migliore sintonizzazione e l'instaurarsi di relazioni soddisfacenti, più equilibrate anche dal punto di vista delle aspettative. La partecipazione dei genitori consente di estendere "la sensibilità abilitativa" a tutti i momenti della giornata potenziando l'efficacia del ciclo.
Al gruppo dei genitori sono dedicati ulteriori 3 incontri (accoglienza e presentazione del progetto; laboratorio di costruzione giochi; confronto e scambio delle esperienze) durante i quali, oltre alle operatrici di riferimento, sono presenti lo psicologo del Modulo, la responsabile del Centro di consulenza tiflodidattica e la coordinatrice del progetto. Nel laboratorio di costruzione giochi i genitori, stimolati dagli operatori, realizzano oggetti con caratteristiche sensoriali interessanti per i loro bambini; il clima informale derivato dal piacere di costruire oggetti personalizzati, dalla possibilità di scambiare idee e commenti, facilita la condivisione dei vissuti, accresce la consapevolezza e l'empowerment dei genitori. Lo psicologo aiuta la riflessione sugli aspetti della crescita, sulla necessità di concedere ad ogni figlio il tempo di cui ha bisogno, di riconoscerne risorse e limiti e sentire le emozioni che essi scatenano. Ogni genitore può esprimere il proprio punto di vista sull'esperienza vissuta durante lo svolgimento del ciclo, sui cambiamenti che ha registrato in sé e nel proprio figlio; la solidarietà tra genitori produce maggiore serenità e fiducia nel futuro.


Affrontare i passaggi della crescita: la bussola dov'è? - Terza tappa
Gli invii al Centro integrato provengono sia dai servizi ospedalieri preposti alla diagnosi e cura in fase acuta sia, in larga parte, dai servizi territoriali, soprattutto quando ci sono di patologie complesse o multisistemiche. La rete di rapporti e di collaborazioni costruita negli anni fa sì che non appena si ravvisi un importante malfunzionamento visivo, attestato da una patologia o da disturbi oculari, scatti la richiesta, da parte dei servizi, di approfondimento visuo-percettivo e/o di presa in carico nei casi di ipovisione o cecità. Le osservazioni-valutazioni sono partecipate, cioè avvengono in presenza dei caregivers e, se richiesto o necessario, anche dell'inviante e/o dell'insegnante; esse mettono in luce le competenze possedute dal bambino e quelle emergenti con specifiche facilitazioni, stimolano le osservazioni dei genitori sui comportamenti a casa, permettono di confrontarsi e condividere subito materiali, modalità interattive tenendo presente l'integrazione tra la dimensione abilitativa e quella educativa. L'osservazione-valutazione rappresenta inoltre una tappa fondamentale del percorso che consente di capire meglio qual è l'immagine che i genitori e gli operatori hanno del bambino e di valutare la disponibilità della famiglia a sostenere gli interventi terapeutici; prevede anche la somministrazione di test standardizzati e si completa, per i bambini fino ai 6 anni di età, con una osservazione presso il nido o la scuola, riservando un momento di confronto con gli operatori e i genitori per condividere quanto emerso. La valutazione termina con la stesura di una relazione che viene consegnata ai genitori e trasmessa, con il loro consenso, agli operatori sanitari ed educativi che seguono il bambino. Si tratta di una relazione nella quale sono riportati i dati clinici già rilevati dall'inviante, o da altri specialisti sanitari, la qualità, l'uso e l'integrazione della funzione visiva, le difficoltà principali del momento, le facilitazioni specifiche per il bambino in relazione anche alla fascia d'età, gli accorgimenti generali utili in presenza di deficit visivo. Nelle situazioni complesse in cui sono presenti anche altri disordini del neurosviluppo la valutazione arricchisce la diagnosi clinica del medico e consente di comprendere meglio quanto incide la disabilità visiva e con quali strategie ridurne l'impatto. Alle osservazioni-valutazioni partecipa anche la responsabile del Centro di consulenza tiflodidattica al fine di garantire fin dall'inizio un supporto integrato alla famiglia e a tutti gli operatori.


Reti e rotte sicure per navigare
Il percorso prosegue con incontri periodici di monitoraggio dell'evoluzione delle competenze del bambino, di consulenza e confronto con la famiglia presso il Centro, presso le scuole, gli ambulatori delle Usl e i luoghi di vita. Man mano emergono nuovi bisogni correlati alle tappe di sviluppo (imparare a gestire gli ausili tecnologici o presidi ottici più complessi, raggiungere i luoghi di interesse in autonomia e sicurezza, affrontare l'adolescenza con una disabilità che complica i rapporti) si attivano gli interventi degli altri operatori del Modulo: psicologo, ortottista, oculista, istruttori tecnici di orientamento e mobilità, di tecnologie informatiche, di autonomia personale. Ad ogni passaggio di crescita o che comporta l'inserimento in un nuovo ordine di scuola si effettuano rivalutazioni, si introducono sussidi e ausili, si prende contatto con i nuovi referenti e si offre consulenza.
Cosa abbiamo imparato noi operatori in vent'anni di attività vicino a bambini, ragazzi e alle loro famiglie? Ci siamo accorti che intervenire sempre più precocemente significa accelerare l'acquisizione di autonomie e di strategie per compensare l'handicap visivo, gestire prima e meglio gli strumenti, avere genitori che sviluppano fiducia nei figli e nei servizi senza perdersi d'animo, in definitiva diminuire il bisogno degli esperti e dimostrare che, senza ombra di dubbio, investire prima in modo adeguato consente di risparmiare dopo, molto di più, sotto ogni profilo.

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Premessa

I Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA) vengono definiti “specifici” perché interessano in modo significativo ma circoscritto uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale, in bambini con QI (Quoziente Intellettivo) uguale o superiore alla media.

Per poter formulare la diagnosi di DSA è necessario che vi sia una discrepanza significativa tra le abilità nel dominio specifico interessato (valutate in relazione all’età e alla classe frequentata) e l’intelligenza generale.

Nella Consensus Conference del 2007 sono stati individuati come caratteristici dei DSA la natura “evolutiva” di questi disturbi, la diversa intensità del disturbo nelle diverse fasi evolutive dell’abilità in questione e la frequente associazione ad altri disturbi (comorbilità).

La comorbilità consiste nella presenza contemporanea di due condizioni anomale che possono essere di origine diversa o l’una la causa dell’altra.

Spesso, in ambito neuropsicomotorio, ci troviamo di fronte a bambini con DSA che manifestano diverse comorbidità tra cui Disturbi d’ansia, Disturbi del comportamento, Disturbi dell’umore, ADHD (Deficit dell’attenzione e iperattività), Disturbi di carattere somatico.

Inoltre il bambino può dimostrare ridotto interesse e motivazione nello studio o nella vita quotidiana, scarsa autostima, difficoltà nel ragionamento logico, ecc generando un circolo vizioso di potenziamento reciproco. (CC-2007)

 

La Disgrafia: inquadramento diagnostico

I principali sistemi di classificazione e diagnosi dei disturbi del neurosviluppo, tra cui il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – Edizione IV TR (DSM IV-TR), per molto tempo hanno inquadrato all'interno della classe dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento scolastico la Disgrafia.

Essa è, per definizione, un disturbo dell'apprendimento e dell'automatizzazione della grafia, che si manifesta con una difficoltà nell'abilità motoria della scrittura.

All'interno dell'ultima edizione del DSM-5, tuttavia, la diagnosi e il termine di disgrafia hanno subito un'importante trasformazione. Non vi è loro traccia, infatti, all'interno dei Disturbi dell'Apprendimento scolastico, se non in un breve cenno alla possibilità che i bambini con DSA possano presentare una “perdita di espressione scritta”, intesa anche in termini di qualità motoria della grafia. Troviamo invece il termine di disgrafia tra i segni e le caratteristiche del Disturbo di Sviluppo della Coordinazione Motoria, le cui implicazioni sensoriali, di coordinazione oculo-manuale e oculo-motoria globale, di motricità fine, di postura, delle funzioni esecutive, trovano nell’approccio terapeutico integrato del TNPEE e nell’intervento neuropsicomotorio centrato su interazione tra funzioni e strutture corporee, specifico per fasce di età e per singoli stadi di sviluppo, una risposta coerente con la complessità del disturbo.

Come molti disordini del neurosviluppo, anche la disgrafia, sia che la si consideri una difficoltà di sviluppo della coordinazione motoria o un Disturbo Specifico dell’Apprendimento, si presenta con espressività cliniche differenti in cui tuttavia l'apprendimento e l'automatizzazione della scrittura risultano in misura maggiore o minore compromessi così come la grafia stessa del bambino.

 

Disgrafia e Covid19: esperienze a confronto.

Nella pratica clinica del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva l’invio per la valutazione e la terapia di bambini con sospetta o accertata disgrafia è molto frequente; se in situazioni di normalità la presa in carico e il trattamento sono complessi poiché necessitano della collaborazione della famiglia e della scuola, oltre ad implicare un’alleanza terapista/paziente, durante la pandemia Covid-19 ed il conseguente lockdown, l’improvvisa ed inaspettata interruzione dei trattamenti in presenza ha prodotto ulteriori difficoltà e ripercussioni sui nostri piccoli pazienti.

Questo periodo di “sospensione” dalla normale routine ha investito in pieno tutti noi, ma l’interruzione delle lezioni e della frequentazione scolastica ha inciso sulla sfera sociale, catapultando i bambini in un ambiente chiuso per circa due mesi, ma non solo. Oltre alle conseguenze sul piano dell’esercizio quotidiano della scrittura lettura, ecc sono emerse problematiche a livello della motricità globale dovute all’aumento della sedentarietà e alla interruzione delle attività sportive, oltre che nella motricità fine derivate dal minore esercizio quotidiano e maggior utilizzo dei videogiochi.

Le giornate non più scandite da tempi e routine stabilizzanti e la perdita in alcuni casi dei normali ritmi sonno-veglia hanno favorito l’insorgere di comportamenti sregolati, di ansia, depressione, svogliatezza, disattenzione, hanno reso ancora più complicata la possibilità di intervento neuropsicomotorio a distanza attraverso le varie piattaforme di videochiamata.

Anche la famiglia, costretta a casa e con problematiche lavorative, ha spesso “mollato la presa” o ha seguito con fatica i suggerimenti e le indicazioni del terapista.

Sul versante scuola gli insegnanti hanno fatto ciò che potevano con i mezzi a disposizione, consapevoli che la didattica a distanza privava i bambini dello spazio classe, dell’incontro/confronto con i pari e dell’interazione/ supervisione da parte dell’insegnante, fondamentali per la crescita e la motivazione ad apprendere.

Al termine del periodo di lockdown la stragrande maggioranza dei centri privati e dei servizi pubblici ha ricominciato a rilento le terapie, causa tempi tecnici di disinfezione e riorganizzazione dei locali, delle presenze e degli orari dei terapisti; a settembre i bambini che hanno ripreso le terapie hanno manifestato peggioramenti o regressioni in molteplici aspetti.

Di seguito tre esempi di soggetti in terza elementare in cui il confronto tra le competenze acquisite a Gennaio 2020 e quelle rilevate a Settembre 2020 mostra in modo evidente i cambiamenti dovuti all’interruzione della terapia in presenza.

In particolare, durante il lockdown per il Codiv-19 e nel periodo seguente:

  • • R. ha eseguito settimanalmente esercizi tramite video/ foto/ videochiamate e ha svolto quasi quotidianamente le attività indicate dal Tnpee con il supporto della tata, molto collaborante e formata sulle difficoltà del bambino;
  • • L. ha inizialmente eseguito esercizi per la grafia, ma ha interrotto le sedute a causa di problematiche lavorative dei genitori.
  • • A. ha seguito settimanalmente la terapia distanza con il supporto della mamma, che però riusciva a fargli svolgere le attività solo una volta settimana.

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Considerazioni finali

Dall'esperienza svolta in qualità di TNPEE durante questo periodo di lockdown, rispetto alla presa in carico di bambini con disgrafia, scaturiscono le seguenti constatazioni:

  • I bambini che hanno seguito gli esercizi quotidianamente le attività suggerite, hanno mantenuto quasi tutti i miglioramenti, con un leggero calo della qualità grafica e dell’attenzione durante l’attività di scrittura.
  • I bambini che hanno svolto le attività in maniera saltuaria, una volta a settimana, o che le hanno quasi completamente interrotte si trovano ora in difficoltà e mostrano evidenti peggioramenti.
  • La qualità della grafia, migliorata durante il trattamento negli aspetti relativi alla fluidità, alla scioltezza, alla pressione della traccia, ma non ancora stabilizzata risulta regredita in quasi tutti i casi con la ricomparsa dei dolori articolari e muscolari alle dita, alla mano e al braccio.
  • L’impugnatura ha mantenuto le correzioni effettuate.
  • Il ruolo della famiglia, o di chi si prende cura del bambino, è fondamentale, in quanto risulta imprescindibile per la generalizzazione e la stabilizzazione delle competenze acquisite in terapia.

Dal punto di vista comportamentale inoltre ho ritrovato i bambini seguiti demotivati e meno inclini a seguire le regole date dalla terapista, sfociando addirittura, in alcuni casi, nel rifiuto e nella provocazione. Nonostante il lockdown abbia consentito di implementare l’uso della tecnologia e di raggiungere i bambini e genitori nei loro abituali contesti di vita, la terapia neuropsicomotoria diretta e in presenza, calibrata e modulata sul singolo bambino e sulle interazioni che si realizzano nel qui ed ora della vicinanza fisica e corporea sia la modalità più potente per stimolare miglioramenti non solo a livello della competenza deficitaria, ma anche dal punto di vista dello sviluppo emozionale e del comportamento pro-sociale.

 Dott.ssa TNPEE Martina Verdese

 

di Claudia Boni

TNPEE, Psicologa, AUSL Bologna, Dipartimento di Salute Mentale, Area Neuropsi­chiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Unità Operativa Servizi Territoriali e Unità operativa Servizi Specialistici

 

Il complesso intreccio delle dimensioni evolutive alla base della capacità di in­staurare interazioni di gioco nell’autismo risulta variamente disturbato a partire dalla stessa capacità di esprimere e comprendere le intenzioni. La possibilità di intervenire precocemente per attivare l’integrazione prassico-simbolico-affetti­va fa della terapia neuropsicomotoria uno strumento particolarmente efficace nello sviluppo di competenze intersog­gettive, comunicative e ludiche. L’autrice, membro del team che opera all’interno del Percorso Autismo dell’Ausl di Bologna, traccia un itinerario di facili­tazione allo sviluppo del gioco simbolico attraverso esempi tratti dalla pratica clini­ca basata sulla co-costruzione di azioni dotate di significato per il bambino e sulla condivisione di saperi e strumenti assieme alle figure professionali che, a vario titolo, partecipano al progetto ria­bilitativo.

 

DALLA RICERCA ALLA PRATICA CLINICA

Il terzo elemento della triade che sostiene la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autisti­co (DSA), espresso nei sistemi diagnostici DSM-IV (American Psychiatric Association, 1996) e ICD-10 (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1992) come comportamento caratterizzato da ripetitività e interessi ristretti, descrive nei bambini che si collocano lungo il continuum di questi disturbi la compromissione più o meno grave della capacità di giocare e, in particolare, di sviluppare un gioco simbolico. Il fare finta richiede, infatti, competenze cognitive di tipo rappresentativo e di teoria della mente, quali la compren­sione non letterale dei messaggi, tipicamente deficitarie nei DSA.

Facilitare l’evoluzione di competenze di gioco significa quindi, pur nell’estrema va­riabilità e negli esiti diversi che il disturbo produce, intervenire il più precocemente possibile per sollecitare in modo armonico lo sviluppo di competenze percettivo-motorie, prassiche e comunicative, orientandole verso la dimensione interattiva che sostiene la cognizione sociale.

Risultano a questo scopo fondamentali gli studi contemporanei di Infant Research (Lavelli, 2007) sulla nascita dell’intersoggettività, dell’imitazione e del linguaggio, che fondano con evidenza sempre maggiore la costruzione di queste competenze sull’insieme di comportamenti di sintonizzazione ritmica, tonica, mimica e gestuale affettivamente connotati che si costruisce a partire dai primi comporta­menti di interazione faccia a faccia.

Contemporaneamente la ricerca neuroscientifica sul Sistema dei Neuroni Specchio ha portato a teorizzare i correlati neurofunzionali dell’intersoggettività nel mec­canismo della Simulazione Incarnata (Gallese, Magone e Eagle, 2006), che evidenzia come i processi mentali di riconoscimento del significato delle azioni e delle emo­zioni altrui poggino sulla capacità innata transmodale di riprodurre motoriamente ciò che si osserva visivamente.

All’interno del Sistema dei Neuroni Specchio sono inoltre stati scoperti neuroni definiti action constrai­ned che risultano selettivamente compromessi nei DSA. Tali neuroni codificano l’esecuzione e la comprensione dell’intenzione sottesa all’azione osservata sulla base del meccanismo delle catene motorie.

A differenza dei bambini a sviluppo tipico, i bambini con DSA risultano incapaci di trasformare le loro inten­zioni (e quindi di riconoscere l’intenzione sottesa all’azio­ne altrui) attraverso la programmazione di una catena ci­nematica guidata dallo scopo finale, ma programmano i singoli atti motori in modo indipendente uno dopo l’altro (Fabbri Destro, 2009-2010).

L’esistenza di disturbi precoci a vari livelli dell’orga­nizzazione percettivo-motoria nei DSA sta peraltro emer­gendo con evidenza negli studi compiuti negli ultimi anni che hanno confermato i deficit di esecuzione, program­mazione e pianificazione osservati comunemente nella pratica clinica.

L’Associazione Americana di Terapia Fisica ha addi­rittura ipotizzato il diretto coinvolgimento del disturbo percettivo-motorio nel deficit intersoggettivo e auspicato la realizzazione di interventi precoci integrati sulle com­petenze motorio-prassiche e socio-comunicative, così come in parte già avviene nel modello evolutivo DIR Floortime (Bhat, Landa e Galloway, 2011).

IL RUOLO DEL TNPEE NELLA RETE DEI SERVIZI

Tutti gli studi citati convergono nel sottolineare l’im­portanza di diagnosi e di interventi precoci e individualiz­zati che, seguendo un approccio di tipo evolutivo, possano facilitare l’organizzazione integrata di competenze funzio­nali, intersoggettive e comunicative tanto quanto i processi di strutturazione delll’Io così come li definisce Greenspan (1999) in una prospettiva evolutivo-strutturalista.

In Italia l’approccio della Terapia della Psicomotricità, che le Linee Guida per l’Autismo 2005 della Società Ita­liana di Neuropsichiatria Infantile annoverano tra i model­li di intervento di tipo Evolutivo (TED, DIR Model, Early Start Denver Model), si pone come intervento precoce importante fin dalla fase diagnostica e integrabile con in­terventi realizzati da altre figure professionali a supporto del bambino, della famiglia e della scuola che lo accoglie.

Nell’AUSL di Bologna due Terapiste della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva (TNPEE) che, come riabilitatori dei Servizi territoriali, svolgono interventi di aiuto in tutte le tipologie di disturbi dello sviluppo, partecipano anche all’équipe multiprofessionale speciali­stica costituita nel 2008 all’interno del Percorso Autismo voluto dal PRIA (Progetto integrato per i soggetti con autismo) della Regione Emilia Romagna per effettuare valutazioni diagnostiche e partecipare alla programma­zione terapeutico-abilitativa.

All’interno di questo percorso la condivisione di un comune modello di intervento evolutivo permette di pro­porre interventi di sostegno al bambino, alla famiglia e alla scuola, massimizzando le risorse disponibili nell’ot­tica del lavoro di rete.

Lo specifico apporto del TNPEE, dopo la fase diagno­stica, si realizza attraverso:

– trattamenti alla presenza del genitore nella fase imme­diatamente successiva alla diagnosi;

– interventi psicomotori individuali;

– interventi psicomotori di piccolo gruppo;

– partecipazione a laboratori formativi per genitori e in­segnanti basati sulla costruzione di competenze e stru­menti di Comunicazione Aumentativa Alternativa.

La facilitazione alla costruzione del gioco in tutti i tipi di intervento si basa sulla co-costruzione di significati attraverso:

– proposte di interazione emotivamente significative e ba­sate sulla reciprocità (giochi sociali infantili per conso­lidare o sviluppare le competenze di intersoggettività primaria e secondaria);

– sostegno allo sviluppo comunicativo attraverso lo svi­luppo di segnalatori protolinguistici, vocali, gestuali e mimici;

– sviluppo di capacità motorio-prassiche e simboliche at­traverso il passaggio dall’azione alla rappresentazione.

GIOCO SOCIALE E INTERSOGGETTIVITÀ

Francesco, due anni e mezzo, entra con la sua mamma per la prima volta nella stanza.

Senza guardarmi corre e vocalizza tra sé. Fa strisciare un dito lungo i muri che osserva con sguardo tangenziale, incontra i materassi e si tuffa prono battendo le mani. In ginocchio lo imito e battendo più forte dico «Buum…».

Francesco non guarda ma ripete il battere e, alla mia se­conda imitazione, gira il capo verso di me e ride. Al secondo incontro la mamma mi racconterà del gioco ripreso a casa e della gioia derivante dall’aver visto ridere il suo bambino.

Trevarthen (in Lavelli, 2007) descrive con il termine di Intersoggettività Primaria la coordinazione tra sé e l’altro attraverso il rispecchiamento empatico o l’accoppiamento di espressioni comunicative in base alle caratteristiche temporali delle stesse.

La prima fase di gioco con i piccoli con DSA in te­rapia psicomotoria si basa sulla ricerca e la produzione consapevole di occasioni interattive, che prendono la for­ma di routine di gioco sociale infantile, cioè di giochi interpersonali strutturati in due semplici fasi, scandite da una pausa e da commenti vocali ripetuti, che creano nel bambino aspettative di reciprocità.

È una fase fondamentale di alleanza con il bambino e il genitore, nella quale gli oggetti introdotti sono selezionati per diventare veicolo di scambi e non scatenare interessi assorbenti.

In questa fase si cerca di comprendere quali siano la tipologia e l’intensità di stimolazione più efficaci per mantenere nel bambino uno stato di regolazione attentiva ed emotiva, modulando le sue risposte attraverso la strut­turazione dello spazio, dei materiali e la sintonizzazione tonica, mimica e vocale.

L’enorme importanza di questo periodo sta nella co­struzione che si realizza tra adulto e bambino di quella coregolazione di affetti e coordinazione dell’attenzione che farà da supporto a tutti i successivi comportamenti relativi all’area dell’attenzione congiunta.

ATTENZIONE, INTENZIONE ED EMOZIONE CONGIUNTA

Luca, tre anni, si adagia sul sacco morbido alla fine di un percorso motorio costruito per sollecitare la concatenazio­ne di sequenze di spostamento e superare la sua ipotonia di base che produce passività.

Il suo sguardo si ferma sulla rete appesa al soffitto nella quale sono sospesi grossi palloni colorati. Alzo il braccio enfatizzando il pointing indicativo e comincio a produrre rumore battendone uno. Mi fermo, aspetto. Luca accenna il sollevamento del braccio.

Riprendo a battere: «Sii… palla rossa!». Luca si anima e accenna a sollevare l’intero corpo. In braccio a me Luca accenna di nuovo e indica a mano aperta. Gli sostengo il braccio perché possa toccare il pallone e lo aiuto a impo­stare meglio il gesto, amplificando con mimica e tono di voce quello che la sua espressione del viso e lo sguardo mi rimandano. Inizia così una proto-conversazione gestuale e vocale su quale pallone far scendere dalla rete.

Greenspan (2007b) riprende la sua teorizzazione dello sviluppo dell’Io, sostenendo l’importanza cruciale dello stadio che chiama: Serie prolungata di scambi recipro­ci di segnali emotivi e problem solving condiviso e che corrisponde alla fase di Intersoggettività secondaria di Trevarthen, in cui tra adulto e bambino si va costruendo un insieme sempre più ampio di circoli comunicativi at­traverso l’attenzione congiunta su un focus comune.

L’insieme di comportamenti di triangolazione di sguar­do, la capacità di seguire il gesto di indicare e poi pro­durlo, il riferirsi all’altro per condividere stati emotivi in relazione a un oggetto rappresentano nello sviluppo tipico una fase determinante per la capacità di comprendere gli stati mentali che possono essere condivisi e influenzati.

Contemporaneamente la capacità crescente di orga­nizzare azioni come mezzi per raggiungere degli scopi consente al bambino di fare esperienza della differenza tra mezzi e fini e della propria intenzionalità.

È un obiettivo primario nei DSA rafforzare l’iniziativa intenzionale attraverso la reciprocità nelle risposte, per far sì che il bambino ci coinvolga come partner, non solo per ottenere oggetti ma anche per condividerli.

Soprattutto nei bambini particolarmente disorganizzati è molto importante la marcatura di certe azioni da loro prodotte come atti o comunicazioni intenzionali, anche quando non lo sono ancora esplicitamente, per creare la consapevolezza di poter esercitare una causalità nell’altro. In terapia neuropsicomotoria si amplificano e si modu­lano tutte le caratteristiche di responsività che l’adulto normalmente usa per facilitare l’attenzione del bambino nel primo anno di vita.

Mimica accentuata, gestualità enfatica e rallentata, lin­guaggio verbale ridotto, ma estremamente contingente al focus attentivo o all’azione del bambino, supporto fisico al raggiungimento dell’obiettivo e nella scelta di obiettivi emotivamente significativi per lui sono le strategie princi­pali in questa fase e vengono adattate al profilo sensoriale e motorio individuale perché il bambino possa mantenere un buon livello di autoregolazione anche in presenza di oggetti eccitanti o di difficoltà nel loro uso. Molti compor­tamenti stereotipati vengono infatti ridotti attraverso una modalità interattiva che faciliti l’elaborazione percettiva e aiuti l’organizzazione della risposta motoria.

Sappiamo che una buona coordinazione attentiva, lo sviluppo di gesti referenziali e l’integrazione affettivo-gestuale, obiettivi primari dell’intervento psicomotorio, sono di estrema importanza per lo sviluppo dell’intenzio­nalità comunicativa, del linguaggio verbale, della teoria della mente e del gioco simbolico, come dimostrano non solo tutte le ricerche sull’intersoggettività (Lavelli, 2007) ma anche gli outcome dei bambini con DSA (Fabrizi, Galosi e Guerriero, 2011).

CONDIVIDERE UN’IDEA

Alessandro ha tre anni e mezzo e un abbozzo di linguag­gio verbale prevalentemente ecolalico. La sua caratteristi­ca di estrema irritabilità ed ipereccitabilità rende difficile insegnargli compiti complessi come quelli che richiedono coordinazione bimanuale. Mentre sta cercando di costruire una torre con i Lego, un pezzo gli sfugge e la torre si rompe; allora Alessandro rovescia la sedia e piangendo si rifugia fra i cilindri. Lo raggiungo e nel consolarlo gli mostro la faccina del bimbo che piange su una delle carte rappresentanti le emozioni che tengo sempre in tasca per poterle usare in modo contingente. Alessandro osserva la faccina, mi guarda e ripete: «piangi». Dal corridoio arriva il pianto di un bam­bino spaventato dalla vaccinazione e Alessandro guarda la porta indicando in modo dichiarativo. Di nuovo condivido e commento: «anche il bimbo piange!». Prendo subito un bambolotto e facendolo scendere dallo scivolo fingo che cada, mimo il suo pianto e inizio a curarlo. Alessandro mi imita nello spargere la pomata sulla testa del bambolotto e usa lo scotch come cerotto.

Quando il livello di sviluppo degli schemi sensomotori raggiunge il quinto stadio piagetiano, cioè la fase dei ten­tativi ed errori secondo Rogers (Rogers e Dawson, 2010), è possibile cominciare a insegnare il gioco simbolico se­guendo una progressione che riguarda:

– l’agente dello schema simbolico (il bambino prima realizza l’azione su di sé, poi sull’altro, poi fa agire personaggi al suo posto);

– il sostituto simbolico utilizzato (l’oggetto reale, poi un oggetto verosimile, poi un oggetto meno realistico e infine il solo gesto);

– la complessità della sequenza (dallo schema singolo, all’agire lo schema su più oggetti, a coordinare schemi in successione).

Nel contesto della terapia neuropsicomotoria il gioco simbolico non viene insegnato in maniera curricolare, per quanto la progressione sia nella mente dell’adulto, ma emerge come proposta che si costruisce precocemente a partire dall’uso dello spazio e del materiale come signifi­canti presimbolici (Fabrizi e Piperno, 1996), da sequenze di gioco di rassicurazione profonda (Aucouturier, 2005) e dall’attribuire senso all’azione agganciandosi a ciò che il bimbo sta facendo per farlo evolvere (il bimbo scivola, l’orsetto scivola…). Ci si basa cioè sulla reciprocità dell’in­terazione e sulla contingenza della proposta, oltre che sulla congruenza emotiva con quanto il bimbo sta esprimendo.

Poiché la correlazione tra questo tipo di gioco e lo svi­luppo della comprensione verbale è molto alta, non aspet­tiamo che il bimbo riesca a parlare, ma anticipiamo ver­balizzando le nostre proposte in situazioni comprensibili per lui. Il gioco simbolico diventa così il mezzo migliore per aumentare la comprensione verbale, facilitare atti di referenza linguistica nei bambini che ancora non parlano o per indirizzare un linguaggio idiosincratico, ecolalico o poco comunicativo verso la condivisione di significati.

È poi fondamentale la collaborazione con i colleghi logopedisti e gli educatori che si occupano di costruire nei contesti di vita del bambino strumenti di comunicazione visiva a supporto della comunicazione.

Da alcuni anni utilizziamo in modo consistente le im­magini anche nella sala di psicomotricità per obiettivi a complessità crescente collegati alla possibilità di com­prendere e anticipare le nostre richieste e la scansione della seduta, spiegare le regole, facilitare la richiesta di oggetti non visibili e, soprattutto, sostenere capacità rap­presentative per costruire giochi di finzione e riferimenti immaginativi quando non immediatamente deducibili dal contesto (Boni, 2012).

La comprensione della corrispondenza prima tra og­getto e immagine e poi tra situazione e immagine viene costruita in tutti i modi in cui è possibile passare dall’azio­ne dall’azio­ne alla rappresentazione e viceversa. Le immagini, oltre che per le significazioni realizzate attraverso l’uso dello spazio e del materiale, servono come segno di riconosci­mento e codice condiviso, che aiuta il bambino a mante­nere il legame con la realtà nonostante la trasformazione degli oggetti, e per evocare associazioni con la propria esperienza (ad esempio, trasformare di volta in volta la grande ruota morbida in una piscina, una giostra; i blocchi morbidi in una casetta, un treno, ecc.) che non possono essere ancora spontaneamente mentalizzate.

Anche quando il bambino non sa disegnare proponia­mo appena possibile, a fine incontro, un nostro semplice disegno relativo a quanto può comprendere (dal disegno di un oggetto concreto appoggiato sul foglio e contornato a quello di una situazione vissuta), proprio per offrirgli l’oc­casione di collegare immediatamente l’oggetto o l’azione alla sua rappresentazione iconica oltre che verbale. Que­sto facilita il bambino nel trattenere una traccia dell’espe­rienza e nell’organizzare una funzione protonarrativa.

Il continuo percorso di azione/rappresentazione/azio­ne successive e collegate, facilitato dall’uso di immagini, porta infatti il bambino ad agire prima una sequenza di azioni con oggetti e poi a desiderare di raccontarla con immagini disegnate e parole.

SPUNTI DI GIOCO SPONTANEO

Sono trascorsi sei mesi da quando il gioco di «far finta» è stato proposto sistematicamente. Alessandro da alcune sedute inizia a produrre collegamenti di azioni in sequen­za: sveste il bambolotto, finge di lavarlo, lo mette a letto nella casetta, lo alza per fargli fare colazione. Oggi con le immagini gli faccio scegliere il posto in cui fingere di por­tare il bambolotto con l’auto/scatolone («parco giochi o scuola?»), introducendo un elemento nuovo accanto a uno noto. Sceglie inaspettatamente «la scuola», che gli costrui­sco allineando due panchetti e ponendovi sedute altre due bambole. Alessandro riconosce l’allusione e spontaneamen­te dice: «Queste sono le compagne di scuola!».

Quando le prime sequenze di gioco si stabilizzano, le possibilità di usarle per ampliare il repertorio, per intro­durre compiti prassici o per costruire il pensiero narrativo sono infinite. In questa fase il lavoro sulla dimensione cognitivo-motoria del gioco, condotto sempre a partire da­gli interessi e dalle motivazioni del bambino, si intreccia ancor più saldamente con l’esplorazione ed elaborazione di aree tematico-affettive (Greeenspan, 2007a).

Molti bambini in questa fase sono in grado di accettare evoluzioni del gioco diverse dai giochi di rassicurazione profonda con i quali si intrattenevano a lungo in fasi pre­coci per organizzare un senso di sé più stabile in relazione all’altro e, se abbiamo lavorato per incentivarne la flessibi­lità, possono ora utilizzare il gioco per riferirsi a problemi attuali. In particolare molti bambini che, come Alessandro, hanno iniziali capacità simboliche, ma ancora numerosi problemi di adattamento sociale, amano trattare tematiche collegate all’espressione dell’assertività e dell’aggressività e, anche se non hanno ancora capacità sequenziali motorie e linguistiche per organizzare una narrazione spontanea, sono tuttavia in grado di riconoscere situazioni riferite a propri comportamenti problematici. In terapia neuropsi­comotoria, per i bambini con DSA come per tutti gli altri, l’evoluzione del comportamento problematico si realizza attraverso il passaggio al registro simbolico, non appena il soggetto è in grado di comprenderlo:

Il bambolotto di Alessandro è ora seduto nella finta scuo­la e io fingo che le altre due bambole si facciano i dispetti dandosi un colpetto; poi le sgrido richiamando la regola «non si picchia». Da alcune settimane Alessandro si interes­sa alla regola, raffigurata nel cartellone, di non fare i dispetti.

Alessandro si aggancia al significato e, correndo col suo bambolotto, va a prendere un pupazzo dallo scatolone, fin­gendo che abbia infranto la regola di chiedere i giocattoli; poi gli mostra il cartellone e gli dice: «non si prendono i giochi!».

Sorrido e penso a quanta strada ha fatto dal primo giorno in cui, chiamato per nome, non si voltava nemmeno, conti­nuando a far ruotare una pallina…

CONCLUSIONI

Nel panorama scientifico internazionale, sul tema dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo da anni emerge l’in­dicazione di intervenire precocemente, intensivamente e in modo integrato con i bambini per i quali alcuni sintomi di allarme o già in via di strutturazione (come i disturbi di interazione sociale e comunicativa, spesso accompa­gnati da ritardo motorio) siano classificabili all’interno dell’ampio spettro autistico.

La convergenza delle ricerche che conferma il fonda­mento corporeo dei processi intersoggettivi e di cogni­zione sociale pone la cultura e la pratica della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva in primo piano. In Italia questa cultura si è andata arricchendo negli ultimi anni di tutte le più recenti acquisizioni in tema di neuropsicologia e di psicopatologia dello sviluppo e il TNPEE riveste in molte realtà un ruolo importante nei servizi dedicati alla ricerca, alla diagnosi e all’intervento precoce.

Contemporaneamente, l’affermarsi anche nel mondo an­glosassone di modelli evolutivi come il DIR Model o l’Ear­ly Start Denver Model offre alla nostra pratica un’occasione non solo per confrontarsi su comuni principi, ma anche per affermare il suo originale punto di forza, che consiste proprio nell’integrazione tra azione e rappresentazione e nel riconoscimento della dimensione simbolica del corpo.

Mi auguro che, anche attraverso il lavoro dei tanti TN­PEE che come me si occupano di Autismo, il dialogo tra modelli evolutivi sorti da differenti contesti culturali possa finalmente fondare quell’approccio clinico che Francesco Barale e Stefania Ucelli di Nemi, su questa stessa rivista («Psicomotricità», anno V, n. 11, febbraio 2001, p. 21), sol­lecitavano oltre un decennio fa. Un approccio che, lungi dal trascurare gli aspetti neurobiologici alla base dell’autismo, ma anzi fondando proprio su questi un intervento massi­mamente individualizzato, possa avere a che fare non con dei cervelli rotti che producono deficit cognitivi, ma con persone nelle quali si è venuto a creare un intreccio precoce ed evolutivo di aspetti deficitari, emozionali e relazionali.

 

ABSTRACT

The complex interweaving of developmental func­tions that are at the basis of play interaction is variously disturbed in autism, beginning with the ability to express and understand intentions. The possibility of early intervention that activates the integration of motor, symbolic and affective abilities makes neuropsychomotor intervention a particularly useful tool in developing interpersonal, communIcation, and play skills. The author works in the Autism Project team in Bologna’s Public Health System. She provides guidelines for facilitating symbolic play development taken from clinical ex­amples where there is the co-construction of actions meaningful for the child and the child’s sharing knowledge and tools with those professionals that variously participate in the rehabilitation project.

 

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di Andrea Bonifacio (a), Giovanna Gison (b) e Ermelinda Minghelli (c)

(a) TNPEE e Psicologo

(b) TNPEE e Dottore in Psicologia

(c) TNPEE

Centro Medico Riabilitativo, Pompei (NA)

L’articolo tratterà l’interazione tra le conoscenze teoriche acquisite, quelle della clinica e quelle proprie del modello neuropsicomotorio nello specifico dei Disturbi dello Spettro Autistico. Verranno analizzate le fasi precoci dell’intervento, le procedure valutative e quelle per l’individuazione delle strategie e degli obiettivi terapeutici. Il nostro modello d’intervento integrato in un’ottica neuropsicomotoria e neuropsicologica privilegia, nelle fasi iniziali, attività indirizzate in modo particolare a supportare la comunicazione sociale sulla base delle caratteristiche individuali e del profilo interattivo del bambino, in accordo con le Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità/ISS (2011).

Lo scopo di questo articolo è esporre i principi e le caratteristiche generali della metodologia di intervento che si è delineata nel corso dell’ultimo decennio, all’interno del nostro gruppo di lavoro. Durante questo periodo abbiamo seguito numerosi casi di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA), accomunati dalla significativa caratteristica della diagnosi precoce, stabilizzata intorno ai 24-30 mesi circa. Abbiamo analizzato in maniera sistematica le caratteristiche del disturbo precoce, la loro evoluzione e le aree prioritarie di intervento, in quanto organizzatrici dello sviluppo successivo. Questo non ci ha portato a un nuovo, ennesimo, metodo di trattamento, ma a organizzare nella maniera più dichiarabile, tracciabile e verificabile possibile l’approccio abilitativo e terapeutico proprio della cultura neuropsicomotoria.

Il modello di intervento proposto, OPeN-Intervento Integrato in ottica Neuropsicomotoria e Neuropsicologica, si fonda su alcuni principi, primo fra tutti quello dell’integrazione non solo di diverse ottiche, ma anche di professioni e persone che, rivestendo ruoli differenti, accompagnano il bambino nel suo processo di crescita. Tale principio risponde alla necessità di contrastare la tendenza alla moltiplicazione e, talvolta, sovrapposizione degli interventi; la prospettiva dell’integrazione si esplica, infatti, attraverso la coerenza interna del percorso unita al posizionamento attivo di tutte le persone che partecipano ad esso.

L’approccio integrato rappresenta per noi, inoltre, una certa idea di lavoro di équipe,1 in cui ogni operatore deve svolgere la funzione di facilitatore della comunicazione nella costruzione di reti tra i singoli servizi/sistemi implicati nella relazione di aiuto. Il tutto all’interno di un processo il cui fine è generare autonomia, non solo nel bambino, ma anche nelle persone che sono presenti e operano nel suo ambiente di vita. Ciò anche in accordo con il modello bio-psico-sociale dell’ICF-CY, che in relazione ai fattori ambientali dà grande importanza a tutti gli elementi «che formano il contesto di vita di un individuo e, come tali, hanno un impatto sul funzionamento della persona. Tali fattori includono l’ambiente fisico e le sue caratteristiche, il mondo fisico creato dall’uomo, altre persone in diverse relazioni e ruoli, atteggiamenti e valori, sistemi sociali, servizi, regole e leggi».2

La necessità di un approccio integrato viene, inoltre, sostenuta all’interno del documento Bioetica e Riabilitazione prodotto dal Comitato Nazionale per la Bioetica, in cui si pone l’accento sul concetto di relazionalità, in termini di collaborazione, fiducia, solidarietà e aiuto tra le persone impegnate nel percorso riabilitativo: la persona con disabilità, il medico, i terapisti, la famiglia, ecc. Le strategie educative e terapeutiche devono nascere dalla condivisione del progetto, da «un’alleanza riabilitativa» alimentata dal dialogo continuo e dalla collaborazione reciproca di tutti i soggetti coinvolti (Comitato Nazionale per la Bioetica, 2006). L’assunzione di questi principi, non solo da un punto di vista teorico, ma attraverso una reale integrazione nel proprio sistema di lavoro, è fondamentale innanzitutto al fine di contrastare fenomeni di autoreferenzialità. Facilitare la costruzione di reti, infatti, consente di esplorare i diversi livelli di complessità del DSA e di prestare attenzione alle barriere, alle facilitazioni, ai limiti e alle risorse presenti nel contesto di vita del bambino. L’assenza di un simile modello concettuale comporterebbe il rischio di una «importazione acritica» di tipologie d’intervento, avulse dalle risorse territoriali, dai reali bisogni del bambino e della sua famiglia.

 DALL’OSSERVAZIONE AL PROFILO INTERATTIVO

Ogni bambino con DSA si presenta con il proprio stile interattivo, le proprie caratteristiche funzionali, neuropsicomotorie e cognitive e l’intervento che proponiamo si pone l’obiettivo di rispondere a queste esigenze diversificate attraverso un approccio altamente individualizzato. Questo principio lo ritroviamo espresso, sotto forma di Raccomandazione, nelle Linea Guida 2011 dell’ISS: Gli interventi a supporto della comunicazione sociale vanno presi in considerazione per i bambini e gli adolescenti con DSA; la scelta di quale sia l’intervento più appropriato deve essere formulata sulla base di una valutazione delle caratteristiche individuali del soggetto. Secondo il parere degli esperti, è consigliabile adattare l’ambiente comunicativo, sociale e fisico di bambini e adolescenti con DSA: le possibilità comprendono il fornire suggerimenti visivi, ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, seguire una routine, un programma prevedibile e utilizzare dei suggerimenti, minimizzando le stimolazioni sensoriali disturbanti.

Questa raccomandazione sottolinea ancora una volta la necessità di favorire processi di condivisione tra i diversi ambienti di vita, che devono adattarsi e modificarsi al fine di facilitare la comunicazione e l’interazione in tutti i suoi aspetti. Ma, analizzandone le implicazioni in relazione alla pratica clinica, rileviamo come tale raccomandazione abbia da sempre costituito un perno centrale nel contesto di osservazione e intervento neuropsicomotorio.

Proprio in relazione al fornire suggerimenti visivi, seguire una routine e un programma prevedibile, si pensi infatti all’importanza che rivestono la costruzione del setting e l’organizzazione della seduta, che avvengono mediante dispositivi spazio-temporali fondati su regolarità, predicibilità e coerenza, principi che sono organizzati attraverso specifiche strategie. Ad esempio, il setting psicomotorio individua e struttura due luoghi distinti nel medesimo spazio d’azione della seduta: il primo, connotato da materiale poco strutturato (materassi, cuscini, spalliere, corde), che consente e facilita l’accesso del bambino a esperienze di attivazione e interazione con l’adulto sul piano corporeo, di tipo sensoriale, cinestesico, motorio, che sono alla base dello sviluppo di schemi sensomotori e interattivi; il secondo, corrispondente a una successiva fase della seduta sul piano temporale, è organizzato in modo differente (solitamente vi sono un armadio, un tavolo e delle sedie) e definisce l’incontro del bambino con oggetti e immagini e, più in generale, favorisce attività di decentramento, al servizio dell’organizzazione funzionale, simbolica, prassica e comunicativa.

Questa strutturazione sollecita una nuova organizzazione tonico-posturale, che progressivamente permette al bambino e al terapista di circoscrivere lo spazio di condivisione, focalizzare un obiettivo comune e attivare precisi codici di scambio. Tale suddivisione stabile del setting rappresenta un principio organizzatore, elemento che ci permette da subito di osservare cambiamenti temperamentali e comportamentali, in termini di competenze adattive e di intenzionalità in rapporto alle azioni prodotte dal bambino.

Un altro aspetto riguarda la necessità di minimizzare le stimolazioni sensoriali disturbanti, obiettivo centrale in una prima fase del progetto riabilitativo e che richiede una notevole attenzione a una serie di particolari che, a partire dall’osservazione individualizzata di ogni bambino accompagnata dalle informazioni fondamentali raccolte dalla famiglia, ci consente di costruire specifici profili sensoriali. Pertanto particolare attenzione è data alla fase dell’osservazione neuropsicomotoria, guidata da ipotesi, sistematica e continuativa nel tempo; una metodologia osservativa in cui si modificano le condizioni naturali per favorire la comparsa di determinate azioni, che si avvale del ruolo di supporto dell’adulto nelle attività condivise con il bambino. Tale stile osservativo non può prescindere, di conseguenza, dalla co-regolazione interpersonale, vale a dire dal processo di mutuo e continuo aggiustamento dei partner di un’interazione.3

Questa specifica strategia di osservazione, e più in generale d’intervento, sostiene il principio di ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, o meglio di adattarle al profilo interattivo del bambino.

Un altro principio fondante è rappresentato dalla specifica attitudine, tipica della cultura psicomotoria, nel privilegiare l’interazione mediata dall’esperienza del corpo come condizione primaria per l’integrazione delle relazioni interpersonali e delle funzioni mentali, così da prevedere, durante l’intervento, facilitazioni costanti e stabili, finalizzate a promuovere processi di regolazione, continuità e integrazione.

Progressivamente, attraverso la sintonizzazione dell’adulto sugli indici espressivi del bambino, è possibile individuare il suo specifico profilo interattivo, vale a dire la sintesi tra competenze funzionali, stile interattivo, profilo sensoriale e aspetti temperamentali. Definito questo, si procede fissando gli obiettivi evolutivi dell’intervento terapeutico, per il cui raggiungimento ci avvaliamo dell’attivazione delle seguenti aree di gioco:

– giochi di attivazione sociale;

– giochi di esplorazione, imitazione e uso sociale dell’oggetto;

– giochi sensomotori a valenza rappresentativa.

 

DAGLI OBIETTIVI ALLA METODOLOGIA D’INTERVENTO

All’interno di ogni area di gioco, alla fase osservativo-valutativa segue la fase d’individuazione degli obiettivi, resi condivisibili e verificabili attraverso l’uso integrato della scheda di osservazione neuropsicomotoria (SON)4 e l’ICF-CY. La selezione degli obiettivi specifici avviene individuando di volta in volta la competenza emergente, che rappresenta il livello di sviluppo potenziale in cui collocare le sollecitazioni. In particolare consideriamo competenza emergente quella competenza espressa dal bambino solo a partire da una facilitazione proposta dal terapista. La procedura che conduce, quindi, dall’osservazione fino all’individuazione degli obiettivi è strettamente correlata all’individuazione delle facilitazioni e delle strategie e non può prescindere dal ruolo e dal sistema di attitudine del TNPEE. Ci riferiamo nello specifico alla sua competenza a stimolare, condividere e contenere lo scambio emozionale con il bambino, alla sua capacità di assumere una funzione di rispecchiamento, al fine di amplificare, ridurre, rallentare, esagerare gli indici espressivi. Queste modalità, acquisite attraverso una formazione specifica, rappresentano i mediatori che sostengono l’attenzione del bambino all’altro, o meglio all’interazione. In altre parole, il punto di partenza di ogni incontro con il bambino, che rappresenta lo stile e il filo conduttore dell’intervento, deve essere la ricerca di temporanee condizioni di allineamento a livello tonico, posturale, spaziale, temporale e motorio, che determinano situazioni di accordo emotivo tra il terapista e il bambino.

Queste condizioni, come ad esempio un determinato contatto fisico o visivo, rappresentano un aspetto necessario ma non sufficiente alla costruzione di una configurazione interattiva stabile. Essa necessita, infatti, anche e soprattutto della capacità di osservare il bambino e d’individuare precisamente il momento in cui ha bisogno di essere lasciato solo, oppure di distogliere attivamente lo sguardo, a sostegno di un processo di autonomia, che gli consentirà di scegliere di allontanarsi o avvicinarsi all’altro. L’alternanza di tali schemi gli garantirà la possibilità di sperimentarsi nell’interazione come individuo attivo e non solo re-attivo o responsivo; un soggetto dell’interazione che partecipa nel definirne i tempi, i confini e le modalità. Il percorso per il raggiungimento degli obiettivi evolutivi è segnato dal raggiungimento di micro-obiettivi a breve termine e specifici. Tutto il processo che conduce al determinarsi di ogni configurazione interattiva risulta fondamentale, in quanto essa funge sempre da vettore per l’attivazione delle aree di gioco.

Le tre aree sopra individuate (attivazione sociale, esplorazione e giochi sensomotori), sia nello sviluppo tipico che nella pratica clinica, si presentano ricche di contaminazioni, sovrapposizioni e in stretta relazione tra di loro; al contrario la loro schematizzazione e separazione ci consente di esplorarne le caratteristiche, individuandone le relative strategie e gli obiettivi terapeutici. Va precisato d’altronde che lo sfondo dell’intervento è dato proprio dalla ricerca e dalla sollecitazione di connessioni tra le diverse aree. Per ciò che concerne i giochi di attivazione sociale, essi sono riferiti a tutte quelle interazioni che, nello sviluppo tipico, si manifestano a partire dai primi mesi di vita sotto forma di giochi faccia a faccia, tra l’adulto e il bambino, in cui prevalgono mutui processi di regolazione, di attenzione e di scambio comunicativo, sostenuti dalla reciproca organizzazione tonico-posturale.

A partire da queste condizioni di vero e proprio dialogo tonico l’adulto, attraverso vocalizzazioni ed espressioni facciali amplificate, facilita l’espressività di alcuni segnalatori dello sviluppo comunicativo sociale, quali sguardo referenziale, sorriso, attenzione condivisa e imitazione, sullo sfondo di un assetto tonico-posturale costantemente adattato e modulato in relazione alle variazioni esperite. Si vengono così a creare delle configurazioni interattive; in altre parole, si delinea quello specifico pattern che caratterizzerà le interazioni tra «quel bambino e quell’adulto». La costruzione di queste configurazioni si rivela particolarmente importante con i bambini con DSA, «in quanto nelle prime fasi dello sviluppo essi mostrano deficit fluttuanti dell’intersoggettività e cioè di quella particolare sincronia tra le espressioni facciali, vocali e gestuali dei lattanti e delle loro madri».5 Ne consegue che, soprattutto nelle prime fasi, il nostro intervento è caratterizzato da un contesto relazionale stabile, permeato da interazioni emotivamente sostenute, volte a supportare esperienze di efficacia comunicativa. A favore di questo orientamento metodologico, negli anni si sono susseguite numerose evidenze scientifiche che sottolineano l’importanza della sollecitazione dell’area comunicativo-sociale, in quanto essa «può ridurre gli effetti cumulativi a valle delle disfunzioni dell’intersoggetività e favorire la maturazione biologica del cervello sociale» (Wetherby, 2006; Greenspan, 1998- 2006; Rogers, 1991).6

Nel bambino con DSA colpisce da subito l’alterazione dell’attenzione visiva coordinata,7 sia in termini di difficoltà a spostare il proprio sguardo dall’oggetto al volto dell’adulto, che in termini di guardare nella direzione in cui l’adulto sta guardando. Si rilevano spesso, inoltre, un interesse atipico per alcune caratteristiche senso-percettive dell’oggetto (forme, suoni, logo), una manipolazione e un uso estremamente poveri, scarsamente variabili e talvolta stereotipati. Al contrario in alcuni bambini possono presentarsi delle isole di abilità: ad esempio, essi possono comporre rapidamente puzzle o compiere movimenti sofisticati producendo rotazioni oppure oscillazioni, imprimendo così movimenti atipici agli oggetti. Alcuni bambini sviluppano veri e propri rituali con l’oggetto, che si esprimono attraverso attività di allineamento, spezzettamento, serialità, ecc.

L’intervento, in quest’area, si organizza a partire dall’identificazione degli oggetti/materiali che suscitano maggiormente l’interesse del bambino, dal facilitare l’assunzione di un assetto posturale adattato allo scambio e alla condivisione dell’attività con l’oggetto. Alcune strategie si sono rivelate nel tempo molto efficaci, quali, ad esempio, un’accurata selezione del materiale e la sua presentazione graduale: tali strategie sono soggette a un’elevata individualizzazione. Altre riflessioni riguardano il gioco sensomotorio a valenza rappresentativa: esso è costituito da azioni che coinvolgono prevalentemente il corpo e il movimento, con schemi che, nello sviluppo tipico, si manifestano attraverso azioni quali apparire e scomparire, scappare ed essere presi, entrare e uscire, giochi di caduta e simili. Queste azioni, unite al piacere associato alla loro attuazione e ripetizione, esprimono il modo in cui il bambino esercita e potenzia le sue competenze motorie, prassiche e rappresentative. Quest’area di gioco si caratterizza per la rapidità delle acquisizioni, per le sue caratteristiche universali e per la portata simbolica, in quanto per noi terapisti l’azione è sempre il prodotto di un’interazione. Quello che si rileva nei bambini con DSA è che possono presentare un tono di base spesso scarsamente modulato e regolato in rapporto all’azione e all’altro, accompagnato da un’organizzazione gestuale altamente deficitaria; l’orientamento posturale e l’organizzazione spazio-temporale del movimento risultano spesso disfunzionali. La presenza di stereotipie e di movimenti ripetitivi, inoltre, può pervadere il livello di attivazione. Anche in questo caso si tratta di deficit fluttuanti, di intensità variabile, che in generale caratterizzano l’espressività ludico-sensomotoria, rendendola frammentata, caotica e con finalità scarsamente riconoscibili.

Come ben delineato dagli studi di Piaget fino alle scoperte più recenti della psicologia dello sviluppo, questo livello ludico sostiene i processi rappresentativi e simbolici attraverso la progressiva maturazione di rappresentazioni mentali a partire dal graduale affinamento degli schemi di azione. Pertanto assumono particolare importanza le strategie fondate sul riconoscimento del valore dell’azione spontanea del bambino, strategie che, attraverso processi di attribuzione di senso, di selezione e di strutturazione del contesto di gioco, perseguono il fine di costruire anche in questo caso esperienze di un sé agente efficace.

L’intervento OPeN prevede, infine, un’articolazione per fasi, in quanto riteniamo che esso debba adattarsi progressivamente ai mutevoli bisogni di un soggetto affetto da DSA, mutevoli in rapporto all’età, all’evoluzione del quadro clinico e ai cambiamenti del contesto di vita. All’interno di questa articolazione è possibile distinguere:

– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento delle competenze interattivo-sociali e comunicativolinguistiche;

– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento delle competenze simboliche e cognitive;

– intervento mediato dai genitori;

– sviluppo di programmi psico-pedagogici;

– progetti per lo sviluppo delle autonomie personali e sociali;

– proposte finalizzate a favorire la condivisione di attività all’interno di piccoli gruppi.

Per l’applicazione del modello OPeN è previsto l’utilizzo della documentazione scritta, che implica l’impegno, da parte di tutti, a utilizzare un linguaggio condivisibile. Essa, inoltre, facilita i processi di decentramento auspicabili per tutti i soggetti coinvolti nella relazione di aiuto. Occorre inoltre evidenziare che in questi anni l’impegno rivolto alla sistematizzazione della metodologia di lavoro esposta ha raggiunto l’obiettivo apparentemente periferico, ma per noi centrale, di aumentare il grado di consapevolezza e comunicabilità delle proprie intenzioni e azioni terapeutiche.

In conclusione ci sembra importante sottolineare ciò che abbiamo appreso in questi anni di lavoro dall’esperienza di trattamento di bambini e famiglie nell’ambito di patologie complesse e pervasive come i DSA:

La questione più importante sulla quale ci si deve periodicamente interrogare riguarda la capacità di restituire a tutti i soggetti implicati, compresi gli operatori, un senso di efficacia, che produca una spinta ulteriore al cambiamento e alla trasformazione.

Quest’apparente «utopia» riabilitativa può realizzarsi in quei momenti in cui riusciamo a mettere in primo piano le risorse e le aree di sviluppo potenziale della persona coinvolta nel processo di aiuto.

In questo modo si può depotenziare, almeno nei momenti critici del trattamento, la carica negativa rappresentata dai sintomi, che nella loro pervasività e ripetitività rischiano di ingabbiare in una rappresentazione rigida tutti i soggetti coinvolti.8

 

NOTE

1. La nostra équipe riabilitativa è formata da: Neuropsichiatra Infantile, Psicologo, Assistente sociale, Logopedista e Neuropsicomotricista dell’età evolutiva. Essa generalmente si interfaccia con operatori scolastici, famiglia e servizi del territorio.

2. Organizzazione Mondiale della Sanità/OMS, ICF CY/Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Versione per Bambini e Adolescenti, Trento, Erickson, 2007, p. 213.

3. A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN. In P. Venuti e G. Esposito (a cura di), Percorsi terapeutici e lavoro di rete per i disturbi dello spettro autistico, Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 86.

4. G. Gison, E. Minghelli e V. Di Matteo, Una testimonianza del percorso per l’individuazione di procedure valutative neuropsicomotorie, «Psicomotricità», vol. 11, n. 3, 2007.

5. F. Muratori et al., La diagnosi precoce di autismo: dalla ricerca degli indici precoci ai programmi di screening, «Percorsi terapeutici e lavoro di rete», Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 31.

6. Ibidem, p. 49.

7. M. Lavelli, Intersoggettività. Origini e primi sviluppi, Milano, Raffaello Cortina, 2007.

8. A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN, op. cit., p. 98.

 

ABSTRACT

This article examines the interaction between recent theoretical and clinical knowledge and the neuropsychomotor model in Autism Spectrum Disorders. Specific strategies and early intervention are analysed as well as evaluation procedures for identifying therapeutic objectives. Our intervention model integrates a neuropsychological and neuropsychomotor point of view. It gives priority to activity that supports social communication. The activity is based on individual characteristics and the child’s interaction profile, in accordance with the ISS Guidelines, 2011.

 

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Organizzazione Mondiale della Sanità/OMS (2007), ICF-CY. Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Versione per bambini e adolescenti, Trento, Erickson.

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di Simone Cuva (a) e Marilina Mastrogiuseppe (b)

(a) Neuropsichiatra - (b)Psicologa, dottoranda di ricerca Dipartimento di Scienze della cognizione e della formazione, Università degli studi di Trento

La gestualità è un’importante via di comunicazione alternativa per compensare i deficit delle competenze comunicative e linguistiche. Nel caso dei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico, invece, le limitazioni nella comunicazione verbale non sono compensate dall’utilizzo del gesto che, al contrario, si dimostra particolarmente povero sia relativamente alla frequenza con cui è prodotto che alla qualità della sua esecuzione. L’articolo sottolinea l’importanza di rivalutare le funzioni gestuali legate allo sviluppo del pensiero simbolico e alla pragmatica della comunicazione, aspetti a oggi ancora piuttosto trascurati, e sottolinea come la psicomotricità possa ricoprire un ruolo importante e specifico nella presa in carico del bambino con autismo, a patto che integri le nuove conoscenze e sia applicata con criteri definiti e obiettivi precisi, secondo protocolli e modelli condivisibili.

 

INTRODUZIONE

Marco, tre anni, non guarda l’altro negli occhi, non si gira quando viene chiamato per nome, esplora la stanza in maniera afinalistica, muovendosi come una scheggia impazzita e passando da un oggetto all’altro. Quando vuole qualcosa si arrampica fino a rischiare di farsi male, non riesce a effettuare richieste, né a compiere un’azione apparentemente semplice come alzare un braccio ed estendere il dito indice per comunicare ciò che desidera. Eventualmente, se l’adulto è a portata di mano, con la sua mano gli prende il braccio, come se fosse una protesi, un attrezzo, un’estensione, una sorta di «bastone articolato», e lo utilizza per riuscire nel suo intento. Di fronte a oggetti che lo interessano particolarmente si ferma e comincia a saltare e «sfarfallare». Anche se non sembra assolutamente avere disturbi di coordinazione, l’impressione è che il corpo sia disorganizzato nel suo rapporto con lo spazio e che il bambino si muova come avvolto in una bolla che lo separa dall’ambiente circostante, impedendogli apparentemente un contatto.

 

Giovanni è un bambino di dieci anni e ha una passione per i videogiochi e i fumetti, che disegna a getto continuo in maniera stereotipata e ripetitiva, chino sul tavolo senza guardare l’interlocutore negli occhi, ma mantenendo uno sguardo sempre laterale. Il tono di voce ha una prosodia piatta e cantilenante, monotona: è una voce che rimane immobile rispetto ai contenuti emotivi di ciò di cui parla. Nei disegni, che spesso sono solo degli schizzi, tende a riproporre scene di azione dei cartoni animati, molto attive e concitate. Non ha disturbi evidenti nel movimento, ma quando si alza per uscire dalla stanza trasmette la sensazione di trascinare i quattro arti e il tronco; sembra non possedere i normali movimenti che rendono fluidi i passaggi di postura e che permettono sottilmente la naturalezza degli scambi tra organismo e ambiente.

 

Alessandro ha quattordici anni. È un ragazzo molto ansioso che riporta nell’interazione un pensiero di tipo ossessivo; il pensiero e il linguaggio si inceppano costantemente inciampando su se stessi. Quando inciampa mentalmente negli ostacoli rappresentati dai suoi tortuosi e poco comunicabili percorsi di pensiero, sembra provare una sorta di dolore fisico, quanto meno una forte irritazione che gli attiva dei movimenti quasi parossistici, delle stereotipie molto evocative dello stato interno: avvicina le mani davanti agli occhi, estende le dita della destra e stringe a pugno la sinistra per due-tre-quattro volte di seguito. Lo sguardo, che evita sempre l’interlocutore, si concentra invece sulle mani, come se fossero loro che non riescono ad aiutarlo a esprimere il suo pensiero. Pur non essendo mai aggressivo a scuola spesso si allarmano: incute timore Alessandro, quando si altera. È alto e forte e la sua difficoltà di esprimere e condividere il proprio mondo

interiore sembra a volte suscitargli una tale pressione interna da portarlo sul punto di esplodere: le fibre muscolari contratte, lo sguardo perso, la voce che ecolalicamente ripete anche quando non ha fatto niente: «sono stato bravo? Scusa non lo faccio più, vero che non lo faccio più?».

 

Marco, Giovanni e Alessandro sono tre pazienti con una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico. Nonostante le diverse forme del disturbo — Marco ha una diagnosi di Autismo, Giovanni presenta una Sindrome di Asperger, Alessandro ha una diagnosi di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DGS NAS) con una forte componente ossessiva — e le diverse età dei bambini, è evidente un tratto comune ai tre: nell’osservazione di questi pazienti e nell’interazione con loro, l’altro (sia esso un operatore sanitario, un familiare, un compagno di scuola o un insegnante), fin quando non venga costruito un vocabolario condiviso con la persona autistica, percepisce un senso di estraneità, una difficoltà di contatto, un’impossibilità a entrare in uno spazio condiviso che è specifica dell’interazione con l’autismo.

A nostro avviso questo tratto comune è legato, oltre che — ovviamente — ai deficit socio-comunicativi specifici della sindrome, alla centralità della dimensione corporea nell’autismo e delle sue disfunzioni e al modo in cui il corpo, pur non avendo subito danni apparenti, riesce a tradurre e rispecchiare i vissuti interni di questi pazienti.

In questo lavoro proporremo una riflessione sul ruolo della comunicazione non verbale e della dimensione corporea nella comprensione dei Disturbi dello Spettro Autistico. In una prima sezione presenteremo lo stato dell’arte, in una seconda un’esemplificazione clinica di come un lavoro incentrato sulla comunicazione non verbale, con una forte attenzione alla dimensione spaziale come luogo elettivo di intervento, potrebbe rivelarsi di enorme aiuto per l’intervento e la comprensione di queste condizioni cliniche.

 

LO STATO DELL’ARTE: CHE RUOLO HA IL CORPO NELLA DEFINIZIONE E NELLA CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO?

I Disturbi dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorders/ASD) sono disturbi del neurosviluppo con esordio nei primi anni di vita che, come indicato nel DSMIV-TR (APA, 2000), sono caratterizzati clinicamente da compromissioni qualitative delle interazioni sociali e della comunicazione oltre che da un repertorio limitato, stereotipato, ripetitivo di interessi e di attività. Nel DSM-5, di prossima pubblicazione negli Stati Uniti, dovrebbe essere proposta una sostanziale revisione dei criteri per la diagnosi dei Disturbi dello Spettro Autistico. Al posto delle tre dimensioni, quella sociale, comunicativa e degli interessi ristretti e stereotipati, saranno due i domini principali per caratterizzare gli individui con ASD nella loro eterogeneità: l’area del deficit socio-comunicativo e quella degli interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Nella prima area verranno inclusi anche i deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati nelle interazioni sociali, che vanno da una comunicazione verbale e non verbale poveramente integrate, ad anomalie nel contatto oculare e nel linguaggio corporeo, a una totale mancanza di espressioni facciali e gesti.

Nonostante i significativi progressi concettuali e operativi rappresentati dal DSM-V nell’attribuire un ruolo maggiore alle compromissioni nella comunicazione non-verbale, l’impressione generale è che, nelle attuali concezioni dell’autismo e del suo trattamento, la dimensione corporea trovi inspiegabilmente poco spazio. Ciò viene dimostrato anche dalle recenti Linee Guida Italiane (ISS, 2011) che, essendo costruite su una rigorosa revisione della letteratura scientifica attualmente esistente, con l’importante obiettivo di offrire a clinici e famiglie una panoramica scientificamente fondata delle attuali prospettive sull’autismo, non possono includere nella loro disamina questioni ancora poco affrontate nella ricerca.

Il corpo, la motricità e il modo in cui le alterazioni della comunicazione non verbale (a partire dallo sguardo, per arrivare al gesto) sono centrali nella comprensione dell’esperienza di questi pazienti sono stati poco affrontati e studiati, così come lo sono stati i trattamenti che passano per il corpo. Queste carenze sono comprensibili se si pensa all’ottica in cui è proceduta negli ultimi anni la ricerca sull’autismo. Da una parte, infatti, essa è stata sempre più incentrata sull’individuazione del disfunzionamento delle «componenti hardware» del sistema nervoso centrale (siano esse di tipo

genetico o di tipo anatomico), spesso con importanti risultati (Birmingham, Cerf e Adolphs, 2011) ma anche con la sempre maggiore e disarmante consapevolezza del fatto che l’autismo è un disturbo enormemente complesso di cui per certi versi più si sa e meno si capisce.

Dall’altra parte il fecondo filone degli studi neuropsicologici sull’autismo, con le importanti conquiste nella costruzione di modelli della mente utili a comprendere alcune carenze, alcune peculiarità e alcuni stili cognitivi (Frith e Happé, 1994), ha studiato come funziona la mente autistica, ma apparentemente in maniera scissa dal corpo, come se nell’essere umano fosse possibile concepire una mente che, sviluppandosi in astratto, vada a innestarsi su una struttura «contenitore» con poca o scarsa funzione, se non quella di permetterne l’estrinsecazione.

In maniera un po’ provocatoria e paradossale vorremmo qui porre la domanda: e se fosse vero il contrario? Siamo sicuri che sia giusto non contemplare l’alternativa per cui forse è l’atipia della corporeità, intendendo in senso lato il corpo come lo strumento attraverso cui l’essere umano entra in relazione con l’altro e con l’ambiente (raccogliendo anche gli input dall’altro e dall’ambiente) a concorrere alla costruzione di un modello mentale atipico e alle atipie della comunicazione?

Non stiamo certo dicendo che la causa sia nel corpo, poiché esiste una quantità vastissima di deficit corporei che non compromette l’area socio-comunicativa-relazionale. Stiamo piuttosto dicendo che, pur non dovendo essere considerate come fattori causali, si potrebbe cautamente prendere in considerazione il fatto che le anomalie della corporeità costituiscono una delle strade attraverso cui si arriva a un determinato esito. O, ancora più cautamente, stiamo proponendo di considerare in maniera specifica come viene vissuta l’esperienza corporea di una persona che, sin dalle prime fasi della vita, non modula il contatto di sguardo, non indica, fissa alcune sequenze motorie tendendo a eseguire movimenti stereotipati, ecc.

Questo vertice di osservazione ha il senso di aprire una finestra nuova sulla comprensione del mondo autistico, possibile solo ripercorrendo il modo in cui nel corso dei primi anni di vita le esperienze interne ed esterne, i processi di sviluppo dell’individuo e dell’ambiente hanno creato il funzionamento e le modalità di percezione e interazione con la realtà.

 

L’AUTISMO IN UN’OTTICA «DEVELOPMENTAL»: INSIGHT SULLE POSSIBILI ORIGINI E INTERROGATIVI SUL RUOLO DEL CORPO

Alcuni studi recentemente pubblicati su importanti riviste internazionali si stanno rivelando di enorme utilità nella definizione dei percorsi di sviluppo dei bambini con autismo. Si tratta di studi longitudinali che stanno permettendo di comprendere quando sia possibile individuare il fenotipo di bambini effettivamente a rischio di diventare autistici e quali caratteristiche esso abbia (Zwaigenbaum et al., 2009). La maggior parte di questi studi sottolinea come, fino ai 6-12 mesi di vita, il bambino che svilupperà l’autismo sia indistinguibile da quello che intraprenderà una via di sviluppo più o meno «tipico». Dai 12 mesi di vita in poi cominciano a emergere alcuni segni di sospetto che si manifestano con compromissioni o atipicità in diversi domini dello sviluppo (per approfondimenti, vedi tabella 1).

È interessante notare che il periodo in questione è quello dell’esplosione delle competenze grosso-motorie che hanno chiaramente un ruolo trainante nell’integrazione delle aree socio-comunicative-affettive; a titolo esemplificativo si pensi a come la conquista della deambulazione autonoma renda possibile l’esplorazione dell’ambiente e quindi inneschi il gioco di ricerca di equilibrio tra esplorazione e bisogno di sicurezza affettiva con il caregiver, che si estrinseca nel fenomeno della base sicura (vedi Cuva e Waters, 2005).

Se ragioniamo analiticamente su alcuni dei primi segni di identificazione dell’autismo (non si gira quando viene chiamato per nome, non indica, non guarda), vediamo che essi hanno a che fare con un repertorio di azioni e comportamenti che coinvolgono almeno a livello funzionale anche la motricità e la sua scarsa integrazione con le altre dimensioni evolutive. Pure in assenza di un deficit di tipo neuromotorio si realizza in effetti un’impossibilità di condivisione dello spazio interpersonale, che influisce inevitabilmente sulla peculiare strutturazione della modalità autistica di percezione della realtà.

Alcuni studi recenti (Scalzeri, Esposito e Venuti, 2011; Esposito e Venuti, 2008) hanno il merito di

essersi focalizzati sullo sviluppo motorio del bambino con autismo, evidenziando come i bambini con ASD rispetto a bambini con sviluppo tipico e con disabilità intellettiva presentino, già nel primo anno di vita, un’asimmetria più accentuata in tutte le posture (giacere, sedere, camminare), e sottolineano l’importanza di considerare le alterazioni del movimento al fine di formulare la diagnosi differenziale e impostare il trattamento nell’autismo. Lo studio del movimento si rivela dunque indispensabile per la comprensione dello sviluppo nell’autismo; in particolare proponiamo ora un approfondimento su una particolare dimensione che collega l’aspetto motorio a quello comunicativo: il gesto e le sue funzioni.

 

Tabella 1 - – Segni precoci di autismo (Zwaigenbaum et al., 2009)

 

Sviluppo socio-comunicativo con deficit/atipicità in:

* contatto di sguardo e attenzione condivisa

* espressione e regolazione emotiva (ridotta espressione di emozioni positive)

* sorriso sociale

* interessi sociali e piacere condiviso (in assenza di contatto fisico)

* orientamento al nome

* sviluppo dei gesti (ad esempio, il pointing)

* coordinazione di differenti modalità comunicative (sguardo, espressione facciale, gesti, vocalizzazioni)

Gioco

* ridotta imitazione di azioni con gli oggetti

* eccessiva manipolazione ed esplorazione visiva degli oggetti

* limitate e ripetitive azioni di gioco con gli oggetti

Linguaggio e cognizione con una mancanza/ritardo nei seguenti ambiti:

* babbling

* comprensione e produzione linguistica (prime parole strane e ripetitive)

* inusuale prosodia o tono della voce

Sviluppo visivo/percettivo e motorio

* atipicità nel controllo visivo e nella fissazione/ispezione degli oggetti

* risposta atipica ai suoni o ad altre forme di stimolazione sensoriale

* ridotti livelli di attività e una deficitaria abilità motoria fine e grossolana

* comportamenti ripetitivi e atipici, manierismi motori e atipicità nella postura

Funzioni regolatorie

* correlate al sonno, all’attenzione, all’alimentazione

 

 

PERCHÉ È IMPORTANTE STUDIARE LA COMUNICAZIONE GESTUALE NELL’AUTISMO?

Dal nostro punto di vista la comunicazione gestuale si presta a rappresentare una vera e propria sintesi delle difficoltà tipiche dell’autismo. I gesti comunicativi assumono fin dall’inizio dell’ontogenesi un ruolo importante nella comunicazione, grazie alla relazione privilegiata che hanno con il linguaggio. I gesti sono forme comportamentali che sfruttano la motricità del bambino; attraverso essi, però, il movimento in un certo senso perde la funzione per cui è nato: da movimento strumentale usato per compiere azioni sulla realtà fisica diventa, infatti, movimento comunicativo che ha la funzione di influenzare la realtà sociale. Attraverso l’utilizzo della gestualità il bambino è attivo nella comunicazione, può dire senza parlare. I gesti predicono e preparano lo sviluppo comunicativo e linguistico e hanno un ruolo centrale nella comprensione intersoggettiva (Capirci et al., 2010), strutturandosi lentamente durante i primi anni di vita di un bambino secondo tappe ben delineate.

Il percorso di sviluppo dei gesti comincia intorno ai nove mesi e prosegue per tutto il secondo anno di vita, partendo con i gesti performativi o deittici (indicare, mostrare, dare, richiedere) e arrivando ai gesti convenzionali, culturalmente definiti e usati per regolare l’interazione (ad esempio, fare

«ciao» con le mani, «buono» con l’indice sulla guancia), fino ai gesti rappresentativo-iconici che simboleggiano un’idea astratta in modo metaforico o metonimico, ad esempio avvicinare la mano alla bocca per «mangiare», portare il pugnetto chiuso all’orecchio per «telefonare» (ibidem).

La presenza di deficit nell’utilizzo della gestualità per fini comunicativi è centrale nei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico. Compromissioni nella produzione gestuale emergono in modo evidente dai punteggi in misure diagnostiche in cui l’assenza o la scarsa frequenza del gesto è valutata come sintomatica.

Lo sviluppo dei gesti segue nell’autismo un andamento del tutto peculiare sia rispetto allo sviluppo tipico (Luyster, Lopez e Lord, 2007) sia rispetto ad altre popolazioni con sviluppo atipico, come nel caso dei disturbi specifici del linguaggio, della sindrome di Down e della sordità congenita. Nei bambini con queste patologie i gesti costituiscono un’importante via di comunicazione alternativa per supplire i deficit nello sviluppo comunicativo e linguistico (Caselli et al., 2008).

Nel caso dei bambini con ASD, invece, le limitazioni nella comunicazione verbale non sono compensate dall’utilizzo del gesto che, al contrario, si dimostra particolarmente povero relativamente sia alla frequenza con cui è prodotto che alla qualità della sua esecuzione (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007).

Alcune evidenze cliniche e di ricerca dimostrano come i bambini con autismo possano raggiungere un certo livello di produzione gestuale, caratterizzato tuttavia da azioni ritualizzate e gesti strumentali, con una prevalenza di gesti che esprimono funzioni di regolazione comportamentale piuttosto che propositi dichiarativi. Il gesto del bambino autistico tende inoltre a rimanere azione concreta, non assumendo appieno la connotazione di azione comunicativa, come dimostrato anche dall’assenza della modulazione dello sguardo che solitamente accompagna il gesto comunicativo rendendolo tale.

La compromissione fondamentale alla base di tutte queste atipie sembra essere il deficit nei meccanismi di condivisione dell’attenzione, in generale considerati ottimi predittori del successivo sviluppo linguistico. Il ruolo fondamentale dell’attenzione condivisa nell’autismo ha però fatto sì che i gesti venissero considerati il tramite per lo studio dell’attenzione congiunta e non considerati come modalità comunicative di per sé (Paparella et al., 2011).

Altre funzioni gestuali legate allo sviluppo del pensiero simbolico (gesti rappresentativo-iconici) e alla pragmatica della comunicazione (gesti pragmatici e convenzionali) sono aspetti a oggi ancora trascurati. Emerge tuttavia l’importanza di un sistema di classificazione globale e completo che possa consentire una dettagliata analisi delle diverse funzioni del gesto e che consenta di descriverne gli aspetti più qualitativi. La definizione di questa tassonomia (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007) e la possibilità di effettuare uno studio più approfondito della comunicazione gestuale potrebbero rivelarsi molto importanti sia per scopi di ricerca sia per scopi clinici, come sarà in parte mostrato nel prossimo paragrafo.

 

ESEMPLIFICAZIONE CLINICA: LA CONDIVISIONE DELLO SPAZIO COME PARTENZA PER LA COSTRUZIONE DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

In questo paragrafo descriveremo un protocollo di primo intervento sulle competenze di attenzione congiunta in bambini con Disturbi dello Spettro Autistico e affini (in questo caso si parlerà di un bambino di 26 mesi con Disturbo Multisistemico dello Sviluppo). Il presupposto generale, in linea con quanto esposto in precedenza, è che un primo intervento su una dimensione spaziale della relazione, che parte dal mettere genitori e bambino a giocare per terra (Greenspan, 2008), curando gradualmente le posture, le distanze, i posizionamenti, il rapporto con l’oggetto, la sollecitazione dello sguardo, siano tutti aspetti centrali per la riparazione e la costruzione delle competenze intersoggettive e di una più fertile matrice interattiva-relazionale (Cuva et al., 2011; in preparazione).

Riportiamo alcuni estratti di questo percorso terapeutico di intervento mediato dai genitori. Il percorso ha avuto una durata di 10 sedute e si è incentrato sulla diade genitore-bambino con il terapeuta, che ha avuto la funzione di «mediare le distanze» portando a una sempre maggiore condivisione e a una riduzione dello spazio interpersonale tra bambino e genitori.

Il percorso terapeutico è stato analizzato partendo dall’osservazione di una prima seduta triadica, in cui è stato possibile osservare lo schema relazionale «di partenza» dei genitori e del bambino come «punto zero» per uno studio geometrico delle distanze.

 

Il campo

Quando Davide e i suoi genitori vengono invitati a giocare nella maniera più spontanea possibile, si delinea uno scenario denso di difficoltà: i tre componenti della famiglia sono seduti attorno al tappeto ove sono stati distribuiti alcuni giochi. Sono presenti una pervasiva disorganizzazione e una globale mancanza di sintonizzazione tra bambino e genitori. Il bambino esplora l’ambiente a lui sconosciuto, è interessato ai diversi oggetti presenti ma non cerca l’interazione con i genitori che, a loro volta, cercano di proporre diverse attività, in maniera poco organizzata, integrata e spesso conflittuale tra loro, senza riuscire neanche a valutare quanto il bambino possa vedere le attività proposte.

Quando qualche oggetto proposto cattura l’attenzione del bambino, lui si getta sull’oggetto, senza riuscire a condividere, e comincia a giocare in maniera isolata. Osservando l’interazione dall’esterno, sembra che ognuno dei tre individui presenti sia circondato da ostacoli invisibili che non solo non permettono di entrare in contatto ma che anzi determinano una distanza sempre maggiore. Emerge un triangolo disfunzionale, i cui vertici tendono al collasso e non sembrano favorire interazioni di complessità crescente.

 

Inizio dell’intervento

Anche all’inizio delle sedute terapeutiche la configurazione spaziale si delinea come un aspetto molto importante. Due sequenze si dimostrano di particolare interesse in questo senso: nella prima, la madre cerca di coinvolgere il bambino in un gioco di causa-effetto; vorrebbe utilizzare il gioco per favorire l’alternanza dei turni ma alla fine si affanna nel seguire il bambino che, rivolgendole le spalle, getta le palline a distanza e cambia continuamente attività. Il bambino è perennemente di spalle e la madre, che cerca di trovare aperture, non riesce a entrare nel suo campo di azione e sperimenta continui sensi di fallimento.

Nella seconda sequenza, madre e bambino disegnano usando pennarelli colorati; la madre, tuttavia, propone un’attività molto complessa aspettando una risposta da parte del bambino, il quale non è interessato a tutte le proposte della madre, ma continua a scarabocchiare da solo. Il bambino e la madre sono ora uno di fronte all’altra, ma la madre sperimenta comunque difficoltà nell’accedere allo spazio del bambino e creare uno spazio nuovo, condiviso.

Nel primo caso il terapeuta mostra alla madre un altro modo per coinvolgere il bambino: seduto di fronte a lui e portando tutte le palline a distanza (ponendo quindi un ostacolo fisico), le mostra al bambino una alla volta mentre lo chiama per nome e avvicina le palline ai suoi occhi al fine di promuovere il contatto di sguardo (interazione di sguardo) e «imponendo» gradualmente l’alternanza dei turni.

Nel secondo caso, il terapista ha usato i pennarelli colorati per creare il ritmo (battendoli sul tavolo) e il piacere condiviso, accompagnando con suoni le macchie colorate prodotte sul foglio di carta. Il bambino ha reagito con attivazione emotiva positiva, attivando una ricerca della fonte di quello stato piacevole (l’Altro) e accedendo dunque a un primo spazio condiviso, nato dall’incontro dei due campi personali.

 

A metà dell’intervento

La madre ha colto molto rapidamente i suggerimenti del terapista e ha compreso che, per le specifiche modalità di funzionamento del bambino, la costruzione di un campo interpersonale non è una questione spontanea come solitamente accade: tale costruzione deve essere il primo obiettivo dell’interazione. Ad esempio, quando gioca con lo stesso gioco causa-effetto descritto nella seduta precedente ora la madre è attenta a stare seduta di fronte al bambino: da questo nuovo assetto spaziale, la madre promuove turni comunicativi ed è più in grado di utilizzare gli ostacoli fisici come mezzo per coinvolgere il bambino e promuovere l’interazione di sguardo. Il bambino sorride

in risposta alle stimolazioni della madre (sembrano adesso davvero impegnati congiuntamente nell’attività di gioco) e inizia scambi interattivi usando diversi gesti comunicativi (che la madre riconosce e a cui risponde). Il campo intersoggettivo si espande.

Mentre la madre usa i pennarelli produce ora suoni piacevoli (battendoli sul tavolo), facendo finta di fare una partita di scherma e co-costruendo il ritmo. Davide sembra divertirsi e produce molti suoni che accompagnano tutte queste differenti attività. Il terapista interviene proponendo un’attività con un maggior livello di complessità (ad esempio, usando l’embodiment per insegnare quando colpire forte o piano); successivamente la madre è invitata a partecipare all’interazione triadica proposta. Durante questa sessione emerge una crescita significativa nell’utilizzo del gioco simbolico: la madre prende in braccio la bambola e propone semplici sequenze di gioco, come dar da mangiare alla bambola e metterla a dormire, ecc. Quando Davide getta bruscamente la bambola a distanza, la mamma va subito a prenderla e fa finta di confortarla; questa sequenza è prontamente — e sorprendentemente — imitata dal bambino.

 

La fine dell’intervento

Durante l’interazione con la mamma, Davide inizia a essere molto interessato alle attività di gioco simbolico: madre e bambino iniziano spontaneamente un’attività in sequenza che consiste nel preparare la pappa alla bambola. Durante questa attività che sembra divertire entrambi (è presente un alto livello di emozioni positive), Davide produce una serie di gesti del mostrare accompagnati da un buon contatto visivo. Davide mostra anche attività di gioco simbolico: ad esempio, fa finta di parlare al telefono con la nonna usando semplici parole (linguaggio idiosincratico) ma in modo perfetto, quasi seguendo uno script del «parlare al telefono», con pause adeguate e prosodia di buona qualità, mentre rivolge lo sguardo alla madre e al terapista e mostra sorrisi sociali. Il campo interpersonale ormai stabile permette dunque l’accesso alla dimensione simbolica intesa come creazione di significati nuovi e condivisi, verosimilmente preliminari alla nascita del linguaggio.

Attraverso l’applicazione della griglia di codifica (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007) è stato possibile registrare un’evoluzione dei gesti comunicativi da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo. Si sono evidenziate, infatti, una crescita significativa del numero di gesti comunicativi distali e l’emergenza dei gesti del mostrare rivolti alla madre, entrambi accompagnati dallo sguardo al partner e da espressioni emotive positive (Cuva et al., 2011; in preparazione). La ristrutturazione del campo fisico si è dunque accompagnata a una fioritura di competenze comunicative (chiaramente resa possibile in maniera così fluida e veloce anche dal fatto che il bambino presenta un quadro clinico dinamico, come quello del Disturbo Multisistemico dello Sviluppo).

 

CONCLUSIONI

La compromissione comunicativa e, in particolare, quella degli aspetti non verbali rappresenta un aspetto centrale dei Disturbi dello Spettro Autistico. Per proseguire nella loro comprensione è importante concentrarsi sulle caratteristiche di queste modalità, sul terreno in cui hanno luogo e su come possano prendere forma, non dimenticando che il corpo è necessariamente coinvolto, se non altro in quanto strumento di espressione del Sé.

Considerare il corpo centrale nell’intervento vuol dire rileggere in una nuova luce l’intervento psicomotorio, attualmente spesso tacciato di essere un intervento aspecifico e non utile al bambino con autismo.

Il tentativo di costruire una profonda comprensione dell’esperienza esistenziale del bambino autistico, sulla scorta delle esperienze cliniche e di ricerca (Fogassi e Ferrari, 2004), a nostro parere invece chiarisce come l’intervento psicomotorio abbia delle specifiche caratteristiche che lo rendono a tutti gli effetti una modalità terapeutica che può avere un ruolo davvero importante e specifico nella presa in carico del bambino con autismo.

Ovviamente, perché ciò avvenga, la psicomotricità deve saper integrare le nuove conoscenze ed essere applicata con criteri definiti e obiettivi precisi (ad esempio il lavoro sui diversi livelli di intersoggettività, sulla comprensione e significazione delle stereotipie, sulla creazione di un campo condiviso come terreno per la prima comparsa di significati simbolici) secondo protocolli e modelli condivisibili (Bonifacio e Gison, 2009).

 

ABSTRACT

Gestures are an important communication alternative that can compensate for deficits in linguistic and communicative abilities. When referring to children with ASD, however, the use of gestures doesn’t compensate verbal communication skills because they are particularly impoverished both in frequency and quality. This article emphasizes the importance of reevaluating the function of gestures in symbolic thought and pragmatic communication, issues taken into little account even today. Psychomotor intervention can play an important role in therapy with the autistic child, as long as it integrates new knowledge, applies defined criterion and precise objectives that follow protocol and mutual models.

 

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di Gabriel Levi (a) e Maria Romani (b)

a) Professore Ordinario NPI, Università La Sapienza, Roma

b) Professore Incaricato NPI, Università La Sapienza, Roma

 

INTRODUZIONE

I bambini con disturbi dell’attenzione (da) possono o non possono presentare instabilità Motoria (iM). il rapporto tra da e iM viene interpretato secondo un’ipotesi developmental: in primo luogo l’iM può essere intesa come un meccanismo di difesa significativa verso il da e non soltanto come un sintomo aggravato dei da; in secondo luogo il da può essere inteso come un meccanismo attivo di frammentazione della relazione con l’oggetto e della rappresentazione dell’oggetto. sulla base di materiale clinico pertinente vengono discusse quattro situazioni cliniche in cui si configura una diversa equilibrazione del binomio da - IM

 

 

SINDROME ADHD E SVILUPPI PSICOPATOLOGICI

I bambini con Disturbi dell’Attenzione (DA) possono o non possono presentare Instabilità Motoria (IM). I DA con IM possono presentarsi come sindrome specifica (Sindrome ADHD) oppure come sintomo nel contesto di sindromi più complesse: 1.Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS) e Sindrome Border-Line Prepsicotica (BLP);

2. Ritardo Mentale Lieve (RML) e Ritardo Mentale Medio (RMM); 3. Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL) e Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA).

Tenendo presenti queste distinzioni è utile ricordare che, secondo le stime più prudenti, la sindrome ADHD nei Paesi anglosassoni ha una prevalenza dell’1,5% (Taylor e Sonuga-Barke, 2008), mentre nel nostro Paese viene segnalata per circa 6 bambini su 1.000 (Levi, 1998).

I bambini con DA, e in particolare quelli con ADHD, presentano o sviluppano nel tempo, con frequenza impressionante, diversi disturbi psicopatologici associati. La correlazione più studiata è quella fra sindrome ADHD, i Disturbi della Condotta (DC) e i Disturbi Oppositivi Provocatori (DOP), che riguarda da 20 a 45 bambini su 100 con ADHD. Negli ultimi anni sono state considerate con crescente interesse le correlazioni fra sindrome ADHD e Disturbi Depressivi (DD), Disturbi d’Ansia (DdA) e Disturbi di Somatizzazione (DS):

– secondo molti autori (Kovacs e Lopez-Duran, 2010; Sobanski et al., 2010), l’ADHD è il precursore di un’alta percentuale di disturbi affettivi; in particolare, la labilità emotiva caratteristica della sindrome farebbe da nucleo primigenio di un percorso verso un più chiaro disturbo ansioso-depressivo;

– secondo Barkley (2000) i bambini con ADHD presentano con notevole frequenza mal di stomaco, mal di testa, dolori addominali e allergie, otiti medie e raffreddori; secondo Martel, von Eye e Nigg (2010) negli adolescenti con ADHD è largamente presente la sovrapposizione con Disturbi di Somatizzazione.

Questi ultimi dati ci portano verso alcune constatazioni decisamente nuove:

– oltre alla tradizionale e comprensibile correlazione con i Disturbi della Condotta, la sindrome ADHD ha una forte correlazione clinica sia con i disturbi di internalizzazione (depressione, ansia) in cui domina la mentalizzazione del conflitto, sia con i disturbi di somatizzazione in cui le emozioni dolorose non vengono mentalizzate ma vengono evacuate somaticamente;

– le correlazioni fra sindrome ADHD, disturbi di internalizzazione e disturbi di somatizzazione tendono a crescere nel corso dell’età evolutiva e si accentuano nell’adolescenza;

– esiste una ragionevole evidenza del fatto che, all’interno della sindrome ADHD, l’Instabilità Motoria (IM) tende a correlarsi, nel tempo, più con i disturbi di internalizzazione che con i disturbi di somatizzazione;

– i bambini con ADHD di tipo grave hanno, con più alta frequenza rispetto ai bambini normali, un padre che ha presentato ADHD e una madre che presenta una sindrome del tipo ansia-depressione.

Da queste constatazioni cliniche emerge, con chiarezza, l’esigenza di una nuova riflessione:

– la sindrome ADHD si correla, oltre che con i disturbi della condotta, anche con i disturbi depressivo-ansiosi e con i disturbi psicosomatici;

– rispetto ai modelli patogenetici noti, questi tre distinti sviluppi clinici corrispondono a strutture psicopatologiche completamente diverse fra di loro;

– anche da un punto di vista teorico, sarebbe importante capire con maggiore esattezza quale bambino con ADHD ha un rischio per la depressione, quale presenta un rischio per un disturbo della condotta e quale per un disturbo di somatizzazione.

In questa cornice di nuovi dati e di nuovi interrogativi, ci sembra possibile formulare un’ipotesi di lavoro:

– secondo il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1996), la diagnosi di sindrome ADHD segue un modello a due dimensioni in equilibrio tra la disattenzione e l’iperattività - impulsività;

– considerando l’evoluzione della sindrome ADHD rispetto ai tre possibili sviluppi psicopatologici (disturbo della condotta, ansia-depressione, disturbo di somatizzazione), diventa interessante studiare il rapporto fra disturbo dell’attenzione e iperattività (instabilità motoria) come un rapporto polare;

– il quesito clinico centrale sarebbe: in quale modo il bambino con ADHD, giocando sulla polarità Disturbo dell’Attenzione-Instabilità Motoria, può sviluppare nel corso degli anni strutture psicopatologiche completamente diverse?

In altri termini: la polarità Disturbo dell’Attenzione-Instabilità Motoria può essere considerata come un ponte psicosomatico sempre presente e spesso determinante nella sindrome ADHD?

 

CASI CLINICI

Seguendo la traccia proposta, cerchiamo di esaminare diverse situazioni cliniche, in cui si configura una differente equilibrazione del binomio DA-IM:

– una situazione in cui il DA tende a essere ridotto dall’IM attraverso un meccanismo di filtro psicosomatico;

– una situazione in cui il DA tende a bloccare le capacità di movimento, manipolazione ed esplorazione;

– una situazione in cui l’IM tende a sollecitare un gioco di attenzione-disattenzione, come tentativo paradosso di mentalizzazione;

– una situazione in cui il DA tende a diventare incontenibile e mentalmente distruttivo, a causa dell’IM pervasiva.

Per tutte queste osservazioni cliniche, la chiave di lettura proposta è quella della polarità DA-IM, intesacome una polarità fra un tentativo di somatizzazione e un tentativo di mentalizzazione.

 

Luigi (5 anni)

«Da tre anni ogni mese che passa diventa più agitato, sempre in movimento», «È come se avesse sempre bisogno di stancarsi… Però quando è stanco fa compassione, perché sembra malato… Quando è triste sembra scaricato…». Fino ai due anni, Luigi ha presentato insonnia grave; dai 15 ai 36 mesi ha esibito manifestazioni asmatiche frequenti, che si sono bruscamente interrotte. È un bambino che riesce a mantenere la vigilanza, l’attenzione, la continuità e la partecipazione soltanto quando può, in qualsiasi modo, muoversi («se sto fermo non capisco…»). La sua attività motoria può essere complessa, articolata e finalizzata oppure elementare, parassita e non finalizzata; in ogni caso appare incessante e incontrollabile.

Fin quando si muove, anche se l’iperattività sembra interferire con il suo progetto del momento, Luigi mantiene l’iniziativa, la concentrazione e la relazione con l’altro: «Gira, gira, che non si capisce come non gli vengono le vertigini… deve sempre toccare tutto… Sembra un cane da fiuto… però, sa sempre trovare quello che vuole e come ottenere simpatia da chi vuole…». Luigi si distingue quando sta fermo e non riesce a controllare e focalizzare, muovendosi, il flusso di nuove percezioni: «Se non corre a toccare tutto, perde la bussola e la mappa…».

In un certo senso, utilizza l’iperattività motoria per autosostenersi; finché si muove, manipola o semplicemente riverbera piccoli movimenti, Luigi riesce a contenere le sue emozioni e a dare un contenuto ai suoi pensieri. Ha un disturbo dell’attenzione di tipo pervasivo: tende a iperattivare l’attenzione estensiva per privilegiare e scegliere le informazioni desiderate; non riesce a filtrare le informazioni utili dal flusso inarrestabile delle informazioni irrilevanti, ridondanti, ripetitive, interferenti. Con un meccanismo paradosso, utilizza l’iperattività motoria come filtro percettivo e come volante attentivo.

 

Manuel (5,8 anni)

«Appena si muove si angoscia, non capisce più nulla e non presta più attenzione né a quello che succede, né a quello che sta facendo…», «Preferisce chiudersi nel suo guscio e restare immobile a guardare e a pensare…», «Ha molta paura anche se vede che gli altri si muovono, soprattutto se con rapidità…», «Se deve seguire la traiettoria di un pallone, guarda in tutte le direzioni, anche quelle più improbabili».

Nel secondo anno di vita, Manuel ha presentato spasmi affettivi, con frequenza quasi settimanale. È soggetto a frequenti episodi faringo-tonsillari e a febbri ricorrenti aspecifiche. Quando riesce a conquistare una posizione ferma e stabilizzante, Manuel rimane attento anche a lungo rispetto ai giochi e alle iniziative degli altri bambini; in qualche modo riesce a seguire, dirigere e sviluppare un suo programma: «Se può stare fermo, sa come mantnere il controllo degli altri e la propria attenzione…». È un bambino che si muove molto, affettuoso e sempre a caccia di un contatto emotivo; se non riesce a catture l’interazione e l’affettività degli altri, si frustra e diventa sempre più irrequieto e iperattivo, come se volesse scappare, disperdersi e non pensare. In realtà, siccome Manuel è goffo e scoordinato, sembra che, quando resta senza un collegamento attentivo, si scomponga in tantissime piccole azioni prive di significato; l’angoscia gli cresce dentro e intorno, ma il bambino sembra incapace di conferire una direzione e un senso alle sue iniziative. In queste situazioni Manuel parla come un bambino molto più piccolo. In sintesi, Manuel pensa se sta fermo e può bloccare ogni movimento per concentrarsi; quando si muove, si angoscia e non riesce a pensare; quando si angoscia diventa instabile; quando è instabile, evacua emozioni intollerabili.

 

Roberto (3,6 anni)

«Finché riesce a muoversi, non sta male… è come se il movimento lo proteggesse dal dolore», «Forse non soffre perché riesce a non pensare e a distruggere le emozioni…». Roberto ha frequenti otiti medie; ha avuto anche la perforazione del timpano; accusa molto spesso, con grande angoscia, otalgie. È un bambino instancabile: se lasciato a se stesso, da solo o in gruppo, sviluppa un’attività tanto inarrestabile quanto frammentaria; «getta da tutte le parti» tantissime piccole azioni, ma non le lega in un programma coerente; se viene contrastato, la sua iperattività si riduce per quantità e variabilità e Roberto fa poche cose meno significative e più stereotipe; se l’iperattività non viene ostacolata, per quanto si mantenga elevata e dilagante, tende lentamente a diventare più integrata; compaiono alcune azioni finalizzate principali che, per quanto disturbate da interferenze motorie parassite, riescono a concludersi. In questo bambino il disturbo di attenzione consente, per quanto con difficoltà, lo sviluppo di pensieri e di legami affettivi, se e quando non risulta inflazionato dall’instabilità motoria. L’instabilità motoria viene attivata da Roberto per bloccare sensazioni traumatiche (eccitazioni interne, frustrazioni esterne), ma come contrappeso annulla in lui la possibilità di capire e di condividere. In sintesi, per Roberto l’IM aggrava il DA; l’IM compare quando l’attenzione non può essere condivisa e direzionata e in questo caso l’IM diventa una fuga psicosomatica.

 

Arianna (6,10 anni)

«Da quando è piccolissima, non si fa toccare e non tocca…», «In condizioni di stress, anche minimo, prima tende a paralizzarsi come se fosse diventata di pietra e dopo comincia la tempesta dei movimenti…». Arianna è una bambina attenta e curiosa, ma non riesce a concentrarsi su nulla in particolare; per mantenere l’attenzione deve bloccare qualunque interferenza dall’esterno. Molte volte sembra che Arianna si distragga anche perché non è capace di contenere e di legare le emozioni, le fantasie e i ricordi: «È come se avesse un rubinetto interno che non sa mai come chiudere…». Le difficoltà di Arianna (disturbo di attenzione, labilità emozionale) tendono a sovrapporsi: se viene colta di sorpresa da uno stimolo imprevisto (un rumore anche minimo, un oggetto diverso, ecc.), la bambina può essere travolta dall’emozione (non sempre di angoscia) e alterna atteggiamenti di vera e propria paralisi a esplosioni di iperattività. In sintesi, Arianna non sa integrare attenzione e movimento; l’attenzione non è utilizzata né per dirigere né per arginare l’attività motoria; l’iperattività motoria non ha la funzione di una somatizzazione difensiva e neppure quella di un’evacuazione mentale. Questa bambina non è capace di «contenere» un’attenzione volontaria sostenuta e non è in grado di liberare una motricità involontaria comunque piacevole o di contatto. Con un’inquietante convergenza, Arianna presenta un eczema ricorrente molto doloroso e, in qualche modo, studia per diventare stupida, sperimentando una progressiva inibizione delle sue competenze cognitive. Da alcuni mesi la bambina lamenta cefalea.

 

CONCLUSIONI

Nel contesto della sindrome ADHD, i bambini che presentano DA possono o non possono presentare IM. In ogni caso va ricordato che il rapporto tra DA e IM non è stabile e assoluto (Rohde, 2008; Wood et al., 2010): molti bambini con DA possono presentare IM solo in certe situazioni o per un determinato periodo di tempo più o meno lungo. In generale il passaggio da DA a IM è messo in correlazione con due fattori attivanti: la maggiore o minore espressività clinica di un terreno sottostante costituito dal Minimo Danno Neurologico; la maggiore o minore interferenza di un contenimento affettivo improprio che può essere giocato da parte della madre e degli interagenti verso il DA.

Se sviluppiamo il discorso clinico fatto sinora, il rapporto tra DA e IM può essere interpretato in maniera molto diversa:

– l’IM, invece che come un’aggravante, può essere intesa come un meccanismo di equilibrio dinamico, o persino di difesa attiva, verso il DA;

– il DA può essere inteso come un meccanismo attivo di frammentazione della relazione con l’Oggetto e della rappresentazione mentale di esso.

I bozzetti clinici che abbiamo presentato ci consentono di inquadrare meglio le interazioni fra DA e IM nell’ambito della sindrome ADHD:

– DA e IM non sembrano essere sintomi isolati e più o meno compresenti; nell’economia più generale della sindrome ADHD sembrano essere due disfunzioni collegate e giocate in equilibrio dinamico e con diverse possibili soluzioni;

– alcuni bambini usano, anche con un certo successo, l’IM per controllare, direzionare e ridurre il DA; per altri bambini il DA sembra creare una situazione mentale catastrofica che viene scaricata, per evacuazione ma con danno psicologico, attraverso l’IM;

– alcuni bambini riducono o inibiscono, con un grande sforzo psicologico, la propria attività motoria proprio e soltanto per poter utilizzare bene l’attenzione al servizio del pensiero; altri bambini partono da un’inibizione motoria e arrivano a un’inibizione attentiva, che risulta un fattore di danno per lo sviluppo del pensiero;

– attenzione e movimento sono due funzioni mentali che, nello sviluppo normale, costituiscono un ponte fra realtà interna ed esterna e fra corpo e mente; il DA e l’IM possono favorire soluzioni molto originali nell’equilibrio fra processi di somatizzazione e di mentalizzazione.

Secondo Freud, l’attenzione e il movimento sono gli pseudopodi del sistema Percezione-Coscienza; attraverso questi pseudopodi l’inconscio cerca, lancia e riceve stimolazioni; quando la stimolazione diventa eccessiva o non coerente, gli pseudopodi possono essere ritirati e l’inconscio mantiene delle difese protettive. Questa ipotesi è di grande interesse per comprendere la polarità DA-IM nei bambini con ADHD: movimento e attenzione sono gli pseudopodi utilizzati per raggiungere un equilibrio ottimale fra stimolazione interna e stimolazione esterna. Quando questo equilibrio viene rotto e la stimolazione tende a essere traumatica o carenziale, possono emergere meccanismi paradossali nelle sinergie necessarie fra attenzione e movimento. Nella sindrome ADHD attenzione e movimento possono essere due funzioni utilizzate l’una al servizio dell’altra oppure l’una contro l’altra.

 

ABSTRACT

Children with attention-deficit disorder (add) may or may not have Hyperactivity (H). The relationship between add and H is interpreted in the light of a developmental hypothesis: 1. H can be considered as a significative defensive mechanism against add and not only a more severe symptom of add; 2. add can be considered as an active fragmentation mechanism of relation with the object and of the representation of the object. on the basis of pertaining clinical material, four clinical situations are considered, each containing a different balancing of the binomial add -IM

 

BIBLIOGRAFIA

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Levi G. (1998), Il bambino iperattivo , «Enciclopedia Medica Italiana», Firenze, USES, pp. 704-711.

Levi G. e Romani M. (2007), Il bambino iperattivo, «Enciclopedia Medica Italiana», terzo aggiornamento, Firenze, USES, pp. 382-403.

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Rohde L.A. (2008), Is there a need to reformulate ADHD criteria in future nosologic classifications?, «Child and Adolescent Psychiatry of North America», vol. 17, pp. 405-420.

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Taylor E. e Sonuga-Barke E. (2008), Disorders of attention and activity. In M. Rutter et al. (a cura di), Rutter’s Child and Adolescent Psychiatry, 5th edition, London, Blackwell.

Wood A.C., Buitelaar J., Rijsdijk F., Asherson P. e Kuntsi J. (2010), Rethinking shared environment as a source of variance underlying ADHD symptoms, «Psychological Bullettin», vol. 37, pp. 331-340

 

di Andrea Bonifacio, (a) Giovanna Gison (b) e Ermelinda Minghelli c

a) TNPEE e Psicologo, b) TNPEE e Dottore in Psicologia, c) TNPEE Centro Medico Riabilitativo, Pompei (NA)

Lo scopo di questo articolo è esporre i principi e le caratteristiche generali della metodologia di intervento che si è delineata nel corso dell’ultimo decennio, all’interno del nostro gruppo di lavoro. Durante questo periodo abbiamo seguito numerosi casi di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA), accomunati dalla significativa caratteristica della diagnosi precoce, stabilizzata intorno ai 24-30 mesi circa. Abbiamo analizzato in maniera sistematica le caratteristiche del disturbo precoce, la loro evoluzione e le aree prioritarie di intervento, in quanto organizzatrici dello sviluppo successivo. Questo non ci ha portato a un nuovo, ennesimo, metodo di trattamento, ma a organizzare nella maniera più dichiarabile, tracciabile e verificabile possibile l’approccio abilitativo e terapeutico proprio della cultura neuropsicomotoria.

Il modello di intervento proposto, OPeN-Intervento Integrato in ottica Neuropsicomotoria e Neuropsicologica, si fonda su alcuni principi, primo fra tutti quello dell’integrazione non solo di diverse ottiche, ma anche di professioni e persone che, rivestendo ruoli differenti, accompagnano il bambino nel suo processo di crescita. Tale principio risponde alla necessità di contrastare la tendenza alla moltiplicazione e, talvolta, sovrapposizione degli interventi; la prospettiva dell’integrazione si esplica, infatti, attraverso la coerenza interna del percorso unita al posizionamento attivo di tutte le persone che partecipano ad esso. L’articolo tratterà l’interazione tra le conoscenze teoriche acquisite, quelle della clinica e quelle proprie del modello neuropsicomotorio nello specifico dei Disturbi dello Spettro Autistico. Verranno analizzate le fasi precoci dell’intervento, le procedure valutative e quelle per l’individuazione delle strategie e degli obiettivi terapeutici.

Il nostro modello d’intervento integrato in un’ottica neuropsicomotoria e neuropsicologica privilegia, nelle fasi iniziali, attività indirizzate in modo particolare a supportare la comunicazione sociale sulla base delle caratteristiche individuali e del profilo interattivo del bambino, in accordo con le Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità/ISS (2011).

L’approccio integrato rappresenta per noi, inoltre, una certa idea di lavoro di équipe, 1 in cui ogni operatore deve svolgere la funzione di facilitatore della comunicazione nella costruzione di reti tra i singoli servizi/sistemi implicati nella relazione di aiuto. Il tutto all’interno di un processo il cui fine è generare autonomia, non solo nel bambino, ma anche nelle persone che sono presenti e operano nel suo ambiente di vita. Ciò anche in accordo con il modello bio-psico-sociale dell’ICF-CY, che in relazione ai fattori ambientali dà grande importanza a tutti gli elementi «che formano il contesto di vita di un individuo e, come tali, hanno un impatto sul funzionamento della persona. Tali fattori includono l’ambiente fisico e le sue caratteristiche, il mondo fisico creato dall’uomo, altre persone in diverse relazioni e ruoli, atteggiamenti e valori, sistemi sociali, servizi, regole e leggi». 2 La necessità di un approccio integrato viene, inoltre, sostenuta all’interno del documento Bioetica e Riabilitazione prodotto dal Comitato Nazionale per la Bioetica, in cui si pone l’accento sul concetto di relazionalità, in termini di collaborazione, fiducia, solidarietà e aiuto tra le persone impegnate nel percorso riabilitativo: la persona con disabilità, il medico, i terapisti, la famiglia, ecc. Le strategie educative e terapeutiche devono nascere dalla condivisione del progetto, da «un’alleanza riabilitativa» alimentata dal dialogo continuo e dalla collaborazione reciproca di tutti i soggetti coinvolti (Comitato Nazionale per la Bioetica, 2006). L’assunzione di questi principi, non solo da un punto di vista teorico, ma attraverso una reale integrazione nel proprio sistema di lavoro, è fondamentale innanzitutto al fine di contrastare fenomeni di autoreferenzialità. Facilitare la costruzione di reti, infatti, consente di esplorare i diversi livelli di complessità del DSA e di prestare attenzione alle barriere, alle facilitazioni, ai limiti e alle risorse presenti nel contesto di vita del bambino. L’assenza di un simile modello concettuale comporterebbe il rischio di una «importazione acritica» di tipologie d’intervento, avulse dalle risorse territoriali, dai reali bisogni del bambino e della sua famiglia.

 

Dall’osservazione al profilo interattivo

Ogni bambino con DSA si presenta con il proprio stile interattivo, le proprie caratteristiche funzionali, neuropsicomotorie e cognitive e l’intervento che proponiamo si pone l’obiettivo di rispondere a queste esigenze diversificate attraverso un approccio altamente individualizzato. Questo principio lo ritroviamo espresso, sotto forma di Raccomandazione, nelle Linea Guida 2011 dell’ISS: Gli interventi a supporto della comunicazione sociale vanno presi in considerazione per i bambini e gli adolescenti con DSA; la scelta di quale sia l’intervento più appropriato deve essere formulata sulla base di una valutazione delle caratteristiche individuali del soggetto. Secondo il parere degli esperti, è consigliabile adattare l’ambiente comunicativo, sociale e fisico di bambini e adolescenti con DSA: le possibilità comprendono il fornire suggerimenti visivi, ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, seguire una routine, un programma prevedibile e utilizzare dei suggerimenti, minimizzando le stimolazioni sensoriali disturbanti. Questa raccomandazione sottolinea ancora una volta la necessità di favorire processi di condivisione tra i diversi ambienti di vita, che devono adattarsi e modificarsi al fine di facilitare la comunicazione e l’interazione in tutti i suoi aspetti. Ma, analizzandone le implicazioni in relazione alla pratica clinica, rileviamo come tale raccomandazione abbia da sempre costituito un perno centrale nel contesto di osservazione e intervento neuropsicomotorio. Proprio in relazione al fornire suggerimenti visivi, seguire una routine e un programma prevedibile, si pensi infatti all’importanza che rivestono la costruzione del setting e l’organizzazione della seduta, che avvengono ediante dispositivi spazio-temporali fondati su regolarità, predicibilità e coerenza, principi che sono organizzati attraverso specifiche strategie. Ad esempio, il setting psicomotorio individua e struttura due luoghi distinti nel medesimo spazio d’azione della seduta: il primo, connotato da materiale poco strutturato (materassi, cuscini, spalliere, corde), che consente e facilita l’accesso del bambino a esperienze di attivazione e interazione con l’adulto sul piano corporeo, di tipo sensoriale, cinestesico, motorio, che sono alla base dello sviluppo di schemi sensomotori e interattivi; il secondo, corrispondente a una successiva fase della seduta sul piano temporale, è organizzato in modo differente (solitamente vi sono un armadio, un tavolo e delle sedie) e definisce l’incontro del bambino con oggetti e immagini e, più in generale, favorisce attività di decentramento, al servizio dell’organizzazione funzionale, simbolica, prassica e comunicativa. Questa strutturazione sollecita una nuova organizzazione tonico-posturale, che progressivamente permette al bambino e al terapista di circoscrivere lo spazio di condivisione, focalizzare un obiettivo comune e attivare precisi codici di scambio. Tale suddivisione stabile del setting rappresenta un principio organizzatore, elemento che ci permette da subito di osservare cambiamenti temperamentali e comportamentali, in termini di competenze adattive e di intenzionalità in rapporto alle azioni prodotte dal bambino.

Un altro aspetto riguarda la necessità di minimizzare le stimolazioni sensoriali disturbanti, obiettivo centrale in una prima fase del progetto riabilitativo e che richiede una notevole attenzione a una serie di particolari che, a partire dall’osservazione individualizzata di ogni bambino accompagnata dalle informazioni fondamentali raccolte dalla famiglia, ci consente di costruire specifici profili sensoriali. Pertanto particolare attenzione è data alla fase dell’osservazione neuropsicomotoria, guidata da ipotesi, sistematica e continuativa nel tempo; una metodologia osservativa in cui si modificano le condizioni naturali per favorire la comparsa di determinate azioni, che si avvale del ruolo di supporto dell’adulto nelle attività condivise con il bambino. Tale stile osservativo non può prescindere, di conseguenza, dalla co-regolazione interpersonale, vale a dire dal processo di mutuo e continuo aggiustamento dei partner di un’interazione. 3 Questa specifica strategia di osservazione, e più in generale d’intervento, sostiene il principio di ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, o meglio di adattarle al profilo interattivo del bambino.

Un altro principio fondante è rappresentato dalla specifica attitudine, tipica della cultura psicomotoria, nel privilegiare l’interazione mediata dall’esperienza del corpo come condizione primaria per l’integrazione delle relazioni interpersonali e delle funzioni mentali, così da prevedere, durante l’intervento, facilitazioni costanti e stabili, finalizzate a promuovere processi di regolazione, continuità e integrazione.

Progressivamente, attraverso la sintonizzazione dell’adulto sugli indici espressivi del bambino, è possibile individuare il suo specifico profilo interattivo, vale a dire la sintesi tra competenze funzionali, stile interattivo, profilo sensoriale e aspetti temperamentali. Definito questo, si procede fissando gli obiettivi evolutivi dell’intervento terapeutico, per il cui raggiungimento ci avvaliamo dell’attivazione delle seguenti aree di gioco:

– giochi di attivazione sociale;

– giochi di esplorazione, imitazione e uso sociale dell’oggetto;

– giochi sensomotori a valenza rappresentativa.

 

Dagli obiettivi alla metodologia d’intervento

All’interno di ogni area di gioco, alla fase osservativo-valutativa segue la fase d’individuazione degli obiettivi, resi condivisibili e verificabili attraverso l’uso integrato della scheda di osservazione neuropsicomotoria (SON)4 e l’ICF-CY. La selezione degli obiettivi specifici avviene individuando di volta in volta la competenza emergente, che rappresenta il livello di sviluppo potenziale in cui collocare le sollecitazioni. In particolare consideriamo competenza emergente quella competenza espressa dal bambino solo a partire da una facilitazione proposta dal terapista.

La procedura che conduce, quindi, dall’osservazione fino all’individuazione degli obiettivi è strettamente correlata all’individuazione delle facilitazioni e delle strategie e non può prescindere dal ruolo e dal sistema di attitudine del TNPEE. Ci riferiamo nello specifico alla sua competenza a stimolare, condividere e contenere lo scambio emozionale con il bambino, alla sua capacità di assumere una funzione di rispecchiamento, al fine di amplificare, ridurre, rallentare, esagerare gli indici espressivi. Queste modalità, acquisite attraverso una formazione specifica, rappresentano i mediatori che sostengono l’attenzione del bambino all’altro, o meglio all’interazione. In altre parole, il punto di partenza di ogni incontro con il bambino, che rappresenta lo stile e il filo conduttore dell’intervento, deve essere la ricerca di temporanee condizioni di allineamento a livello tonico, posturale, spaziale, temporale e motorio, che determinano situazioni di accordo emotivo tra il terapista e il bambino. Queste condizioni, come ad esempio un determinato contatto fisico o visivo, rappresentano un aspetto necessario ma non sufficiente alla costruzione di una configurazione interattiva stabile. Essa necessita, infatti, anche e soprattutto della capacità di osservare il bambino e d’individuare precisamente il momento in cui ha bisogno di essere lasciato solo, oppure di distogliere attivamente lo sguardo, a sostegno di un processo di autonomia, che gli consentirà di scegliere di allontanarsi o avvicinarsi all’altro. L’alternanza di tali schemi gli garantirà la possibilità di sperimentarsi nell’interazione come individuo attivo e non solo re-attivo o responsivo; un soggetto dell’interazione che partecipa nel definirne i tempi, i confini e le modalità. Il percorso per il raggiungimento degli obiettivi evolutivi è segnato dal raggiungimento di micro-obiettivi a breve termine e specifici. Tutto il processo che conduce al determinarsi di ogni configurazione interattiva risulta fondamentale, in quanto essa funge sempre da vettore per l’attivazione delle aree di gioco. Le tre aree sopra individuate (attivazione sociale, esplorazione e giochi sensomotori), sia nello sviluppo tipico che nella pratica clinica, si presentano ricche di contaminazioni, sovrapposizioni e in stretta relazione tra di loro; al contrario la loro schematizzazione e separazione ci consente di esplorarne le caratteristiche, individuandone le relative strategie e gli obiettivi terapeutici.

Va precisato d’altronde che lo sfondo dell’intervento è dato proprio dalla ricerca e dalla sollecitazione di connessioni tra le diverse aree. Per ciò che concerne i giochi di attivazione sociale, essi sono riferiti a tutte quelle interazioni che, nello sviluppo tipico, si manifestano a partire dai primi mesi di vita sotto forma di giochi faccia a faccia, tra l’adulto e il bambino, in cui prevalgono mutui processi di regolazione, di attenzione e di scambio comunicativo, sostenuti dalla reciproca organizzazione tonico-posturale.

A partire da queste condizioni di vero e proprio dialogo tonico l’adulto, attraverso vocalizzazioni ed espressioni facciali amplificate, facilita l’espressività di alcuni segnalatori dello sviluppo comunicativo sociale, quali sguardo referenziale, sorriso, attenzione condivisa e imitazione, sullo sfondo di un assetto tonico-posturale costantemente adattato e modulato in relazione alle variazioni esperite. Si vengono così a creare delle configurazioni interattive; in altre parole, si delinea quello specifico pattern che caratterizzerà le interazioni tra «quel bambino e quell’adulto».

La costruzione di queste configurazioni si rivela particolarmente importante con i bambini con DSA, «in quanto nelle prime fasi dello sviluppo essi mostrano deficit fluttuanti dell’intersoggettività e cioè di quella particolare sincronia tra le espressioni facciali, vocali e gestuali dei lattanti e delle loro madri».5 Ne consegue che, soprattutto nelle prime fasi, il nostro intervento è caratterizzato da un contesto relazionale stabile, permeato da interazioni emotivamente sostenute, volte a supportare esperienze di efficacia comunicativa. A favore di questo orientamento metodologico, negli anni si sono susseguite numerose evidenze scientifiche che sottolineano l’importanza della sollecitazione dell’area comunicativo-sociale, in quanto essa «può ridurre gli effetti cumulativi a valle delle disfunzioni dell’intersoggetività e favorire la maturazione biologica del cervello sociale» (Wetherby, 2006; Greenspan, 1998- 2006; Rogers, 1991). 6 Nel bambino con DSA colpisce da subito l’alterazione dell’attenzione visiva coordinata,7 sia in termini di difficoltà a spostare il proprio sguardo dall’oggetto al volto dell’adulto, che in termini di guardare nella direzione in cui l’adulto sta guardando. Si rilevano spesso, inoltre, un interesse atipico per alcune caratteristiche senso-percettive dell’oggetto (forme, suoni, logo), una manipolazione e un uso estremamente poveri, scarsamente variabili e talvolta stereotipati. Al contrario in alcuni bambini possono presentarsi delle isole di abilità: ad esempio, essi possono comporre rapidamente puzzle o compiere movimenti sofisticati producendo rotazioni oppure oscillazioni, imprimendo così movimenti atipici agli oggetti. Alcuni bambini sviluppano veri e propri rituali con l’oggetto, che si esprimono attraverso attività di allineamento, spezzettamento, serialità, ecc.

L’intervento, in quest’area, si organizza a partire dall’identificazione degli oggetti/materiali che suscitano maggiormente l’interesse del bambino, dal facilitare l’assunzione di un assetto posturale adattato allo scambio e alla condivisione dell’attività con l’oggetto. Alcune strategie si sono rivelate nel tempo molto efficaci, quali, ad esempio, un’accurata selezione del materiale e la sua presentazione graduale: tali strategie sono soggette a un’elevata individualizzazione. Altre riflessioni riguardano il gioco sensomotorio a valenza rappresentativa: esso è costituito da azioni che coinvolgono prevalentemente il corpo e il movimento, con schemi che, nello sviluppo tipico, si manifestano attraverso azioni quali apparire e scomparire, scappare ed essere presi, entrare e uscire, giochi di caduta e simili. Queste azioni, unite al piacere associato alla loro attuazione e ripetizione, esprimono il modo in cui il bambino esercita e potenzia le sue competenze motorie, prassiche e rappresentative.

Quest’area di gioco si caratterizza per la rapidità delle acquisizioni, per le sue caratteristiche universali e per la portata simbolica, in quanto per noi terapisti l’azione è sempre il prodotto di un’interazione. Quello che si rileva nei bambini con DSA è che possono presentare un tono di base spesso scarsamente modulato e regolato in rapporto all’azione e all’altro, accompagnato da un’organizzazione gestuale altamente deficitaria; l’orientamento posturale e l’organizzazione spazio-temporale del movimento risultano spesso disfunzionali. La presenza di stereotipie e di movimenti ripetitivi, inoltre, può pervadere il livello di attivazione. Anche in questo caso si tratta di deficit fluttuanti, di intensità variabile, che in generale caratterizzano l’espressività ludico-sensomotoria, rendendola frammentata, caotica e con finalità scarsamente riconoscibili.

Come ben delineato dagli studi di Piaget fino alle scoperte più recenti della psicologia dello sviluppo, questo livello ludico sostiene i processi rappresentativi e simbolici attraverso la progressiva maturazione di rappresentazioni mentali a partire dal graduale affinamento degli schemi di azione. Pertanto assumono particolare importanza le strategie fondate sul riconoscimento del valore dell’azione spontanea del bambino, strategie che, attraverso processi di attribuzione di senso, di selezione e di strutturazione del contesto di gioco, perseguono il fine di costruire anche in questo caso esperienze di un sé agente efficace.

L’intervento OPeN prevede, infine, un’articolazione per fasi, in quanto riteniamo che esso debba adattarsi progressivamente ai mutevoli bisogni di un soggetto affetto da DSA, mutevoli in rapporto all’età, all’evoluzione del quadro clinico e ai cambiamenti del contesto di vita.

All’interno di questa articolazione è possibile distinguere:

– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento delle competenze interattivo-sociali e comunicativo-linguistiche;

– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento

– intervento mediato dai genitori;

– sviluppo di programmi psico-pedagogici;

– progetti per lo sviluppo delle autonomie personali e sociali;

– proposte finalizzate a favorire la condivisione di attività all’interno di piccoli gruppi.

Per l’applicazione del modello OPeN è previsto l’utilizzo della documentazione scritta, che implica l’impegno, da parte di tutti, a utilizzare un linguaggio condivisibile.

Essa, inoltre, facilita i processi di decentramento auspicabili per tutti i soggetti coinvolti nella relazione di aiuto.

Occorre inoltre evidenziare che in questi anni l’impegno rivolto alla sistematizzazione della metodologia di lavoro esposta ha raggiunto l’obiettivo apparentemente periferico, ma per noi centrale, di aumentare il grado di consapevolezza e comunicabilità delle proprie intenzioni e azioni terapeutiche.

In conclusione ci sembra importante sottolineare ciò che abbiamo appreso in questi anni di lavoro dall’esperienza di trattamento di bambini e famiglie nell’ambito di patologie complesse e pervasive come i DSA: La questione più importante sulla quale ci si deve periodicamente interrogare riguarda la capacità di restituire a tutti i soggetti implicati, compresi gli operatori, un senso di efficacia, che produca una spinta ulteriore al cambiamento e alla trasformazione. Quest’apparente «utopia» riabilitativa può realizzarsi in quei momenti in cui riusciamo a mettere in primo piano le risorse e le aree di sviluppo potenziale della persona coinvolta nel processo di aiuto. In questo modo si può depotenziare, almeno nei momenti critici del trattamento, la carica negativa rappresentata dai sintomi, che nella loro pervasività e ripetitività rischiano di ingabbiare in una rappresentazione rigida tutti i soggetti coinvolti.

 

 

NOTE

1 La nostra équipe riabilitativa è formata da: Neuropsichiatra Infantile, Psicologo, Assistente sociale, Logopedista e Neuropsicomotricista dell’età evolutiva. Essa generalmente si interfaccia con operatori scolastici, famiglia e servizi del territorio.

2 Organizzazione Mondiale della Sanità/OMS, ICF CY/Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute Versione per Bambini e Adolescenti, Trento, Erickson, 2007, p. 213

3 A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN. In P. Venuti e G. Esposito (a cura di), Percorsi terapeutici e lavoro di rete per i disturbi dello spettro autistico, Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 86.

4 G. Gison, E. Minghelli e V. Di Matteo, Una testimonianza del percorso per l’individuazione di procedure valutative neuropsicomotorie, «Psico- motricità», vol. 11, n. 3, 2007.

5 F. Muratori et al., La diagnosi precoce di autismo: dalla ricerca degli indici precoci ai programmi di screening, «Percorsi terapeutici e lavoro di rete», Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 31.

6 Ibidem, p. 49.

7 M. Lavelli, Intersoggettività. Origini e primi sviluppi, Milano, Raffaello Cortina, 2007.

8 A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN,

 

 

Claudio Ambrosini, Maria Cristina Arcelloni, Elisabetta Magnifico

Psicomotricisti – TNPEE, Centro RTP (Ricerca e Terapia Psicomotoria), Milano

 

La valutazione

Prima di parlare dell’intervento ed esporre il metodo RTP,1 è necessario effettuare alcune considerazioni in merito alle prassie e alla loro valutazione. In primo luogo la valutazione psicomotoria presuppone un’indagine che stabilisca una relazione tra prassia e sviluppo psicomotorio. Si dovranno infatti considerare i rapporti che intercorrono tra prassia e movimenti negli altri distretti corporei non direttamente interessati all’azione volontaria, tra prassia e postura, tra prassia e schema corporeo. Andranno inoltre considerati i processi d’integrazione dei differenti analizzatori (visivo, uditivo, tattile, propriocettivo, vestibolare) che contribuiscono alla definizione della permanenza prattognosica dell’oggetto, ancor prima di quella senso-motoria (del quarto stadio piagettiano), che si fonda prevalentemente sull’analisi visiva. La valutazione delle prassie non potrà esimersi dall’osservare e dall’indagare le diverse funzioni dello sviluppo e porre al centro del proprio interesse il movimento che, così come il linguaggio nei periodi più avanzati dello sviluppo, costruisce il codice pratico e senso-motorio di elaborazione dell’oggetto.

In secondo luogo l’oggetto è percepibile con diverse modalità sensoriali, che con la crescita si integrano tra loro: «l’integrazione è di tutte le vie motorio-senso-percettive, cioè il dato nuovo è assimilato con tutto il corpo, e non solo con quella parte direttamente coinvolta» (Ambrosini e Formenti, 1990, p. 111).

In terzo luogo il risultato di queste due prime riflessioni ci conduce alla seguente affermazione: la prassi settoriale non può essere svincolata dalla prassia globale corporea.

Ma cos’è una prassia? Un movimento intenzionale non automatizzato finalizzato a raggiungere uno scopo; così la definiva Jean Piaget (1968) e tale definizione discrimina i movimenti non automatizzati da quelli automatizzati, che non ci offrono le stesse informazioni dei primi in merito all’adattamento degli schemi d’azione. La valutazione delle prassie dovrà quindi indagare in una direzione che, meglio di altre, sia in grado di offrire informazioni sulle procedure ideative ed esecutive finalizzate al raggiungimento di un obiettivo. Ogni atto si compone sempre di procedure di natura organizzativa (OM: Organizzazione Motoria), di natura qualitativa (QM: Qualità Motoria, che si riferisce ai quattro parametri di scioltezza, dissociazione, equilibrio, regolarità) e di legami con l’Esperienza Emotivo-Affettiva (EEA). La valutazione psicomotoria, quindi, il cui bilancio ha come finalità prioritarie la progettazione e la programmazione dell’intervento terapeutico, non potrà esimersi dall’osservare questi tre aspetti attraverso i suoi strumenti specifici: l’osservazione del comportamento spontaneo e l’esame psicomotorio.

La disprassia del bambino è spesso strettamente interconnessa con un disturbo della coordinazione motoria e con una fragilità emotiva, affettiva e comportamentale, per cui l’intervento terapeutico si rivolgerà alla complessità del bambino e al suo specifico disturbo disprassico. Entrambi questi aspetti non possono essere negati ed è dunque necessario strutturare un intervento che, procedendo per fasi, sappia coniugare la precisione delle azioni terapeutiche rivolte alla riduzione del deficit disprassico con un sistema che, con altrettanta precisione e chiarezza, sappia offrire risposte multiple ai processi adattivi 2 del bambino. In riferimento alla valutazione, ci limiteremo in questa sede a presentare esclusivamente le prove che indagano le prassie manuali attorno alle quali si è focalizzato il dibattito attuale, consapevoli del fatto che esse non comprendono tutti gli aspetti dell’evoluzione prassica. 3 Si tratta di 9 prove che appaiono comunque sufficienti a perseguire lo scopo di distinguere le componenti dell’atto secondo i parametri dell’OM e della QM (Wille e Ambrosini, 2005).

Le prove, che non riproducono le azioni della vita quotidiana (da cui sono svincolate) e la cui valutazione avviene attraverso protocolli ICF-CY (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2007), sono state ideate in modo tale che ognuna di esse solleciti in prevalenza quella funzione specifica attorno alla quale si sta focalizzando l’osservazione. Nello specifico, si fa riferimento a prove che, coinvolgendo la motricità fine nei suoi aspetti di scioltezza e dissociazione delle dita (compresi anche la regolarità dell’atto e il sostegno antigravitario dell’arto superiore), forniranno informazioni sulla QM del bambino. Alcune prove informeranno sui processi rappresentativi, sollecitando le sue componenti ideative (proprietà ideativa dell’OM). Altre prendono in considerazione l'attivazione delle componenti cognitive sia ideative che rappresentative combinate con gli atti esecutivi (in altri termini la formulazione di nuovi schemi d’azione attraverso la combinazione di atti in corso già adattati). Infine altre ancora sono prove che, ridotte al minimo le implicazioni di natura qualitativa (il valore della QM è pressoché insignificante per la risoluzione del compito) ed esentate dalla combinazione di schemi da cui far discendere la risposta, esaltano le proprietà di organizzazione dell’atto, appunto l’OM (OM: procedure esecutive di azioni complesse e integrate tra loro per il raggiungimento di uno scopo).

 Le prove 1 e 2, che riguardano l’atto di infilare (prova 1) e sovrapporre (prova 2), presuppongono abilità dissociative: è infatti necessaria un’azione combinata tra movimenti finalizzati allo scopo e movimenti di trattenimento degli altri oggetti nel palmo della mano.b

Le prove 4a, 4b, 5a e 5b presuppongono un’abilità ideativa. Per raggiungere lo scopo occorre infatti «liberarsi» dai dati percettivi e nello specifico:

− per le 4a e 4b dalla staticità percettiva della posizione del prisma-tetto, per arrivare al ribaltamento che consente la sovrapposizione e quindi la costruzione della torre (per un confronto di altezze con quella già data);

− per le 5a e 5b dalla consuetudine di piegare un foglio secondo i riferimenti dei suoi lati, per fare una piega senza più alcun riferimento con la forma del foglio.

 Le prove 6 e 7 sono complesse e spesso di difficile risoluzione per i bambini disprassici.

Nella prima si tratta di imprimere con il bicchiere un movimento alla pallina secondo una specifica direzione, per poi porre il bicchiere (orizzontalmente) nella direzione opposta, allo scopo di afferrarla; di conseguenza sono ravvisabili componenti sia di QM — regolazione tonica nell’imprimere il movimento — che di OM — combinazione delle direzioni. La seconda prova combina una forte componente di OM (rapporto spaziale corda/bastone) e una di QM, che consiste nella fluidità dello schema di avvolgimento Le ultime due prove portano in evidenza l’OM. Entrambe le prove non necessitano di particolari abilità qualitative ma richiedono sequenze organizzate di atti nel disporre delle scatole l’una dentro l’altra e nel costruire un’automobilina con un oggetto il meccano, sconosciuto ai più, la cui risoluzione richiede che il bambino debba anche liberarsi dalle confuse informazioni che i molteplici fori inviano. Queste prove sono proponibili dai 5 anni e mezzo ai 9-10 anni e si sono dimostrate particolarmente efficaci nell’individuazione dei settori deficitari dei bambini disprassici. Per le età inferiori sono state ideate dal Centro RTP altre prove con gli stessi scopi valutativi.

Come si è potuto osservare dalle immagini e relative descrizioni e come già anticipato sopra, le prove non si riferiscono ad alcun atto della vita quotidiana del bambino, come ad esempio tagliare o aprire/chiudere un astuccio, una cartella, ecc., non perché non lo si ritenga utile, ma per precisi motivi che sono alla base della metodologia di riferimento degli autori e che si fonda sui seguentiprincipi:

1. l’adattamento degli schemi d’azione procede per progressive assimilazioni funzionali, generalizzatrici, ricognitive, per cui gli apprendimenti non avvengono per esclusiva ripetizione dello schema (assimilazione funzionale). È quindi indispensabile che il bambino ricavi dall’esercizio funzionale quelle proprietà dello schema che lo definiscono come concetto motorio e, in quanto concetto, generalizzabile e dotato di significato;

2. l’intervento sulle prassie non può dipendere esclusivamente dalla questione della rappresentazione mentale e del linguaggio autodiretto, ma dovrà porre al centro il rapporto pratico tra atto e oggetto, così come si è generato nello sviluppo psicomotorio del bambino e come anticipato all’inizio di questo articolo;

3. la clinica dei bambini con disprassia ci informa che la questione può coinvolgere sia il settore della QM che quello dell’OM. Senza informazioni sull’incidenza che i due settori hanno sull’atto del bambino, sarebbe impossibile progettare il piano di intervento;

4. le prassie manuali, alle quali stiamo dedicando in particolare la nostra attenzione, sono innumerevoli, anzi infinite, diversissime tra loro, con le due componenti di QM e di OM in perenne equilibrio reciproco.

Per questo motivo il nostro sistema valutativo evita di proporre un preciso atto prassico e si occupa, invece, di riconoscere il ruolo che QM e OM hanno all’interno del sistema prassico del bambino al fine di distinguere le Maldestrezze (M) dalle Disprassie (D) che, secondo la nosografia psicomotoria, sono entrambe raggruppate nei Disturbi Minori del Movimento (Wille, 1996; Ambrosini, 2002).

 

L’intervento

Dalla valutazione emergono i dati che ci consentono di considerare non solo le peculiarità dell’organizzazione prassica con le sue specifiche difficoltà, ma anche come queste si integrano con le altre funzioni dello sviluppo, permettendoci di inserire il bambino in una specifica tipologia psicomotoria (de Ajuriaguerra, 1979) e di comprendere quali sono le modalità adattive che il bambino ha strutturato per compensare il deficit. L’analisi dei dati raccolti ci avvicina dunque alla realtà della quotidianità: quella che ci fa prendere in considerazione il bambino con le sue abilità, le sue aperture e strutture difensive, permettendoci di progettare un intervento specifico su misura. Questo comporta che, unitamente a un’analisi degli scopi specifici legati alla motricità, affinché ci sia la garanzia che le acquisizioni si integrino con l’intero sistema funzionale, è necessario tenere conto delle informazioni raccolte dalle diverse aree inserite nel protocollo valutativo. Aree che concorreranno alla scelta delle strategie e degli scopi nell’attuazione del progetto terapeutico.

Dividiamo le aree di indagine in due macroraggruppamenti. Il primo riguarda le voci specifiche della metodologia psicomotoria, il secondo le altre funzioni dello sviluppo del bambino.

Motricità:

– Motricità di Spostamento (MS): presenza delle coordinazioni motorie, Organizzazione Motoria, Qualità Motoria;

– Motricità di Posizione (MP): controllo posturale; schemi d’azione/prassie in MS e MP, Organizzazione Motoria, Qualità Motoria, analisi schemi d’azione (rapporto atto/percezione, integrazione delle percezioni visive, «riafferentazione» che il bambino trae dalle informazioni derivanti dall’oggetto e i relativi aggiustamenti);

– rapporto MS/MP: sia quantitativo (relativo all’investimento spontaneo del movimento) che organizzativo;

– rapporto della motricità con le altre aree della metodologia psicomotoria:

• schema corporeo: rapporto fra postura e azione;

• spazio: rapporti spaziali topologici, proiettivi ed euclidei;

• tempo: successione, alternanza, simultaneità, durata.

 

Altre funzioni dello sviluppo:

– adattamento cognitivo: equilibrio assimilazione/accomodamento;

– gioco: presenza/assenza, tema, grado di ripetitività e/o variabilità, oggetti preferiti;

– aspetti emotivo-comportamentali: aspetti emotivi dominanti (emozioni e durata); caratteristiche comportamentali (ansia, ritiro, oppositività, ecc.);

– qualità dell’interazione;

– relazione (intesa come la modalità del bambino di includere il terapista nelle sue attività);

– risposta all’impegno adattivo e ai risultati ottenuti (rapporto azione/emozione);

– attenzione-memoria;

– linguaggio verbale.

Da queste diverse voci si trarranno le informazioni utili per elaborare il bilancio psicomotorio, allo scopo di definire con più chiarezza sia l’iter terapeutico-riabilitativo con le relative tappe, sia la tipologia del disturbo prassico.

Il bilancio sintetizzerà quindi tre voci cardine dalla valutazione:

– l’atto prassico descriverà il rapporto fra Qualità Motoria e Organizzazione Motoria;

– l’adattamento inquadrerà la tipologia psicomotoria definendo le priorità dell’intervento;

– l’area emotivo-comportamentale permetterà di delineare le modalità relazionali idonee.

 

Finalità dell’intervento

La finalità dell’intervento, secondo la nostra visione erapeutico-riabilitativa, consiste non solo nel favorire il ripristino delle funzioni prassiche nella misura relativa alla gravità del disturbo, ma anche nel migliorare i processi adattivi e mettere il bambino nella condizione di gestire la disprassia aiutandolo a costruirsi un sistema autonomo di strategie per risolvere i compiti prassici del quotidiano. Per intenderci, la via più semplice per raggiungere il fine. Affrontare un compito prassico significa individuare uno scopo dell’azione, strutturare una sequenza di schemi di azioni combinati fra loro e accomodare i gesti alle differenze relative alle circostanze e agli oggetti specifici di quel momento. Di conseguenza i movimenti all’interno di ogni schema possono avere diverse sfumature esecutive e l’efficacia dell’azione prassica dipende dalla coerenza del legame fra ognuna di esse. Questo è il motivo per cui l’allenamento di ogni singolo schema prassico non può rappresentare l’unica modalità di concepire l’intervento in quanto è l’invenzioneche si basa sulla decodifica delle variabili contestuali (sistema percettivo e «riafferentazione») a garantire la messa in opera dell’intenzione motoria. Lo schema d’azione è da considerarsi come una struttura cognitiva concernente una classe di sequenze d’azioni analoghe: non esiste uno schema sollevare, ma esistono i diversi modi di sollevare che variano da oggetto a oggetto: lo schema è un concetto gestuale e non un pattern rigido; è invece una struttura plasmabile che è alla mercé del mondo materiale reale sul quale essa si esercita (Wille, 1996, p. 90).

È la costruzione del concetto prassico lo scopo della terapia per il bambino, in quanto il concetto si libera dall’apprendimento specifico di un’azione con un oggetto, si svincola da un’esperienza sensoriale limitata ed estrae invece il principio di identità dello schema stesso.

Passare le stringhe in una scarpa sarà allora il concetto di unire con un oggetto estremità fra loro opposte, che si appoggia sull’esperienza di infilare (schema manuale di base) e sul superamento della linea mediana in un’alternanza dx-sx (schema corporeo).

La formulazione di concetto motorio si appoggia inoltre sul linguaggio che, definendo con un nome uno schema d’azione, lo identifica e lo differenzia da un altro facendo una sintesi di tutte le possibili rappresentazioni di azioni che lo significano. In questo modo, il linguaggio mette in relazione l’azione con le percezioni ad esse riferite: la parola diventa evocazione di un’esperienza.

Il linguaggio inoltre si affianca all’azione per dire delle qualità dell’oggetto, per sostenere i processi di comparazione e confronto, evidenziare i rapporti causa ed effetto, creare interrogativi idonei per strutturare gli eventi in «catene narrative», suggerire criteri di analisi e creare sequenze coerenti.

L’efficacia di un’azione finalizzata può essere compromessa (come abbiamo accennato precedentemente) non tanto dagli aspetti organizzativi che abbiamo descritto (il bambino possiede il concetto dello schema), quanto da impedimenti che operano sul sistema di controllo motorio dell’azione e che a volte sono la causa dell’insuccesso. In questo caso definiamo il disturbo a carico della QM. Il bambino quindi sa bene come deve essere eseguita una struttura d’azione, ma il suo impaccio gli impedisce di gestire la situazione. M. dimostra di possedere molto bene lo schema del raccogliere, mentre usa un bicchiere rigido per travasare chicchi di grano da un contenitore all’altro. Dimostra anche di saper generalizzare lo schema sia eseguendolo in posture diverse sia utilizzando altri oggetti che richiedono un accomodamento di prensione e quindi di esecuzione (tazze, bicchierini, piattino, ecc.). Ma cosa succede quando il bicchierino è di plastica leggera o il bambino si trova in mano un cono di carta? La pressione è corretta ma, nel momento in cui parte l’azione, le dita stringono troppo forte, fino ad accartocciare l’oggetto rendendo impossibile l’accesso dei semini al suo interno. M., infatti, non riesce ad avere un controllo del tono per adeguarlo alla superficie dell’oggetto che, non essendo rigida, reagisce alla pressione impedendo di portare a termine la prassia (vedi voce «scioltezza» nel valore Qualità Motoria).

Riteniamo importante distinguere bene questi due ordini di disturbo in quanto la loro identificazione ci orienterà verso obiettivi terapeutici differenti: gli uni saranno mirati all’Organizzazione Motoria, mentre gli altri si indirizzeranno verso un lavoro improntato maggiormente al sostegno della motricità nel campo delle funzioni attribuite al tono (scioltezza, dissociazione, equilibrio, regolarità). Nella realtà dei bambini che incontriamo è facile trovare la disprassia associata a debolezze dell’area qualitativa, ma è significativo ai fini di un intervento mirato comprendere il grado di compromissione delle singole voci e la porzione di disturbo che provocano all’azione.

 

Metodologia dell’intervento

L’intervento si attua attraverso l’attivazione di un sistema interattivo che vede protagonisti tre strumenti «tecnici» di eccellenza psicomotoria:

– l’ambiente attraverso gli oggetti (la loro ubicazione, le qualità fisiche, la quantità);

– la conduzione (direttiva, semi-direttiva, non direttiva), che regola la trasmissione dell’informazione attraverso la scelta del linguaggio comunicativo più idoneo e facilitante;

– la relazione mediata dalla comunicazione corporea, che permette di accogliere e sintonizzarsi con le componenti affettive, emozionali e cognitive del bambino.

La presa in carico in terapia neuropsicomotoria del bambino comporta la necessità di stabilire una progressione differenziata e soggettiva dell’intervento, sulla base dei risultati del bilancio. Molto spesso accade che, in una fase iniziale, risulti impossibile affrontare direttamente il disturbo a causa delle strategie di difesa e di controllo ambientale sviluppate dai bambini per fare fronte alle loro difficoltà. Riferendoci alla nostra esperienza, ci sentiamo di affermare che, tranne alcuni casi nei quali ciò è possibile (bambini più grandi o bambini nei quali le componenti difensive sono ridotte), solitamente il percorso risulta più lungo e tortuoso. In forme diverse per gravità e sintomatologia, incontriamo iperattività, inibizione, difficoltà di attenzione, ansia, disturbi dell’umore, oppositività, ecc. Tutti questi stati rappresentano modalità di difesa molto spesso associate alla disprassia e in alcuni casi così strutturate da comportare che l’intervento debba in primo luogo farsi carico di questi aspetti. Il bambino può infatti non essere in grado di adattarsi a richieste esterne e sarebbe quindi impossibile proporre un percorso terapeutico strutturato, in quanto una modalità di conduzione direttiva lo porterebbe ad attivare e/o potenziare le sue personali reazioni di fuga.

 

La disprassia non è il bambino disprassico.

Ogni bambino è un’entità unica e unico è il suo modo di costruire la realtà, di interagire con l’ambiente e con l’altro, di confrontarsi e rispondere alle sue difficoltà. In questo senso parliamo di strategie di intervento e di fasi caratterizzate da modalità di conduzione e di comunicazione differenti e da una diversa strutturazione ambientale. Fasi differenti, che hanno però in comune l’obiettivo primario per il quale il bambino è stato inviato in terapia psicomotoria e che fin dall’inizio definisce la direzione verso cui tende l’intervento.

Occorre precisare che in molti casi già durante la valutazione può essere difficoltoso somministrare al bambino le prove che ci informano con chiarezza circa le componenti e le caratteristiche del disturbo. Come però accennato precedentemente, intervenendo sull’ambiente e utilizzando modalità richiestive indirette, si è in grado di raccogliere dati sufficienti per impostare gli obiettivi, rimandando a una fase successiva una definizione più dettagliata.

Di conseguenza l’obiettivo di questa prima fase, indipendentemente dalle manifestazioni comportamentali che accompagnano il disturbo disprassico, si focalizza sul trovare l’aggancio, la strada per portare poi il bambino a lavorare sugli aspetti esecutivi e/o ideativi compromessi. Ciò può avvenire, in tempi anche piuttosto brevi, attraverso la creazione di un contesto motivazionale in grado di far nascere nel bambino la spinta a mettersi in gioco.

Il primo passo consiste nell’accogliere le modalità del bambino di stare nell’ambiente, alleandosi con lui.

Si parte da quello che il bambino fa (o non fa); successivamente il terapeuta andrà a ricercare le strategie e le modalità in grado di portarlo ad agire con un fine, un senso e un risultato, rimandandogli così l’immagine che qualcosa funziona.

Questo momento ha un grande significato per il bambino: gli si aprono nuove prospettive, si confronta con il piacere di fare, realizzare, intervenire sull’ambiente e sugli oggetti producendo risultati nuovi e inaspettati.

Questa condizione è ciò che permette di passare alle fasi successive caratterizzate da modalità di conduzione sempre più strutturate.

Potremmo quindi sintetizzare in uno schema piramidale il metodo di intervento, considerando la seduta di terapia neuropsicomotoria come una realtà che contiene tutte le voci riguardanti le aree dell’intervento.

I tre settori della piramide (aspetti emotivo-comportaentali, adattamento-motricità, prassie) corrispondono ognuno all’area prioritaria attorno alla quale si sta sviluppando l’intervento e il cambiamento di colore (dal grigio scuro al grigio chiaro) e la variazione delle loro sfumature descrivono il passaggio progressivo che contraddistingue la modificazione degli obiettivi verso la possibilità di affrontare il disturbo prassico con azioni mirate. Ciò significa che, a seconda del bambino, del suo momento evolutivo e dei disequilibri che accompagnano il disturbo, un settore della piramide sarà maggiormente attivato in una posizione della sua sfumatura di colore che corrisponde all’obiettivo prioritario di un certo periodo terapeutico.

Ciò non implica che vengano «dimenticate» le altre aree di sviluppo del bambino. Esse, infatti, saranno sempre e comunque presenti nella «mente» del terapista attraverso la programmazione della seduta, con la definizione degli obiettivi, la gestione dell’ambiente fisico e interattivo, il setting terapeutico che deve essere costantemente garantito per potersi fare carico del bambino nella sua interezza, ovvero nella considerazione della sua complessità in rapporto al suo specifico disturbo prassico.

In questo scenario si inseriscono allora gli obiettivi legati alle problematiche della disprassia come scopi specifici della terapia, che possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

– costruzione degli schemi motori di base sia in MS che in MP e loro possibili combinazioni;

– generalizzazione degli schemi semplici o combinati tramite variazioni dei contesti ambientali (oggetti, significati);

– potenziamento dell’autonomia nell’invenzione di strategie per le risoluzioni pratiche.

Tenendo conto che la prassia è una delle funzioni motorie che il bambino mobilita nei suoi processi adattivi all’ambiente, l’intervento si occuperà dell’atto prassico partendo dalla creazione di contesti che producano le cause per l’attivazione del processo stesso, come emerge da questo esempio: D., un bambino di 9 anni, preso dall’entusiasmo di riprodurre un campo da tennis per giocarci, non esita ad affrontare il compito di annodare le estremità di una corda a due caloriferi situati uno di fronte all’altro, ai lati opposti della stanza (per dividere così il «campo»), anche se ciò gli richiede un tempo significativo di lavoro. Un tempo in cui le sue mani, che si sono sempre tenute prudentemente alla larga da questo materiale ingestibile, si lasciano dirigere dalla terapista e correggere nei ripetuti tentativi falliti, senza mai desistere. E sarà questa esperienza, che unisce la necessità con l’attivazione di uno sforzo prassico, a fargli chiedere alla terapista, in un altro momento, di insegnargli ad allacciare le scarpe da calcio in previsione del campo-scuola.

Individuiamo dunque nella motivazione quella componente che tiene insieme, nell’atto, il movimento con il suo significato. Nell’intervento questa componente, che si appoggia anche sugli aspetti affettivi, si combinerà con le voci della metodologia (Wille e Ambrosini, 2005). Queste avranno come obiettivo l’integrazione delle funzioni percettive e motorie, mettendo in stretta relazione gli scopi relativi all’area della motricità con quelli stabiliti per lo schema corporeo: su questa principale integrazione di base si inseriranno gli schemi d’azione, le variabili spaziali e quelle temporali che amplieranno in modo organico e selettivo le conoscenze degli oggetti, le loro qualità e le variabili delle azioni.

O. deve attuare lo schema di infilare coni in cerchietti (MP), attaccati a una corda sospesa, stando in piedi sopra un’asse. In questo caso la percezione della postura (schema corporeo) sarà potenziata dalla condizione di equilibrio (QM) sull’asse.

A conclusione dell’articolo presentiamo un esempio: parte di una seduta in cui viene esposta una sequenza di atti significativa per l’esplicazione pratica del concetto motorio.

In un altro caso sono predisposti dei fili di ferro morbido, ricoperto con una pellicola plastificata, in forma di ganci appesi a una tavoletta forata. Lo scopo proposto al bambino di 5 anni e mezzo, all’interno di un’attività che possiamo collocare già nel terzo settore della piramide (settore prassie), è di appendere dei cerchietti ai ganci.

L’atto di «appendere» è finalizzato a perseguire un duplice scopo:

– la creazione di un rapporto spaziale (spazio topologico) di contatto in sospensione, già sperimentato in altri contesti (assimilazione generalizzatrice), con lo scopo prioritario di interiorizzare il concetto motorio prassico di «appendere» (assimilazione ricognitiva o significato

dello schema);

– la sperimentazione di un materiale nuovo (filo di ferro), che risulta flessibile, per cui occorre che l’atto di appendere sia «delicato», cioè modulato tonicamente, altrimenti il gancio perderebbe la forma e il cerchietto rischierebbe di non rimanere appeso (ulteriore scopo, secondario al precedente, ma significante aggiuntivo che, agendo sulla QM, permette una sedimentazione interna di quello precedente).

Compiute queste azioni, con l’intenzione terapeutica che il bambino prosegua nel suo percorso prassico di interiorizzazione del concetto motorio di appendere, gli si richiede di appendere altri fili di ferro corti uguali ai precedenti, che vengono presentati piegati a forma di gancio.

Lo scopo di questo nuovo atto è in primo luogo per-cettivo-spaziale. Il bambino può raggiungere l’obiettivo ribaltando la posizione del gancio e individuando nello stesso oggetto (filo di ferro-gancio) un cambiamento della sua funzione (da oggetto che permette di appendere a oggetto che si appende).

La catena verticale in cui ogni oggetto (fili di ferro, cerchietti) svolge funzioni diverse, basandosi però sul medesimo concetto (schema di appendere), è ciò che chiamiamo concetto motorio che, al pari del concetto verbale, appendere, permette quei processi di astrazione attraverso i quali prendiamo possesso della realtà del mondo.

Nella realtà della seduta, il lavoro è poi proseguito operando sulle componenti di Qualità Motoria (sollecitatevdalle particolarità fisiche del filo di ferro), per ampliare le proprietà di Organizzazione Motoria finalizzate alla costruzione di schemi manuali, attraverso l’ideazione di nuovi contesti in cui lo schema appendere possa essere esercitato.

La stanza di psicomotricità diverrà allora un luogo simbolico a metà strada tra ambiente-laboratorio e ambiente-naturalistico, in cui la riequilibrazione dei processi prassici è simbolicamente identica a quella della quotidianità: si incontrano le difficoltà e si organizza il movimento per affrontarle.

 

NOTE

1 RTP: Centro Ricerca e Terapia Psicomotoria; riteniamo corretto utilizzare tale acronimo per fare riferimento al nostro metodo di lavoro, che trae origine dall’Istituto di Psicomotricità di Milano diA.M.Wille e si accorda con le attuali risultanze delle neuroscienze, che forniscono una cornice teorica e una forte base sperimentale alla «pratica psicomotoria» (vedi l’articolo di Carlo Muzio pubblicato su questo stesso numero della rivista)

2 Con «processi adattivi» non si intendono solo quelle componenti delle azioni riferite al puro processo cognitivo, ma si fa riferimento a un’azione più ampia, ben descritta da Piaget e citata da deAjuriaguerra con le seguenti parole: «J. Piaget precisa che in ogni azione il motorio e l’energetico sono di natura affettiva (bisogno e soddisfazione), mentre la struttura è di natura cognitiva (lo schema in quanto organizzazione sensoriomotrice). Assimilare un oggetto a uno schema è dunque secondo Jean Piaget tendere simultaneamente a soddisfare un bisogno

e a conferire una struttura cognitiva all’azione» (1979, p. 245).

3 Infatti, possiamo suddividere le prassie per il tipo di motricità prevalentemente coinvolta (MS o MP); per differenziazioni secondo le componenti del movimento; per differenziazione secondo il grado di combinazione degli schemi d’azione; per differenziazione secondo il predominio di differenti competenze prevalenti.

 

 

ABSRACT

The article is divided into two parts, evaluation and intervention. The first part reviews the psychomotor theory and method that sustain a psychomotor diagnosis of Minor Motor Disorders

(DMM) and the description of specific trials related to manual praxis. In the second part, intervention objectives and methodology define the relationship between praxis and psychomotor

functioning more precisely. Attention is then given to the relationship between dyspraxia and the

child diagnosed with dyspraxia. The article concludes by presenting an RTP therapeutic program where the concept of «motor functioning» guiding the RTP method is highlighted.

 

 

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Wille A.M. e Ambrosini C. (2005), Manuale di terapia psicomotoria dell’età evolutiva, Napoli, Cuzzolin.

 

 

di Elisabetta Magnifico, TNPEE - Centro RTP, Milano

L’articolo propone una breve riflessione sul gioco simbolico. Partendo dall’esposizione di un caso e prendendo spunto da diversi autori che hanno cercato di definire i confini del territorio ludico, si andrà a porre l’attenzione sulla differenza tra ciò che è gioco e ciò che, pur mantenendo una connotazione simbolica, non si può definire tale. Lo scopo è quello di incominciare a fare chiarezza sul significato della parola «gioco» e capire cosa stia mettendo in atto il bambino nel momento in cui è impegnato in qualcosa che gioco non è. Ciò è essenziale per poter mettere il terapista nelle condizioni di rispondere in modo più adeguato e congruente ai bisogni espressi dal bambino, nei diversi momenti e/o fasi della terapia

DESCRIZIONE DI UN CASO

Raffaele (4 anni) mi è stato inviato da un neuropsichiatra infantile per una valutazione. L’attività prevalente del bambino, durante le quattro sedute di valutazione (nelle quali è stato utilizzato come strumento l’osservazione del comportamento spontaneo), è un gioco con animali di plastica. In un cesto in cui sono raccolte riproduzioni di quasi tutte le specie animali, Raffaele sceglie coccodrilli e dinosauri di vari formati e dimensioni. Inizialmente li guarda, li nomina, me li mostra, poi incomincia un’attività che dura quasi tutto il tempo della seduta. Con una mano muove un coccodrillo e con l’altra un dinosauro. Tutti i coccodrilli e dinosauri a disposizione vengono utilizzati a turno. Il gioco consiste in una lotta senza fine, nella quale i due contendenti si sbranano a vicenda o si colpiscono con zampate o colpi di coda. Gli animali vengono lanciati e ripresi, divorati e rigettati in un susseguirsi di scontri accompagnati da un linguaggio costituito soprattutto da versi, rumori e frasi brevi pronunciate dagli animali. Un’attività ripetitiva, senza trama, senza modificazioni e senza evoluzione che lo assorbe completamente e dalla quale è difficile distoglierlo. Si isola dal contesto e dalla relazione. È impossibile cercare di inserirsi nel gioco o introdurre variabili. Qualsiasi tentativo viene rifiutato. Solo l’attività con gli animali è per lui gioco: tutto il resto non lo è, « è finto» e «non si può fare». Mi tiene lontano, ma vuole essere guardato. Questo è l’unico aggancio che inizialmente ho con questo bambino.

Come si può definire l’attività di Raffaele? È gioco? È gioco simbolico?

Nel gioco simbolico, a partire circa dai 3 anni (e in modo più semplice anche prima), possiamo distinguere tra bambino attore e bambino burattinaio (la distinzione nasce da una ricerca, realizzata all’interno del nostro Centro, sullo sviluppo del gioco nei primi 3 anni di vita). Nel primo caso, è il bambino stesso che assume altri ruoli: diviene mamma, papà, dottore, poliziotto, Zorro, Batman e via di seguito. I personaggi vengono presi in prestito dal mondo umano, animale o fantastico. Nel bambino burattinaio, invece, l’interesse del bambino è rivolto verso omini, pupazzi o animali. In questo secondo caso il bambino assegna loro un’identità, lasciandosi guidare dagli elementi qualitativi ed estetici che li caratterizzano. Li muove, li sposta, li fa parlare, fa compiere loro delle azioni. Gli animali feroci, per i bambini di questa fascia d’età, esercitano una grande attrattiva: fanno paura, generano un certo livello di tensione, permettono di giocare temi quali l’attacco, la fuga, la lotta, la morte, la difesa dei più deboli, il coraggio, mantenendosi a una giusta distanza. L’attività di Raffaele appartiene a questa seconda tipologia. È sicuramente simbolica: vengono infatti utilizzati simboli, vengono giocati i temi di cui ho parlato sopra. Ma Raffaele è ingabbiato in schemi ripetitivi, carichi di un’ansia e di una paura tali da impedire al gioco di liberarsi, trasformarsi, purificarsiCi sono alcune condizioni che delimitano la cornice entro la quale si può parlare di gioco. Ne hanno parlato diversi autori. Ambrosini, parlando del gioco in terapia psicomotoria, le ha riassunte in vari punti. Tra questi, alcuni sono particolarmente significativi nel caso in questione:

[...] vi è gioco solo quando vi è la consapevolezza di essere giocatore, consapevolezza di stare dentro un ruolo,di aver indossato un costume che alla fine verrà abbandonato (il gioco consuma, disperde energie, brucia risorse e per questo deve essere circoscritto in una durata e in un luogo); [...] vi è gioco quando il divertimento e il piacere accompagnano le condotte esercitate; [...] il gioco tende a essere ordinato e a creare ordine nelle sequenze dei gesti, degli atti motori, dell’entrata in scena dei personaggi e degli oggetti. L’ordine non è immobilità, bensì la spontanea capacità presente nel bambino di stendere trame con un filo conduttore proprio, limpido e trasparente. (Ambrosini e Wille, 2005, p. 217).

Un’attività può perdere il suo carattere di gioco sia per un’eccessiva vicinanza al reale sia per un’eccessiva lontananza. [...] un gioco si può guastare quando il carattere del come se non viene mantenuto o quando la prossimità al reale è eccessiva. (Bateson, 1996, p. 143).

Raffaele, diventando burattinaio, mette una distanza tra sé e i contenuti del gioco (cosa che risulterebbe più difficile se assumesse lui stesso il ruolo di un animale che uccide e divora le sue prede). Ma nonostante ciò, il suo stato d’animo, il suo malessere, gli impedisce di entrare in un territorio ludico. Rimane congelato, nei gesti confusivi che si ripetono sempre uguali, nell’espressione immobile del viso, nello sguardo chiuso al mondo percettivo che lo circonda. Non c’è trama, non c’è piacere, non c’è un tempo, non c’è uno spazio (il gioco di Raffaele si svolge nello stesso modo a casa e alla scuola dell’infanzia). In questo caso il gioco simbolico non assolve più alla funzione di permettere al bambino di elaborare gli eventi psichici e affettivi che sta vivendo. Raffaele non elabora, è invischiato in un’attività che non gli fornisce risposte e soluzioni e non gli consente di andare avanti da solo: non evolve. Necessita di un ambiente terapeutico e della presenza di un altro (il terapista) che lo aiuti a trovare una via d’uscita e che, in un certo senso, gli permetta di far ri-emergere il gioco,sia esso simbolico, motorio, d’interazione o altro. Molti dei bambini in terapia psicomotoria manifestano condotte simili.

Sono tutti quei casi in cui le dinamiche psicoaffettive stanno al centro dell’intervento psicomotorio o, in una determinata fase della terapia, sono prevalenti al di là del disturbo funzionale e del motivo dell’invio. Sono bambini il cui stato di malessere è tale da impedire loro non solo di lasciarsi andare a una dimensione ludica, ma anche di poter lavorare su quelle funzioni specifiche che possono avere provocato la condizione di disagio o avere contribuito a determinarla. La comparsa del gioco, come nel caso sopra citato, diviene così punto d’arrivo e  contemporaneamente punto di partenza per l’avvio della fase terapeutica seguente. Quando l’attività simbolica si trasforma in gioco simbolico, siamo di fronte a una condizione di salute del bambino. La sua comunicazione non verbale si arricchisce di colore, vivacità ed espressività. Si osserva un’apertura al cambiamento, si allarga il campo delle rappresentazioni che si arricchiscono e trasformano. L’ambiente stesso si modifica: compaiono scenari, gli oggetti e le loro caratteristiche attirano finalmente l’attenzione del bambino, emerge la cura per il dettaglio, il gioco «crea ordine ed è ordine. Realizza, in un mondo imperfetto e in una vita disordinata, una perfezione temporanea, limitata [...] tende a essere bello» (Huizinga, 1946, p. 820).

Questo è ciò che accade quando l’intervento psicomotorio trasforma l’attività simbolica/non-gioco in un gioco simbolico vero e proprio. È un passaggio terapeutico molto importante e per tanti bambini diviene il mezzo per impegnarsi successivamente anche su un piano funzionale. A volte e il più delle volte, i confini non sono così netti. Il gioco, il non-gioco, il lavoro, l’apprendimento, l’esercizio si intersecano vicendevolmente e il bambino oscilla continuamente da uno stato all’altro. La chiarezza del terapista, che riconosce i differenti stati e li comunica al bambino attraverso la modificazione della propria tonicità ed espressività verbale e non verbale, attraverso le proposte e l’intervento sull’ambiente, è ciò che permette di rispondere in modo adeguato e congruente al bisogno da lui espresso in quell’istante: bisogno di gioco, bisogno di conoscenza, bisogno di acquisire nuove abilità, bisogno di capire, bisogno di trovare risposte

SUMMARY

This article briefly considers symbolic play. A case study is presented along with various pieces from authors who have attempted defining the territorial limits of play. Attention is given to what is play and what cannot be defined as such, even if there is a symbolic connotation. The objective is to better define the meaning of the word play and to understand what the child is trying to do when it cannot be called play. The distinction is considered essential for enabling the therapist to reply adeguately and to meet the child’s needs expressed in diverse moments or phases of therapy

 

BIBLIOGRAFIA

Ambrosini C. e Wille A.M. (2005), Manuale di terapia psicomotoria dell’età evolutiva, Napoli, Cuzzolin.

Bateson G. (1996), Questo è un gioco, Milano, Raffaello Cortina.

Bruner J.S., Jolly A. e Sylva K. (1981), Il gioco , Vol. IV:

Il gioco in un mondo di simboli, Roma, Armando.

Callois R. (1995), I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, Bompiani.

Huizinga J. (1946), Homo Ludens, Torino, Enaudi

 

Luca Tagliabue, Chiara Ricci, Elide Monaco, Fiorenza Broggi

Università degli Studi di Milano-Bicocca

 

SOMMARIO

Attraverso la discussione del processo diagnostico e del trattamento terapeutico riabilitativo di un caso clinico si vuole descrivere il ritardo psicomotorio inteso come descrizione del non funzionamento delle aree delle competenze motorie, di quelle comunicativo-linguistiche, cognitive o di quelle affettivo-relazionali, in maniera singola o molto più spesso «associata», come oggi è descritto più correttamente dal DSM-5 ® nel «Ritardo globale dello sviluppo».

 

INTRODUZIONE

Con il termine di sviluppo neuropsicomotorio si indica un processo grazie al quale il bambino acquisisce una serie di abilità che gli consentono di adattarsi e rispondere all’ambiente. Esse vanno dalle capacità di regolare le emozioni, muoversi e camminare (competenze posturo-cinetiche), a quelle di «capire» la realtà esterna (competenze cognitive) o di interagire con l’altro (competenze comunicative e sociali). Per descrivere lo sviluppo neuropsicomotorio, le diverse abilità emergenti sono suddivise per aree funzionali o linee di sviluppo e, se si dovesse verificare un ritardo nella loro organizzazione prima dei 5 anni, si può parlare di ritardo neuropsicomotorio, oggi più correttamente classificato dal DSM-5 ® come «Ritardo globale dello sviluppo» (si veda l’articolo di Militerni in questo numero) e si applica a bambini che sono troppo piccoli per partecipare a test standardizzati o a individui incapaci di sottoporsi a valutazioni sistematiche del funzionamento intellettivo. La diagnosi è spesso accompagnata da una specifica di:

–– ritardo psicomotorio armonico: tutti i settori dello sviluppo (equilibrio, coordinazione dinamica generale, spazio-tempo, schema corporeo ecc.) presentano un equilibrio fra loro nella manifestazione del ritardo;

–– ritardo psicomotorio disarmonico: presenta alcuni settori marcatamente meno evoluti rispetto agli altri.

 

CASE REPORT

Matteo è giunto al Servizio all’età di 28 mesi, su invio del pediatra di base, per ritardo neuropsicomotorio e difficoltà relazionali.

Anamnesi famigliare

Matteo è secondogenito di genitori italiani. Il fratello, maggiore di un anno, è affetto da Sindrome di Down.

La sorella della madre ha due figli maschi, entrambi affetti da ritardo mentale.

Non sono state riferite, invece, patologie a carico della famiglia paterna.

Anamnesi fisiologica

Matteo nasce da gravidanza fisiologica e parto distocico, indotto per gravidanza post-termine (alla 42esima settimana di età gestazionale) e viene allattato artificialmente per ipogalattia materna. Lo svezzamento è avvenuto a cinque mesi di vita.

Il ritmo sonno-veglia risulta nella norma, anche se sono state riferite a 24 mesi difficoltà ad addormentarsi in concomitanza con episodi di malattia, dopo i quali, secondo il parere dei genitori, Matteo ha modificato le sue modalità di relazione con i pari e con i genitori stessi, presentando maggiore instabilità.

Lo sviluppo neuropsicomotorio presenta l’acquisizione della deambulazione autonoma a 18 mesi; le prime parole vengono pronunciate intorno all’anno ma vi è una successiva regressione a 21 mesi, con l’interruzione dell’utilizzo del linguaggio spontaneo.

Per quanto riguarda lo sviluppo emotivo, relazionale e sociale, Matteo è stato descritto da mamma e papà come un bimbo allegro e aperto a ogni tipo di relazione. Talvolta si mostra testardo con i genitori.

Per quanto riguarda l’anamnesi patologica remota, è stato riferito un ricovero ospedaliero per gastroenterite, avvenuto a 16 mesi.

Protocollo di Osservazione e Valutazione Neuropsicomotoria

Il bambino giunge al Servizio accompagnato dalla mamma, insieme al fratello maggiore. Si separa senza difficoltà dalla figura di riferimento, salutandola e seguendo il terapista nella stanza, camminando a passi piccoli e veloci.

Matteo ha raggiunto tutte le competenze posturali: è in grado di assumere diverse posizioni autonomamente, anche se con modalità goffe e poco fluide. Il movimento è veloce, tuttavia, nei momenti di difficoltà, lo spostamento risulta lento e a scatti. È presente un lieve impaccio nell’equilibrio sia statico sia dinamico; il tono muscolare è modulabile.

Matteo non si dimostra particolarmente interessato all’attività manipolatoria, benché le competenze di manualità globale e fine siano adeguate per la sua età. La coordinazione occhio-mano si presenta anch’essa nei limiti della norma.

La produzione grafica spontanea consiste in scarabocchi, ai quali il bambino attribuisce un significato. La figura umana e di animali è di tipo cefalopode. Il tratto si presenta veloce, spesso sovrapposto.

La gestione dello spazio è casuale: Matteo non distingue i diversi spazi della stanza, non utilizza il materiale per definire uno spazio di gioco.

Inizialmente, Matteo fatica a relazionarsi con il terapista, evitandone spesso lo sguardo. Solo dopo alcune sedute, instaura un rapporto di fiducia con lui, mostrandosi disponibile.

La tolleranza alla frustrazione si presenta bassa: in particolare, davanti a una specifica richiesta che lo mette in difficoltà, Matteo chiede che sia il terapista ad agire al suo posto. La soglia della frustrazione si alza quando il bambino viene contenuto e facilitato. Nel corso della valutazione, talvolta, assume un atteggiamento oppositivo e controllante nei confronti delle richieste.

L’attività di gioco proposta e intrapresa spontaneamente da Matteo è a livello sensomotorio. Spesso il bambino necessita di essere facilitato nella scelta dell’attività da svolgere, poiché esprime diversi desideri, ed emergono scarse capacità di selezione. Durante il gioco, che è frequentemente ripetitivo e distruttivo, il bambino mostra agitazione psicomotoria. L’attività può essere frequentemente interrotta dal bambino stesso, che introduce modifiche poco coerenti con il contesto. Il mantenimento dell’attenzione condivisa su un’attività per un tempo prolungato è spesso faticoso, ed è possibile solo attraverso facilitazioni da parte del terapista. Prima di poter imitare lo schema di gioco proposto il bambino deve distanziarsi dall’altro sdraiandosi a terra e chiudendo gli occhi.

Il linguaggio verbale è il mezzo privilegiato per comunicare: il contenuto linguistico spesso è disconnesso a livello sintattico e poco comprensibile a causa di problematiche fonetico-fonologiche.

Il distacco dalla seduta è spesso difficoltoso: il bambino rimane sdraiato davanti alla porta senza mettersi le scarpe ed è necessaria la facilitazione del terapista.

All’età di 34 mesi, prima della presa in carico in terapia neuropsicomotoria, viene effettuata un’ulteriore valutazione attraverso le Griffiths Scales, il Children’s Play Therapy Instrument (CPTI) e l’ICF-CY checklist.

Le Griffiths Mental Developmental Scales mostrano un Quoziente Generale di Sviluppo di 72,85, pari a un’età mentale di 25 mesi, a fronte di un’età cronologica di 34 mesi. Il profilo di sviluppo presenta uno sviluppo disarmonico, con una caduta a livello delle competenze nelle aree motoria, della coordinazione occhio-mano e nell’area linguistica. La scala A (locomotoria) presenta un sub-quoziente di 72,1, la scala B (personale-sociale) di 79,4, la scala C (udito-linguaggio) di 63,2, la scala D (coordinazione occhio-mano) di 73,4, la scala E (performance) di 78,4 e infine la scala F (ragionamento pratico) di 70,6.

 hildren’s Play Therapy Instrument (CPTI)

Dall’analisi descrittiva dell’attività di gioco emerge la predilezione, da parte di Matteo, per attività sensoriali, esplorative e di motricità globale. Risultano assenti attività di manipolazione, giochi causa-effetto, attività di problem solving, di costruzione e di imitazione. Il gioco, intrapreso spontaneamente, non viene strutturato dal bambino: sono frequenti interruzioni ed episodi di distruzione dello stesso.

Spesso M. appare passivo nei confronti dell’attività strutturata dal terapista. Lo spazio entro il quale si svolge l’attività del bambino riguarda soprattutto l’«autosfera».

Dall’analisi strutturale dell’attività di gioco, indagando le componenti affettive, emerge un interesse per le attività sensomotorie, ma scarsa modulazione delle emozioni. Si evidenziano episodi di rabbia, aggressività, preoccupazione.

Indagando le componenti cognitive risulta assente il gioco di ruolo complesso e le stesse capacità di rappresentazione appaiono scarse.

Per quanto riguarda le componenti dinamiche del gioco prevalgono i giochi di lotta, i cui temi risultano legati alla distruzione.

Il linguaggio verbale è scarsamente utilizzato nelle attività.

 

ICF-CY checklist

Dall’applicazione della ICF-CY checklist, è emerso il prospetto di codici riassunti di seguito:

Funzioni corporee

–– b1140.2 orientamento rispetto al tempo

–– b117.2 funzioni intellettive

–– b1250.2 adattabilità

–– b1255.2 propositività

–– b144.1 funzioni della memoria

–– b147.3 funzioni psicomotorie

–– b163.3 funzioni cognitive di base

–– b320.2 funzioni dell’articolazione della voce

 

Attività e partecipazione

–– d110.10 guardare

–– d1332.33 acquisire la sintassi

–– d135.01 ripetere

–– d2105.20 completare un compito complesso

–– d3102.20 comprendere messaggi verbali complessi

–– d8803.30 gioco cooperativo condiviso

 

Fattori ambientali

–– e355+2 operatori sanitari

 

Sintesi di valutazione neuropsicomotoria

Dalla valutazione neuropsicomotoria si evidenzia un quadro di instabilità, iperattività e ritardo neuropsicomotorio disarmonico in un bambino difficilmente contattabile.

 

La diagnosi clinica

Successivamente alla valutazione, l’équipe multidisciplinare, composta da neuropsichiatra infantile e terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, concorda per la diagnosi di Ritardo globale dello sviluppo (DSM-5 ®).

 

LA PRESA IN CARICO TERAPEUTICO-RIABILITATIVA

Progetto terapeutico-riabilitativo neuropsicomotorio

Obiettivi a breve e medio termine.

–– Favorire la regolazione delle emozioni per ridurre l’intolleranza del bambino alla frustrazione.

Strategie: partendo dalla sua attività spontanea introdurre piccole modificazioni, aumentando gradualmente la difficoltà delle richieste e utilizzando facilitazioni verbali e posturali, per sostenerlo nell’affrontare nuove esperienze.

–– Aumento dei tempi di attenzione condivisa.

Strategie: preselezione del materiale e preparazione di un setting che limiti elementi distrattori. Facilitare lo sguardo comune e la comunicazione attraverso la mediazione di materiale e immagini.

–– Favorire una migliore organizzazione della motricità globale.

Strategie: aumentare la consapevolezza del bambino rispetto ai movimenti del proprio corpo, favorendo la percezione dei diversi segmenti corporei attraverso modelli motori che presentino caratteristiche di stabilità e lentezza. Le funzioni motorie verranno sostenute in modo indiretto attraverso l’uso di mediatori quali lo spazio e gli oggetti.

–– Migliorere la coordinazione occhio-mano.

Strategie: proporre attività con materiali di diverse consistenze e fattura che stimolino l’esplorazione e l’utilizzo di modalità sia pluridigitale differenziata sia monodigitale selettiva.

–– Facilitare l’organizzazione della cornice di gioco.

Strategie: partendo dall’iniziativa spontanea del bambino, aiutarlo a organizzare l’attività assegnando ruoli, definendo spazi e regole e attraverso la selezione gerarchica del materiale da utilizzare.

–– Favorire lo sviluppo del linguaggio come comunicazione.

Strategie: attraverso la mediazione di oggetti condivisi e la loro «nominazione» favorire la definizione e la categorizzazione dell’oggetto, favorendo la manipolazione e la scoperta delle caratteristiche percettive dello stesso, la sua «metacodificazione» tramite la rappresentazione gestuale, l’uso arbitrario, l’uso immaginario.

–– Arricchire le competenze di rappresentazione e simbolizzazione.

Strategie: utilizzare diversi tipi di materiali (pennarelli, Didò, colori a dita) che favoriscono l’espressività grafo-motoria, guidando il bambino nella rappresentazione, con l’utilizzo di supporti visivi).

 

VALUTAZIONE POST-INTERVENTO TERAPEUTICO

A distanza di 31 mesi dalla presa in carico viene eseguita una nuova valutazione del paziente con gli stessi strumenti diagnostici, per decidere circa la possibile dimissione. L’età del bambino è di 65 mesi (5 anni e 5 mesi).

Il Protocollo di Osservazione e Valutazione Neuropsicomotoria

Il movimento del bambino, che risultava essere brusco e veloce nei momenti di difficoltà, appare più controllato.

Il repertorio di moduli e pattern motori si è arricchito grazie all’investimento sensomotorio dello spazio. Inoltre comincia a emergere l’interesse per attività più statiche, come quelle a tavolino.

Il bambino ora riconosce la propria immagine riflessa nello specchio e indica correttamente su di sé e l’altro le diverse parti del corpo.

Per quanto riguarda l’attività manipolatoria, si è verificato uno sviluppo delle prassie semplici e complesse, soprattutto per quanto concerne le autonomie di abbigliamento: Matteo si toglie e si rimette le scarpe da solo, sfila e infila la giacca, sistemando adeguatamente le maniche quando sono girate.

Per quanto riguarda l’attività grafica, il bambino rappresenta spontaneamente il gioco effettuato al termine della seduta. La figura umana ha una struttura molto semplice e povera di particolari, le parti del corpo sono definite dal contorno. Matteo rappresenta se stesso, il fratello, i genitori. Inoltre, realizza spontaneamente la figura del terapista e del materiale presente in stanza. Il bambino esprime il desiderio di scrivere il proprio nome, riproducendone correttamente alcune lettere.

Permane una lieve instabilità; il piccolo fatica a rimanere per un tempo prolungato sulla stessa attività, necessitando del contenimento del terapista. Tuttavia, le interruzioni dell’attività di gioco risultano essere meno frequenti.

Matteo ha acquisito anche buone capacità di attesa e di alternanza della turnazione.

Il bambino presenta ora buone capacità di differenziazione dei diversi spazi della stanza. Si interessa alla costruzione di uno spazio con il materiale, anche se tende a delegarne la realizzazione al terapista, fornendogli indicazioni.

L’atteggiamento controllante e oppositivo nei confronti dell’adulto appare diminuito. Il bambino si dimostra ora collaborante nei confronti del terapista, accettando le sue proposte di gioco.

Anche la tolleranza della frustrazione è migliorata: Matteo accetta di correggere l’errore quando è in difficoltà e nei giochi di competizione sa perdere senza arrabbiarsi o angosciarsi.

Il gioco di condivisione risulta maturato, come il gioco simbolico: Matteo crea autonomamente una cornice di gioco, ampliandola e arricchendola di modifiche spontanee coerenti con il contesto.

Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, il bagaglio lessicale del bambino risulta arricchito, le frasi pronunciate sono complete di soggetto, verbo e complementi.

La struttura della frase è adeguata, il bambino riesce a esprimere verbalmente i propri pensieri.

Permangono problematiche fonetico-fonologiche per le quali è richiesta una valutazione logopedica. Il distacco dalla stanza risulta meno difficoltoso: Matteo accetta di terminare l’attività intrapresa quando viene annunciata la fine della seduta e collabora nel riordinare la stanza di terapia

A seguire, pubblichiamo anche la rivalutazione attraverso Griffiths Mental Developmental Scales,

Children’s Play Therapy Instrument, ICF-CY.

Griffiths Mental Developmental Scales

Il Quoziente Generale di sviluppo raggiunto è di 95, pari a un’età mentale di 62 mesi, a fronte di un’età cronologica di 65 mesi e 23 giorni. Il profilo di sviluppo presenta un andamento più omogeneo, rispetto alla precedente valutazione con lo stesso strumento. La scala A (locomotoria) presenta un sub-quoziente di 101, la scala B (personale-sociale) di 92, la scala C (udito-linguaggio) di 92, la scala D (coordinazione occhio-mano) di 105, la scala E (performance) di 92 e infine la scala F (ragionamento pratico) di 86.

Children’s Play Therapy Instrument (CPTI)

Dall’analisi descrittiva dell’attività di gioco emergono, oltre alle attività di motricità globale, precedentemente effettuate in prima scelta, attività di manipolazione, problem solving, costruzione, imitazione. Il gioco può essere strutturato dal bambino, che si dimostra ora un partecipante attivo. Il gioco si svolge prevalentemente nello spazio della «macrosfera» e della «microsfera»: le attività non si riferiscono più al corpo del bambino, ma sono rivolte agli oggetti nello spazio reale della stanza e utilizzati anche in modo simbolico.

Per quanto riguarda le componenti affettive del gioco, emerge una buona capacità di regolazione delle proprie emozioni, che risultano appropriate al contesto. Il tono affettivo espresso nei confronti del terapista risulta positivo. Il gioco di ruolo complesso risulta maturo: il bambino

è in grado di costruire diversi scenari e di inserire nella narrazione del suo gioco ruoli di fantasia, ad esempio interpretando personaggi dei cartoni animati (es.: finge di essere un supereroe...).

Il linguaggio verbale viene utilizzato nelle attività per accompagnare la narrazione.

 

ICF-CY checklist

Alla seconda valutazione mediante ICF-CY checklist sono emersi i seguenti codici:

Funzioni corporee

–– b1250.1 adattabilità

–– b320.1 funzioni dell’articolazione della voce

Attività e partecipazione

–– d1331.12 combinare le parole in frasi

–– d250.20 accettare le novità

–– d8803.10 gioco cooperativo-condiviso

 

 

RISULTATI PRE- POST INTERVENTO RIABILITATIVO

Dal confronto tra le applicazioni del Protocollo di Osservazione e Valutazione Neuropsicomotoria, prima e dopo l’intervento, è emerso un quadro di miglioramento in tutte le aree dello sviluppo. A livello posturale-motorio, la situazione di impaccio globale e di goffaggine si è modificata: ora i movimenti appaiono fluidi e maggiormente controllati.

Per quanto riguarda l’area della manipolazione, si è verificato un incremento delle prassie, soprattutto di abbigliamento, e un maggiore interesse per attività statiche al tavolino.

A livello grafico, si è effettuato il passaggio dallo scarabocchio alla rappresentazione dell’attività effettuata in seduta, con particolari contestuali, come la figura umana.

A livello neuropsicologico, sono maturate la differenziazione degli spazi e la capacità di mantenimento dell’attenzione per un tempo sufficientemente prolungato sul compito.

A livello cognitivo-relazionale, la tolleranza alla frustrazione, che era scarsa di fronte a richieste esterne, si presenta ora aumentata. Il gioco, prima ripetitivo e distruttivo, prevalentemente sensomotorio, consiste ora in attività di condivisione e giochi simbolici, proposti e strutturati spontaneamente dal paziente. Il bambino si presenta collaborante nei confronti del terapista, si sono ridotti gli episodi di oppositività.

A livello linguistico, permangono le problematiche fonetiche-fonologiche, accanto a un incremento del bagaglio lessicale del bambino.

Tali risultati rappresentano la conferma del pieno raggiungimento degli obiettivi del progetto terapeutico.

Il profilo di sviluppo emerso dalla seconda applicazione delle Griffiths Mental Developmental Scales ha presentato una minor disarmonicità rispetto alla prima valutazione (figura 1)

La scala A (locomotoria), che alla valutazione preintervento riportava un sub-quoziente di 72,1, alla seconda applicazione riporta un punteggio di 101. La scala B (personale-sociale) è passata da un sub-quoziente di 79,4 a un sub-quoziente di 92. La scala C (udito-linguaggio) da un sub-quoziente di 63,2 è passata a un sub-quoziente di 92. La scala D (coordinazione occhio-mano) è passata dal sub-quoziente di 73,4 al sub-quoziente di 105. La scala E (performance) che riportava un sub-quoziente di 78,4, presenta ora un sub-quoziente di 92. Infine, la scala F (ragionamento pratico) è passata da un sub-quoziente di 70,6 a un sub-quoziente di 86. Da questi risultati, sono emersi progressi in tutte le aree indagate; l’incremento ha riguardato in particolare l’area del linguaggio e quella della coordinazione occhio-mano.

Si conclude che il Quoziente Generale di Sviluppo raggiunto alla prima applicazione dello strumento era di 72,8 pari a un’età mentale di 25 mesi, a fronte di un’età cronologica di 34 mesi. Il Quoziente Generale di Sviluppo ottenuto, invece, con l’applicazione post-intervento dello stesso strumento è stato di 95, pari a un’età mentale di 62 mesi, a fronte di un’età cronologica di 65 mesi.

Dal confronto fra le due applicazioni del Children’s Play Therapy Instrument è emerso un quadro di miglioramento riguardo al livello del gioco intrapreso. Si evidenzia, infatti, il passaggio dalla predilezione per attività prettamente sensomotorie ed esplorative all’interesse per attività di manipolazione, problem solving, classificazione, costruzione e giochi simbolici. Dalla prima applicazione emergeva che Matteo poteva iniziare spontaneamente un’attività senza essere in grado di strutturarne una cornice condivisa. Attualmente, invece, il bambino è in grado di strutturare un’attività complessa. I momenti di isolamento, interruzione del gioco e distruzione si sono ridotti. Il bambino, da partecipante passivo, diventa partecipante attivo del suo gioco, che assume le caratteristiche del «gioco di ruolo» maturo.

Inserisce nuovi elementi e personaggi, come quelli dei cartoni animati e delle favole, finge di essere un esploratore, un poliziotto, un supereroe. Scompare la caratteristica distruttiva del gioco della lotta. Il bambino, prima spesso isolato e inibito, diventa ora cooperativo e collaborativo, instaurando una relazione positiva con il terapista (figura 2).

Per quanto riguarda l’applicazione dell’ICF-CY chec-klist, è emerso un quadro di miglioramento in tutti i campi indagati. Nella seconda valutazione, infatti, sono risultati assenti i seguenti codici relativi a «Funzioni corporee», che si erano riscontrati, invece, nella prima applicazione dello strumento: b1140.2 (orientamento rispetto al tempo); b117.2 (funzioni intellettive); b1255.2 (propositività); b144.1 (funzioni della memoria); b147.3 (funzioni psicomotorie); b163.3 (funzioni cognitive di base). I codici b320.2 (funzioni dell’articolazione della voce) e b1250.2 (adattabilità) si sono modificati nella seconda applicazione, la quale ha riportato i codici b1250.1 (adattabilità) e b320.1 (funzioni dell’articolazione della voce), indicando, in questi campi, un passaggio dal qualificatore «2» al qualificatore «1». Inoltre, sono venuti meno i seguenti codici relativi ad «Attività e partecipazione»: d110.10 (guardare); d1332.33 (acquisire la sintassi); d135.01 (ripetere); d2105.20 (completare un compito complesso); d3102.20 (comprendere messaggi verbali complessi). Il codice d8803.30 (gioco cooperativo condiviso), che emergeva dalla prima applicazione dell’ICF-CY checklist, si è modificato nella valutazione post-intervento, dalla quale è emerso il codice d8803.10, dunque un passaggio dal qualificatore «3» al qualificatore «1» in questo campo. Per quanto riguarda il dominio «Attività e partecipazione» è utile anche sottolineare la presenza di due nuovi codici, emersi durante la valutazione post-intervento: d1331.12 (combinare le parole in frasi) e d250.20 (accettare le novità). Il primo si riferisce alla produzione linguistica del bambino che, essendosi arricchita a livello lessicale, presenta ora problematiche rispetto alla formulazione di frasi. Il secondo, accettare le novità, caratterizza l’atteggiamento oppositivo di fronte alle richieste complesse, emerso nel corso del trattamento e riportato anche nel Protocollo di Osservazione e Valutazione Neuropsicomotoria.

In riferimento al dominio «Fattori ambientali», è risultato assente, alla valutazione post-intervento, il codice e355+2 (operatori sanitari): è avvenuta, infatti, la dimissione del paziente dal percorso terapeutico riabilitativo, per il raggiungimento degli obiettivi del progetto.

 

 Verifica del progetto riabilitativo neuropsicomotorio

Dalla verifica del progetto riabilitativo e dalla valutazione neuropsicomotoria e neuropsichiatrica si evidenzia che tutti gli obiettivi del progetto terapeutico-riabilitativo sono stati raggiunti. Si concorda quindi con i genitori la dimissione dalla terapia neuropsicomotoria e si propone una presa in carico logopedica per i disturbi foneticofonologici.

 

CONCLUSIONI

La terapia neuropsicomotoria ha utilizzato strategie che hanno permesso a Matteo, che mostrava una difficoltà nell’organizzazione delle diverse aree funzionali espressa attraverso il ritardo di sviluppo di abilità, di potenziare le sue capacità motorie, psichiche, cognitive e sociali. Ha aiutato il bambino a utilizzare strumenti di comunicazione per condividere con il terapista una gamma sempre più ampia di emozioni. In terapia Matteo ha realizzato nuove esperienze che gli hanno permesso di apprendere e di modificarsi con l’aiuto del terapista che lo ha sostenuto nel percepire e superare i suoi limiti, sperimentando livelli di frustrazione tollerabili.

 

ABSTRACT

The article discusses the diagnostic process and the therapeutic rehabilitative treatment by way of

a clinical case study. It proposes a description of psychomotor delay, meaning the description of

non-functioning motor skills, communicative and language skills, cognitive or affective-social skills,

both singularly or more frequently «associated», that the DSM-5® now more correctly describes as «Global Developmental Delay»

 

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Maria Letizia Ferretti, Paola Rampoldi, Giorgio Pietrosanti

Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, Università Sapienza - Roma

 

Nei primi anni di vita i bambini imparano a utilizzare oggetti di uso quotidiano con modalità di apprendimento che seguono una comune sequenza evolutiva. in questo periodo si assiste a un’importante evoluzione delle diverse componenti dell’atto prassico, che si influenzano reciprocamente nel corso del loro sviluppo.

In un’ottica riabilitativa è importante avere uno strumento che permetta di quantificare le prestazioni del bambino e che fornisca,nel contempo, un’analisi qualitativa delle sue performance. a tal fine è stato ideato uno strumento, la Griglia di Analisi delle Prassie Transitive (GAP-T), atto ad analizzare e valutare lo sviluppo delle prime prassie transitive.

In questo articolo riportiamo il confronto, effettuato attraverso la GaP-T, tra le performance di due bambini della stessa età, ambedue con difficoltà prassiche ma con profili motorio-prassici differenti: il primo con difficoltà di tipo strumentale e il secondo con difficoltà legate alla componente ideativa. la differenziazione dei loro profili fornisce ulteriori informazioni per la definizione di un intervento riabilitativo più specifico e mirato.

Nel periodo che si colloca fra i 2 e i 5 anni i bambini scoprono il mondo degli oggetti di uso quotidiano; essi ne apprendono l’uso attraverso un percorso evolutivo caratterizzato dallo sviluppo parallelo dell’ideazione e dell’abilità motoria. Come si realizza questo processo nelle diverse fasi non è sempre chiaro: osservando l’attività infantile in epoca precoce sembra che, nella scoperta di strumenti d’uso quotidiano, i bambini siano guidati da un’idea iniziale sul significato d’uso dello strumento e, successivamente, da che cosa vogliono fare con esso.

L’analisi dell’attività dei bambini in questa fascia d’età evidenzia che le modalità di apprendimento variano e si evolvono seguendo una comune sequenza evolutiva: dall’apprendere l’uso dell’oggetto utilizzando un comportamento per prove/errori, il bambino passa a un comportamento dettato da uno schema rappresentativo, alla costruzione di un sistema di relazioni spazio-temporali e di causa-effetto. L’imitazione, inizialmente passiva e automatica, viene gradualmente utilizzata in modo più flessibile e permette l’identificazione di regole che, all’inizio, vengono applicate rigidamente e, in seguito, modificate e adattate alle diverse situazioni. L’acquisizione di strategie di problem solving permette, infine, al bambino di formulare ipotesi e di verificarne la correttezza sulla base di esperienze precedenti memorizzate e generalizzate.

Le capacità di pianificazione e di programmazione in questo periodo maturano, rendendo così possibile il passaggio dalla realizzazione dell’azione singola alla sequenza articolata; pianificazione e programmazione si integrano tra loro e con le abilità esecutive, per intervenire sulla realtà in modo sempre più appropriato.

Ma quali rapporti di correlazione esistono tra l’idea di usare un determinato oggetto per un certo fine e le abilità nell’utilizzare correttamente quest’ultimo? In quale modo l’ideazione motoria guida il confronto operativo con la realizzazione concreta di un programma? In quale modo le specificità concrete di quel prototipo di oggetto, in quella situazione prototipica, portano il bambino a adattare il suo programma? In quali modi le chiavi funzionali dell’oggetto-strumento conducono il bambino a capire quello che vuole fare e a realizzarlo? Quali modificazioni motorie rimangono nel programma d’uso dell’oggetto e quali modificazioni motorie devono essere riscoperte volta per volta? Quali regole vengono memorizzate e quali adattamenti devono essere fissati per ogni occasione particolare?

 

PROCESSI EVOLUTIVI E STRUMENTO DI ANALISI: LA gAP-T

Il rapporto tra ideazione ed esecuzione (tra prassie ideative e prassie esecutive), nei modelli classici di sviluppo delle prassie, sembrava e sembra dipendere da:

– nessi fine-mezzo;

– nessi fra abilità motorie e complessità dello strumento;

– ampiezza e articolazione del programma cinetico;

– nessi fra meccanismi di feedback (retroazione) e meccanismi di feedforward (anticipazione).

Ma se nell’attività dell’adulto è possibile separare le varie componenti dell’atto prassico e individuare differenti livelli gerarchici coinvolti nella realizzazione dei gesti, come ad esempio la progettazione dell’azione volontaria, la programmazione visuomotoria e l’esecuzione finale in cui si concretizza il piano d’azione, in età evolutiva tali elementi sono difficilmente scindibili tra loro, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo. Sicuramente il bambino, fin dall’età più precoce, opera contemporaneamente su due livelli, il rappresentativo e l’esecutivo, ma non è altrettanto chiaro come i due aspetti si influenzino reciprocamente o assumano alternativamente preponderanza l’uno sull’altro nel corso dello sviluppo.

La difficoltà a individuare con chiarezza i diversi aspetti della prassia rende, da una parte, più complessa la valutazione clinica e, dall’altra, problematica l’impostazione riabilitativa dei soggetti appartenenti a una fascia d’età molto precoce, che presentano una difficoltà nell’area prassica. Per approfondire tale argomento il nostro interesse si è rivolto allo sviluppo della capacità di utilizzare oggetti (prassie transitive strumentali) in modo sempre più maturo, con la finalità di determinare i tempi di acquisizione di abilità specifiche e individuare le modalità di acquisizione della competenza, sia rispetto all’andamento generale della popolazione osservata che in riferimento alla capacità del singolo bambino di adottare strategie personali.

Un ulteriore obiettivo è stato quello di analizzare l’evoluzione delle diverse componenti dell’atto prassico , distinguendo una componente ideativa, intesa come individuazione dell’obiettivo, rappresentazione mentale dell’oggetto e del movimento necessari per raggiungere lo scopo,una componente di programmazione, cioè la capacità di prevedere e realizzare l’assemblaggio spazio-temporale di schemi prassici secondo rapporti di sequenzialità o simultaneità, e infine una componente strumentale, ossia la coordinazione e la destrezza, intesa come controllo su componenti del gesto quali la forza, la velocità e la traiettoria.

Per analizzare questi processi abbiamo utilizzato la Griglia di Analisi delle Prassie Transitive strumentali/GAP-T

(Rampoldi e Ferretti, 2011): essa è uno strumento composto di 45 prove, utilizzabile in ambito scolastico e riabilitativo, nella fascia d’età 1-5.6 anni. È stata ideata pensando ad azioni della vita quotidiana del bambino, allo scopo di delineare il profilo di funzionamento del soggetto, cogliere l’emergere di nuove abilità nell’utilizzazione di oggetti appartenenti al suo ambiente, evidenziare eventuali difficoltà motorio-prassiche e individuare le strategie operative per il superamento delle difficoltà di ogni singolo bambino.

L’ordinamento delle prove della GAP-T è stato stabilito sulla base dei dati raccolti, secondo un principio di difficoltà crescente. Le prove sono suddivise in 9 fasce d’età comprendenti 6 mesi ciascuna, dall’età di 1 anno all’età di 5.6 anni. Il punteggio ottenuto dal bambino, confrontato con i dati normativi, permette di identificare il livello di sviluppo raggiunto nella competenza presa in esame. La componente ideativa, la capacità di programmazione e la componente strumentale emergono con il progredire della maturazione delle abilità prassiche e vengono integrate nel corso dello sviluppo; esse concorrono alla formazione dell’atto prassico, assumendo una rilevanza differente nelle diverse fasi evolutive e in relazione alle caratteristiche specifiche delle differenti azioni. All’interno della GAP-T è possibile seguire l’evoluzione della componente ideativa, attraverso la maturazione della rappresentazione dello spazio, del gesto e dell’oggetto.

Per organizzare l’atto prassico in modo efficace, il bambino ha la necessità di rappresentarsi uno spazio operativo esterno in cui collocare il dato percettivo, definire le relazioni spaziali tra i diversi elementi, individuare dei punti di riferimento in base ai quali programmare la traiettoria del movimento e prevedere le modificazioni dei rapporti spaziali tra gli oggetti.

Nella prima fascia d’età (1-1.6 anni) il bambino controlla l’orientamento grossolano del gesto e dell’oggetto rispetto a se stesso, adattandolo nel corso dell’azione (ad esempio, nell’indossare una collana, nel portare il cucchiaio alla bocca); successivamente (1.6-2 anni) è in grado di anticipare e modulare l’orientamento spaziale del gesto e l’orientamento reciproco tra due oggetti o tra parti di uno stesso oggetto (ad esempio, nell’inserire dei gettoni in una fessura adattandone l’orientamento, nell’agganciare la chiusura a incastro del marsupio).

Infine, il controllo dello spazio operativo permetterà di svolgere attività sempre più articolate, in funzione di obiettivi sempre più complessi e fini (a 4.6 anni, ad esempio, nel tenere in mano tre carte da gioco posizionate a ventaglio) e la rappresentazione mentale verrà utilizzata come uno spazio virtuale in cui possono essere pensati movimenti multipli del corpo nello spazio e degli oggetti rispetto al corpo e tra loro (a 5.6 anni, ad esempio, il bambino si organizza per incartare un cubo con un foglio di carta).

In questo periodo evolve in maniera significativa anche la modalità di rappresentazione dell’oggetto. Questa in un primo momento si struttura sulla base degli attributi percettivo-formali, rimanendo così strettamente legata all’apparenza e all’aspetto immediato delle cose; in un secondo momento, il bambino inizia a selezionare anche le proprietà funzionali-dinamiche dell’oggetto e ad avvalersi di queste ultime in modo prioritario per rappresentarsi mentalmente la realtà esterna.

Nell’esecuzione delle prove della GAP-T relative alle fasce d’età più precoci è sufficiente che il bambino si rappresenti l’oggetto come entità fisica che occupa uno spazio che ha caratteristiche percettive e rapporti topologici con gli altri oggetti (ad esempio, a 1-1.6 anni, nel pettinare la bambola); nelle età successive, un’analisi più accurata delle proprietà dell’oggetto e la selezione dei dati più salienti consentono al bambino di collocarlo in categorie predefinite e di intuirne il nucleo funzionale senza bisogno di sperimentarlo (ad esempio, a 2.6-3 anni, nell’azionare il meccanismo di una molletta per applicarla su una carta da gioco).

Nell’esecuzione di alcune prove relative alle fasce d’età più elevate, il bambino sarà in grado di prevedere il funzionamento o anticipare la trasformazione di un oggetto in funzione di un obiettivo mentalmente predefinito, svincolandosi progressivamente dai parametri percettivi (ad esempio, a 4-4.6 anni, nel trasformare uno spaghetto di plastilina in una pallina).

Nel periodo considerato dalla GAP-T si può osservare un importante incremento anche della capacità di programmazione del bambino, in particolare nella fascia d’età centrale, tra i 2 anni e mezzo e i 4.

Nelle fasce d’età più precoci, in cui il bambino riesce a controllare un solo elemento alla volta, questa componente si esprime nella semplice capacità di collegare singoli schemi mentali secondo un rapporto di sequenzialità lineare (ad esempio, a 1.6-2 anni, nell’inserire dei gettoni in un salvadanaio), mentre non è ancora in grado di coordinarli mentalmente in un sistema che consenta di eseguire più azioni simultanee.

In seguito, l’integrazione tra componenti esecutive più mature e componenti rappresentazionali via via più astratte ed elaborate permette al bambino di organizzare e combinare tra loro diversi schemi d’azione in modo sempre più manipolabile e flessibile (ad esempio, a 2-2.6 anni, nell’infilare le perle; a 2.6-3 anni, nello sciogliere un fiocco e il nodo; intorno ai 3 anni, nell’orientare correttamente gli occhiali per metterli alla bambola; a 3-3.6 anni, nell’utilizzare lo spazzolino e il dentifricio).

Infine il bambino sarà in grado di affrontare compiti impegnativi nei quali è necessario selezionare e integrare più indizi percettivi contemporaneamente, recuperare in memoria moduli prassici già sperimentati e appresi, coordinare mentalmente un maggior numero di subazioni secondo rapporti di simultaneità/sequenzialità, prevedere  mentalmente l’esito della propria azione (ad esempio, a 3.6-4 anni, nell’abbottonare e sbottonare un indumento indossato; a 4-4.6 anni, nel chiudere lo zainetto allacciandone la fibbia).

Rispetto alla componente strumentale l’analisi delle prove mette in evidenza lo sviluppo di parametri quali la coordinazione e la destrezza. Nelle prove relative alle fasce d’età più basse il repertorio del bambino comprende movimenti monolaterali o consensuali che richiedono solo una parziale integrazione tra i due emilati (ad esempio, a 1-1.6 anni, nel portare il cucchiaio alla propria bocca o alla bocca della bambola, nell’indossare gli occhiali orientati dall’adulto); in una seconda fase il bambino impara a eseguire movimenti reciproci e a differenziare la funzione statica e la funzione dinamica all’interno di un’attività bimanuale (ad esempio, intorno ai 2 anni, nello svitare il tappo di una piccola bottiglia; a 2-2.6 anni, nello strappare un foglio di carta). Successivamente sarà in grado di variare il ruolo delle due mani all’interno di una sequenza prassica (ad esempio, a 2.6-3 anni, aprire e richiudere di seguito una chiusura lampo).

La progressiva maturazione della motricità fine, dei movimenti intrinseci e delle sinergie complesse delle dita rende possibile realizzare pattern sequenziali ritmici e inoltre permette di modificare e adeguare la prensione all’interno della sequenza, in base sia alle caratteristiche dell’oggetto (ad esempio, a 3-3.6 anni, sa organizzarsi per azionare una penna a scatto con una sola mano) che all’azione da svolgere (ad esempio, a 4-4.6 anni, nel far girare una piccola trottola).

Anche la capacità di controllare la forza matura nel corso dello sviluppo: se inizialmente il bambino riesce ad applicarla con un gesto più grossolano e con la partecipazione di gruppi muscolari più prossimali (ad esempio, a 1.6-2 anni, nell’aprire una porta azionando la maniglia), successivamente acquisisce la capacità di modulare l’intensità della forza (ad esempio, a 2.6 anni, nel regolare il flusso del liquido nel compiere travasi), di controllare il coordinamento di diverse forze (ad esempio, a 4-4.6 anni, nel chiudere uno zainetto stringendone il cordino), e di convogliare la forza sempre più distalmente (ad esempio, a 5-5.6 anni, nell’imprimere il movimento a una biglia).

Infine, il movimento acquista progressivamente le caratteristiche di fluidità e armonia quando il bambino, contemporaneamente a un maggiore controllo sulle coordinate spaziali del movimento, raggiunge una buona padronanza sulla modulazione della forza, della velocità e sulla combinazione di entrambi i parametri.

Come già detto, pur essendo possibile seguirne l’evoluzione nel passaggio da una fascia d’età alla successiva, le diverse componenti dell’atto prassico (ideativa, di programmazione e strumentale) inizialmente sono poco distinguibili tra di loro. Le prime prassie che il bambino è in grado di compiere sono, infatti, gesti poco complessi in cui gli aspetti rappresentativi sono elicitati dalle caratteristiche percettive dell’oggetto, la capacità di programmazione è limitata all’organizzazione di un semplice schema d’azione e il livello di coordinazione e di destrezza richiesto dal compito è minimo. Le fasi di ideazione, programmazione ed esecuzione spesso si sovrappongono e coincidono temporalmente.

Diversamente, alla fine del periodo da noi considerato, il bambino può affrontare compiti nuovi e inusuali, anticipando mentalmente la risoluzione del compito e organizzando schemi d’azione articolati che realizza grazie a un repertorio motorio ampio e ricco. A questo punto le componenti dell’atto prassico sono scindibili sia temporalmente che concettualmente, anche se per l’osservatore spesso è difficile differenziare gli aspetti ideativi da quelli di programmazione, a meno che non vengano esplicitati verbalmente dal bambino.

 

ESEMPI CLINICI

In ambito riabilitativo lo strumento si è rivelato utile per individuare precocemente un ritardo di sviluppo delle abilità prassiche e valutare l’evoluzione delle stesse. La somministrazione della GAP-T permette, infatti, di:

– individuare il livello di funzionamento del bambino nello svolgimento di prassie transitive strumentali, rispetto a un profilo standard corrispondente alla sua fascia d’età, fornendo un dato necessario per la costruzione di un profilo di sviluppo analitico;

– tracciare itinerari riabilitativi mirati, monitorare e quantificare le modificazioni in seguito all’intervento riabilitativo. La somministrazione del test, infatti, oltre a determinare un livello prestazionale del bambino, fornisce un’analisi  qualitativa della funzione indagata che permette la definizione del disturbo molecolare, individuando l’area più compromessa (strumentale, ideativa e/o di organizzazione sequenziale) sulla quale occorre incentrare il proprio intervento.

Sono stati confrontati due casi appartenenti alla stessa fascia d’età con profili motorio-prassici differenti. Alessandro, di anni 5.2, dimostra una difficoltà di tipo strumentale: nelle sue performance si riconoscono, infatti, una precisa

intenzione d’uso e una buona capacità di elaborazione sequenziale, ma una scarsa padronanza funzionale dell’oggetto (intesa come motricità fine carente, scarso controllo e modulazione della forza e scarsa coordinazione bimanuale).

Le difficoltà di Nicolò, di anni 5.3, sembrano invece essere più legate alla componente ideativa; il bambino dimostra, infatti, una scarsa capacità di rappresentarsi l’obiettivo finale, ovverosia di anticipare mentalmente l’utilizzazione dell’oggetto o la sua possibile trasformazione: nello svolgimento delle prove deve sperimentare ripetutamente l’oggetto per individuarne le caratteristiche più indicative rispetto all’uso e inibire l’attenzione al dato percettivo più  evidente.

I bambini hanno svolto le prove relative alla loro fascia d’età (anni 4.7/5 e 5.1/5.6). Riportiamo nella tabella 1 le diverse modalità di esecuzione.

 

 

Alessandro

Nicolò

Fare una pallina con la plastilina

Esegue la prova su richiesta verbale, dimostrando di avere una stabile rappresentazione mentale della pallina e 1degli schemi d’azione necessari per modellarla; compie il movimento correttamente, anche se ha qualche difficoltà a modularne la forza e a controllare la pressione (talvolta la pallina gli cade di mano)

 

Esegue la prova su modello, non ha stabilizzato la correlazione tra schemi d’azione e risultato finale (alterna movimenti reciproci rotatori e lineari, non utilizza l’applicazione di pressione)

 

Fare girare una piccola trottola

Intuisce immediatamente la funzione dell’oggetto, che posiziona e attiva correttamente, ma con una presa imprecisi, esibendo imperfetto controllo del movimento fine delle dita

(movimento poco modulato) e sovrabbondanza di movimento

(iperestensione delle dita dopo rilascio).

 

Le caratteristiche formali dell’oggetto, che richiamano la forma dell’ombrello, inducono un utilizzo secondo questa interpretazione; solo quando vede la trottolina rotolare casualmente ne intuisce l’uso, la impugna correttamente

e la attiva con un’esecuzione precisa.

 

Chiudere lo zainetto stringendo un cordino con coulisse

Non riesce a compiere le due azioni necessarie simultaneamente: o tira il cordino o preme il pulsante dello stantuffo

 

Non prende in considerazione lo stantuffo, tira il cordino verso di sé, tenta di avvicinarne l’estremità alla coulisse; dopo l’indicazione dell’operatore, tenta di far scorrere lo stantuffo senza premere il pulsante; esegue correttamente le due azioni contemporaneamente solo quando l’operatore gli indica il pulsante

 

Chiudere lo zainetto allacciando una piccola fibia

Esegue correttamente l’intera sequenza, seppure con impaccio nella presa fine e lentezza esecutiva

 

Cerca di mettere in relazione le due parti della chiusura (fibbia e linguetta), ma procede per tentativi: si lascia guidare dal dato percettivo (ad esempio, infila la linguetta nella fibbia dalla parte opposta) e non dall’anticipazione delle varie fasi della sequenza

 

Tenere tre carte in mano a ventagli

Posiziona subito le carte correttamente orientate verso di sé, con qualche difficoltà nel far scivolare una carta sull’altra per metterle a ventaglio (movimenti intrinseci delle dita). Non è in grado di tenere le carte con una mano e compiere un gesto diverso con l’altra (prendere un’altra carta):

o gli cadono di mano o le posa sul tavolo

 

Tiene la carte in mano posizionate a ventaglio con relativa facilità, ma ha difficoltà a orientarle correttamente verso di sé; vi riesce solo dopo ripetute sollecitazioni e un lungo periodo di sperimentazione.

 

Strizzare un tovagliolo intriso d'acqua

Mostra un’iniziale difficoltà a compiere il movimento di torsione del tovagliolo (movimento reciproco tra i due emilati), che esegue in più tentativi.

 

Lo schema di movimento non è stabile: impugna il tovagliolo correttamente, alterna il movimento di torsione a quello di stringere il tovagliolo o avvicinare i due pugni, ha difficoltà nel riposizionare la presa

 

Tirare la biglia utilizzando la pressione tra pollice e indice

Accenna il movimento corretto, ma la realizzazione è poco funzionale per scarsa settorializzazione, eccesso di movimento e inadeguato uso della resistenza/pressione

 

Accompagna o spinge la biglia con la mano aperta e le due dita estese, senza tentare mai di sfruttare la pressione di un dito sull’altro. Compie correttamente il movimento su imitazione

 

Incartare un dado con un foglio di carta

Imposta immediatamente la sequenza corretta, ma la realizzazione è imprecisa a causa delle difficoltà esecutive: non riesce a compiere contemporaneamente le due azioni con entrambe le mani (mantenere la sovrapposizione centrale dei due lembi del foglio e piegare la parte laterale)

 

Posiziona il dado sul foglio di carta e tenta di ricoprirlo senza organizzare la sequenza di azioni necessarie per incartarlo: lo avvolge lateralmente senza prima sovrapporre i due lembi del foglio

 

 

CONCLUSIONI

Nel periodo considerato l’ideazione prassica, la prassia ideomotoria e il controllo esecutivo evolvono in modo considerevole, influenzandosi reciprocamente secondo rapporti complessi difficili da comprendere. Nel caso di  difficoltà prassiche è importante avere uno strumento che permetta non solo di quantificare il livello di sviluppo del bambino, ma anche di analizzare l’interazione tra le  componenti prassiche e identificare l’area problematica Attraverso un’analisi qualitativa della performance del bambino, è possibile infatti individuare sottoprofili di uno stesso disturbo la cui differenziazione è orientativa in termini riabilitativi.

Nei casi riportati l’intervento riabilitativo si differenzierà sostanzialmente. Per Alessandro l’obiettivo sarà affinare il controllo dei meccanismi posturocinetici all’interno di un’attività gestuale prassica, tramite l’esecuzione di azioni sempre più complesse nelle quali il bambino dovrà controllare e integrare più componenti del gesto (settorializzazione del movimento, direzionalità, applicazione della forza), la simultaneità di più azioni e la coordinazione bimanuale.

Per Nicolò l’obiettivo sarà, invece, ampliare la capacità rappresentativa stimolando l’anticipazione mentale sia nell’esame dell’oggetto (con guida all’analisi del dato percettivo al fine di cogliere gli indizi più pregnanti relativi al suo uso e alla sua possibile trasformazione) che nell’organizzazione di azioni da mettere in atto secondo rapporti di sequenzialità-simultaneità.

 

ABSTRACT

in the first years of life children learn to use everyday objects following a common developmental pathway. in this period we also see the development of the different component of praxis act. The ideation, organization and executive abilities affect each other in the course of their development. From a rehabilitative point of view it is important to have a tool to quantify the performance of the child and, simultaneously, provide a qualitative analysis of his performance. To this purpose was designed the Grid of Analysis of Transitive Praxis (GAP-T), that analyse and evaluate the development of the first transitive praxia. in this article authors compare, through the GaP-T, the performance of two children of the same age, both with praxis deficits but with different motor-praxis profiles: the first with executive deficit and the second with more difficulties in the conceptual component. The possibility to describe in detail the differences between the two profiles is also useful for a more specific and focussed intervention.

 

 

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Carlo Muzio

Neuropsichiatra Infantile, Psicoterapeuta; Docente di Neurolinguistica e Neuropsicologia dell’Età evolutiva, Università di Pavia

 

A partire dall’emergenza delle teorie basate sull’embodied cognition sono illustrate le principali tappe degli studi sul meccanismo dei neuroni specchio nei diversi processi di simulazione. Queste ricerche hanno rivoluzionato la  tradizionale visione del sistema motorio, mettendo in primo piano il ruolo dell’azione nello sviluppo dei processi cognitivi. Oggi dobbiamo considerare centrale il ruolo del circuito azione-percezione-cognizione nelle valutazioni cliniche e negli interventi riabilitativi per i disturbi minori del movimento.

La clinica dei disturbi del movimento dovrebbe basarsi sulle attuali conoscenze del sistema motorio e sul ruolo della funzione motoria nello sviluppo cognitivo. Purtroppo anche nelle recenti European Academy of Childhood Disability (EACD) Recommendations per i Disturbi della Coordinazione Motoria (Developmental Medicine and Child Neurology, 2012) prevale ancora una visione «periferica», prevalentemente esecutiva della funzione motoria. Da qui la scelta terminologica, non neutrale, di privilegiare l’espressione «Disturbo della Coordinazione Motoria», lasciando in ombra il concetto di disprassia evolutiva o, peggio, considerando i due termini come sinonimi. Reputo necessario ripercorrere alcuni sviluppi teorici nell’ambito delle neuroscienze e delle scienze cognitive per cogliere la nuova visione della funzione motoria nello sviluppo che sta emergendo attualmente. L’embodied cognition, termine traducibile come

«cognizione incarnata», è un campo di ricerca interdisciplinare che va dalla filosofia della mente all’antropologia cognitiva, alle neuroscienze, che si è sviluppato a partire dagli anni ’90 del secolo scorso e ha ottenuto un grande impulso dai risultati sperimentali delle ricerche neurofisiologiche sui neuroni canonici e sui neuroni specchio.

Nella visione classica delle scienze cognitive il corpo era considerato un «accessorio» esecutivo quando venivano affrontate questioni inerenti la cognizione, il linguaggio e, più in generale, i processi mentali: Quando pensiamo alla mente e all’apprendimento privilegiamo spesso una concezione logica-astratta. Ci soffermiamo sul «linguaggio della mente» e sui suoi aspetti incorporei e molto meno sulla concretezza e sulle azioni motorie, malgrado azioni e movimenti abbiano un ruolo centrale nei processi di formazione e rappresentazione mentale. (Oliverio, 2001, p. 1)

Questa visione è stata rovesciata da numerosi studi sperimentali e nuovi modelli teorici che hanno evidenziato il ruolo del corpo fisico nello sviluppo degli stessi processi cognitivi. Azioni e movimenti hanno un ruolo centrale nei processi di rappresentazione mentale a partire dallo stesso sviluppo embrionale: l’embrione è anzitutto un organismo motorio, prima di essere un organismo sensoriale. A livello embrionale, fetale e nella prima infanzia l’azione precede la sensazione: l’organismo compie movimenti riflessi e successivamente ne ha la percezione.

Le diverse discipline che hanno contribuito all’elaborazione dell’embodied cognition hanno sviluppato un insieme di teorie aventi in comune una concezione della cognizione radicata nel corpo: la cognizione dipenderebbe infatti da caratteristiche corporee, in particolare dal sistema motorio e dai sistemi sensoriali e percettivi. Il modo in cui noi ragioniamo, pensiamo, sviluppiamo concetti e parliamo è strettamente connesso al modo in cui percepiamo, alle azioni che compiamo e, più in generale, alle interazioni che il nostro organismo (tutto il corpo, e non solo il Sistema Nervoso Centrale) intrattiene con l’ambiente circostante.

Nella tradizionale filosofia della mente e nella psicologia cognitiva, dagli empiristi alle teorie dell’informazione

(Human Information Processing/HIP),si sosteneva che le rappresentazioni mentali fossero strutture di tipo linguistico, con proprietà di combinazione simili alla sintassi, e il concetto di rappresentazione mentale era qualificato come astratto, simbolico e amodale. In queste concezioni è la sensazione a precedere l’azione: dall’input sensoriale alla sua analisi (percezione) e dall’elaborazione dei dati percepiti all’output motorio.

In parallelo il sistema motorio era considerato un «controllore-effettore» di «comandi» inviati da aree del lobo frontale e modulati dal cervelletto. Possiamo rappresentare la concezione classica, tuttora presente nei manuali

correnti di neurofisiologia e neuropsicologia cognitiva, come un sandwich che all’esterno presenta due fette di pane (l’input percettivo e l’output motorio), con al centro la parte più gustosa: la cognizione (Hurley, 2008).

Il presupposto era dato dal fatto che percezione e azione fossero separate e che la percezione fosse un processo

costante, indipendente dalla risposta motoria prevista. In realtà noi, come tutti gli organismi viventi, siamo esseri

adattivi: percepire ci serve per agire nell’ambiente e con le altre persone, essendo noi animali sociali. Quello che

percepiamo non è indipendente dallo scopo e tra percezione e azione vi è una relazione circolare.

Nelle attuali conoscenze del sistema motorio questa sequenza è rappresentata in modo più realistico attraverso uno schema ciclico e non lineare: dal primo passo (movimento) il SNC registra le conseguenze determinate nell’ambiente (la loro percezione) e le modifiche che queste determineranno sui movimenti successivi. «Pensare», in quest’ottica, non sarebbe altro che decidere quale mvimento realizzare successivamente.

Il movimento dunque non appare solo come un mezzo per soddisfare le necessità dei centri cerebrali superiori (la mente), ma sarebbe l’attività mentale a essere il mezzo per eseguire le azioni. Questo modo di guardare alla realtà

mentale può apparire paradossale: in genere le funzioni motorie vengono considerate di basso livello, subordinate

alle strutture considerate alla base delle più elevate attività cognitive, della razionalità del pensiero «puro».

I primi lavori di Barsalou (1999) hanno evidenziato che la cognizione umana è basata su rappresentazioni mentali che includono informazioni provenienti dal sistema motorio e da diverse modalità sensoriali: quando leggiamo la parola «cane» si attivano contemporaneamente aree corticali deputate al movimento, alla percezione visiva e uditiva oltre che aree del linguaggio: è come se, per rappresentarci il concetto di «cane», dovessimo simulare la nostra esperienza concreta con un cane.

Le ricerche sui neuroni specchio hanno evidenziato come l’organizzazione del movimento sia frutto delle strette connessioni intercorrenti tra aree motorie e sensoriali: la corteccia frontale e la corteccia parietale posteriore sono costituite da un mosaico di aree anatomicamente e funzionalmente distinte, ma interconnesse da circuiti destinati a lavorare in parallelo per integrare informazioni sensoriali e motorie. La conoscenza attuale del sistema motorio ci permettere di distinguere fra il movimento e l’azione; infatti è stata dimostrata una netta differenziazione tra il circuito deputato al sistema di movimento elementare (Area Intraparietale Anteriore, AIP-F1) e quello/i deputato/i ad atti motori finalizzati (AIP-F5) (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006; Rizzolatti et al., 1996). Questo dato ci impone di superare la tradizionale concezione «meccanica», puramente esecutiva, del sistema motorio.

La scoperta dei neuroni canonici e dei neuroni specchio ha portato alla considerazione che le azioni non sono rappresentate nei termini dei movimenti necessari alla loro attuazione o del tipo di effettore (mano, bocca, piede, ecc.) con cui sono svolte, ma nei termini del loro scopo (funzione adattiva).

Neuroni canonici e neuroni specchio sono due tipi di neuroni visuo-motori rilevati inizialmente nell’area F5 del macaco e successivamente individuati anche nell’uomo (Rizzolatti e Craighero, 2004; Rizzolatti e Sinigaglia, 2006).

I neuroni canonici (meno studiati, rispetto ai più famosi neuroni specchio) codificano per diversi tipi di prensione (ad esempio, presa di precisione e presa di forza). Essi si attivano quando si compie l’azione e/o si vede l’oggetto con cui l’azione è svolta. I neuroni specchio, invece, scaricano quando si compie l’azione e/o quando la si vede fare da un altro. Nel caso, ad esempio, della prensione della nocciolina, gli stessi neuroni scaricano indipendentemente dal fatto che la nocciolina sia afferrata con la mano sinistra, la mano destra o con la bocca. L’azione «afferrare la nocciolina» è quindi codificata in relazione allo scopo generale e non sulla base degli effettori agenti: non si tratta di un semplice «controllo del movimento» (questo è il termine usato nei manuali di neurofisiologia e neuropsicologia per descrivere le azioni).

I neuroni specchio scaricano dunque quando l’azione è svolta e quando l’azione è percepita: di conseguenza azione e percezione non possono più essere visti come moduli separati in quanto la stessa cellula agisce e percepisce.

Ciò che rende un movimento un atto motorio è il fatto di essere caratterizzato da uno scopo e, infatti, ogni singolo movimento può avere diversi scopi; come Fogassi et al. (2005) hanno dimostrato, nella corteccia parietale della scimmia esistono neuroni che codificano i singoli atti motori in modo diverso a seconda dello scopo dell’azione. Questo è stato documentato anche nell’uomo (Iacoboni et al., 2005).

Quando osserviamo altre persone che svolgono un’azione (una sequenza di movimenti finalizzati a uno scopo), la nostra comprensione dell’azione dell’altro si basa sulla «risonanza motoria», ovvero sulla proprietà del meccanismo dei neuroni specchio di riflettere i movimenti che vediamo (attivazione della stessa rete neurale che dovremmo utilizzare per compiere noi stessi quei movimenti).

Inoltre il fenomeno della risonanza motoria presenta importanti implicazioni sociali: i neuroni specchio si attivano maggiormente quando osserviamo gesti simbolici effettuati da un attore appartenente alla nostra cultura rispetto a un attore non occidentale (Molnar-Szakacs et al., 2007). Nello stesso modo il sistema dei neuroni specchio si attiva maggiormente nella risposta empatica al dolore dell’altro (risonanza visuo-tattile) quando questo è una figura più simile o familiare (Serino, Pizzoferrato e Ladavas, 2008).

L’azione inoltre è un elemento fondamentale per lo sviluppo del senso del corpo e della propria identità: il riconoscersi agente di un’azione è un passaggio fondamentale per la formazione del Sé e dell’idea di identità (Tessari et al., 2010). Queste ricerche testimoniano sia che non c’è una separazione fra processi «bassi» (percezione e azione) e processi «alti» (cognizione e linguaggio), sia che la stessa cognizione non è astratta e arbitraria e non è separabile dall’esperienza del corpo in azione, ma è radicata nell’esperienza.

La nozione di simulazione (Gallese, 2009) ha assunto un ruolo centrale nelle teorie dell’embodied cognition e viene utilizzata con diverse accezioni a seconda dei contesti: si parla di simulazione motoria durante l’osservazione di oggetti o di persone che svolgono un’azione e nella comprensione del linguaggio.

In queste tre diverse situazioni si attivano differenti reti neurali. Nell’osservazione di oggetti sono attivi i neuroni canonici. Questi neuroni mediano il rapporto dell’organismo con l’ambiente esterno, rapporto che fornisce una base neurale al concetto di affordance; questo concetto, elaborato nell’ambito dell’antropologia cognitiva, racchiude l’insieme di tutte le azioni che un oggetto percepito ci invita a compiere su di esso (Gibson, 1966). Ci sono voluti più di quarant’anni per comprendere appieno quest’idea che travalica la distinzione tra soggettivo e oggettivo: la percezione è influenzata dal tipo di risposta motoria che possiamo fornire; in base a questo concetto, potremmo dire che è la tazza a offrirsi a noi per essere afferrata (Gibson, 1979). L’affordance è il legame più saldo fra azione e percezione.

Come già evidenziato in precedenza, quando si osservano altre persone che svolgono un’azione si attivano i neuroni specchio: se osservo l’oggetto si attivano i neuroni canonici (Murata et al., 1997), se osservo la mano che si dirige verso l’oggetto si attivano i neuroni specchio (Rizzolatti e Matelli, 2003).

Il concetto di simulazione fornisce inoltre un legame tra il sistema motorio e il linguaggio: la comprensione del linguaggio attiva contemporaneamente i neuroni canonici e i neuroni specchio (Fadiga et al., 2002; Gallese, 2008). Per la comprensione di parole e frasi, e in particolare di frasi che rimandano ad azioni, è necessaria l’attivazione del sistema senso-motorio e si evoca una Simulazione interna delle situazioni descritte dalle parole (Aziz-Zadeh e Damasio, 2008).

L’attivazione somatotopica delle cortecce motorie e pre-motorie durante la comprensione di parole e frasi di azione è stata confermata con diverse tecniche (studi sperimentali con Frmi, MEG, TMS, con compiti differenti) 1 e riscontrata nella clinica: pazienti con lesioni nelle aree premotorie perdono la capacità di elaborare verbi di azione (Boulenger et al., 2008).

Il sistema motorio dunque non può più essere visto come un «sistema di controllo del movimento», ma deve essere indagato in una prospettiva evolutiva e adattativa, nella quale la cognizione risulta radicata nell’azione e nel sistema sensorio-motorio.

Nella prospettiva dell’embodied cognition la nozione di simulazione rappresenta il contemporaneo reclutamento dei sistemi percettivi, motori ed emozionali che utilizziamo nell’impiego degli stessi oggetti e/o nell’interazione con altri soggetti e dimostra come i processi percettivi, motori e cognitivi siano un unico insieme, non separabile: il circuito azione-percezione-cognizione (Sabbadini, 2005; Borghi e Nicoletti, 2012).

Recentemente sono state individuate le basi neurali dei processi di simulazione implicati nel processo di previsione delle decisioni e delle azioni altrui. Nelle interazioni sociali, le persone si comportano secondo un proprio insieme di valori e motivazioni (in massima parte implicite e non consapevoli). Un gruppo di neuro-scienziati giapponesi del Laboratory for Integrated Theoretical Neuroscience presso il RIKEN Brain Science Institute in Giappone (Suzuki et al., 2012), analizzando con tecniche di fRM l’attività cerebrale di alcuni volontari a cui era stato chiesto di formulare previsioni sul comportamento degli altri in base ad alcune informazioni, hanno osservato due segnali cerebrali cruciali: il primo (segnale di ricompensa) viene elaborato nella CPD (corteccia prefrontale dorsomediale), il secondo (segnale di azione) è stato evidenziato nella CPV (corteccia prefrontale ventromediale). Per dimostrare sperimentalmente questo

processo, Suzuki e collaboratori sono riusciti, attraverso un modello artificiale, a separare i segnali cerebrali del soggetto da quelli simulati.

I ricercatori di Tokyo hanno descritto per la prima volta il processo che governa il modo in cui riusciamo a prevedere le decisioni di un’altra persona attraverso una simulazione della sua mente.

Questo recente lavoro rappresenta un’ulteriore conferma di come il pensiero cosciente sia strettamente correlato all’attività di aree della corteccia responsabili di movimenti reali o «immaginati»: in altre parole, la stessa area del cervello entra in funzione quando si immagina un movimento e quando questo viene pianificato.

Le attuali risultanze delle neuroscienze forniscono una cornice teorica e una forte base sperimentale alla «pratica psicomotoria». Il compito attuale dei clinici è quello di riconsiderare sia le procedure diagnostiche, sia la formulazione dei progetti riabilitativi in un quadro coerente con le attuali conoscenze; in particolare dovrà essere valorizzato il ruolo del circuito azione-percezione-cognizione che ci permette di differenziare chiaramente un disturbo esecutivo del movimento (le difficoltà di coordinazione) da un disturbo dell’azione che dovrà essere analizzato nel contesto anche in relazione all’integrazione senso-percettiva.

Questo tipo di analisi non può essere limitato a semplici prove testologiche, ma richiede una valutazione più ecologica sia dell’azione spontanea sia dell’azione su richiesta attraverso protocolli osservativi in grado di evidenziare sia le difficoltà esecutive specifiche che le difficoltà di integrazione; a tal fine potrà risultare utile l’adozione dei criteri descrittivi funzionali dell’ICF (OMS, 2007), che sta registrando un sempre maggiore impiego nel nostro Paese.

Ricollocare il concetto di disprassia alla luce dell’attuale visione del sistema motorio potrà permettere sia di chiarire la specificità della disprassia evolutiva, ancora non riconosciuta chiaramente nelle classificazioni internazionali (APA, 2000; OMS, 1992), sia di individuare le varie componenti disprattiche comuni in molti quadri della clinica infantile dello sviluppo, dai disturbi generalizzati ai disturbi specifici dell’apprendimento, spesso misconosciute.

 

1 Frmi (Functional Magnetic Resonance Imaging): Risonanza magnetica funzionale per immagini; MEG (Magnetoencephalography): Magnetoencefalografia; TMS (Transcranial Magnetic Stimulation): Stimolazione Magnetica Transcranica.

 

 

ABSTRACT

 

This article uses the emergence of theories on embodied cognition as a starting point for illustrating the main developments in studies on mirror neuron functioning during various simulation processes from the moment when theories on embodied cognition emerged. Research has revolutionized the traditional image of the motor system. Action takes on a primary role in developing cognitive processes. The action circuit (action-perceptioncognition) must be considered as central in clinical evaluations and rehabilitative intervention regarding Minor Motor/Coordination Disorders

 

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Claudio Ambrosini, Ferruccio Cartacci, Giovanna Gison

 

Alcune premesse sull’atto dell’osservare e i suoi principi introducono una sintesi delle tematiche specifiche legate all’osservazione neuropsicomotoria, il suo setting, i suoi obiettivi e i suoi parametri espressi attraverso alcune mappe esplicative. Segue una riflessione sull’approccio descrittivo e «partecipato» all’osservazione.

 

L’OSSERVARE

L’osservazione è un complesso di operazioni che si svolgono con un fine, appunto quello dell’osservare, che rappresenta un verbo che può assumere sfumature diverse nella lingua italiana: guardare o esaminare con attenzione, considerare con cura; rilevare; curare attentamente, mantenere con cura; adempiere, non trasgredire [...] (Zingarelli,

2008); osservare deriva dal latino observare ed è composto da ob— davanti, innanzi — e servare — salvare, conservare, serbare, preservare, custodire intatto, mantenere, non violare (Ambrosini, 1996b; Berti e Comunello, 2011).

È indubbio che gli «occhi» rivestano un ruolo importante nell’osservare, ma le differenti definizioni ci inducono a considerare questo atto come qualcosa di molto complesso, che pone in gioco sensorialità, percezione, storie individuali e interazioni. L’osservante è colui che compie l’atto dell’osservazione mentre l’osservato rappresenta il fenomeno da osservare.

Due tra i significati citati sopra rivestono per noi particolare interesse: «mantenere con cura» e «non trasgredire», poiché ci portano subito dentro la relazione terapeutica neuropsicomotoria, il cui compito è aver cura, essere cioè interessati al bambino preservando le sue azioni all’interno di una dinamica evolutiva.

«Per osservare non è sufficiente esaminare con attenzione il fenomeno, ma esso deve essere mantenuto vivo

preservandolo con costanza davanti agli occhi. E perché ciò accada è necessario un feedback continuo tra osservato e osservante» (Ambrosini, 1996b, p. 113). Infatti «non è possibile osservare eventi esterni senza che vi sia l’intervento di processi soggettivi interni, percettivi o cognitivi» (Ambrosini e Wille, 2005, p. 225) e processi emotivi che determinano legami tra le persone coinvolte nell’osservazione.

 

L’OSSERVATORE IN TERAPIA NEUROPSICOMOTORIA

Nell’atto osservativo si confrontano:

– il punto di vista dell’osservatore;

– l’oggetto osservato;

– il contesto in cui tale ascolto si effettua.

In terapia la particolare prospettiva che assume l’operatore, il suo punto di vista, ha delle caratteristiche di selettività soggettiva (coglie elementi in base alla sua sensibilità, personalità, stato d’animo, ecc.) e altre governate dalla sua specifica formazione clinica e dai suoi strumenti d’indagine, dalla presa in carico terapeutica, dalla domanda d’aiuto

dall’invio da parte di un altro operatore e dai dati conoscitivi che precedono l’osservazione.

La più ampia consapevolezza di questi fattori in gioco rappresenta la precondizione dell’efficacia del suo atto.

L’oggetto della sua osservazione, l’espressività del bambino nel suo rapporto con lui e con l’ambiente, influenza il suo compito valutativo, provocando reazioni, sollecitandone l’immaginario ed evocando di volta in volta specifici quadri teorici, metodologici ed espressivi ai quali attingere per costruire ipotesi di inquadramento clinico, di interazione e di presentazione del setting.

Il contesto facilitante in cui si effettua l’osservazione ha una sua costanza, che costituisce la cornice di riferimento di tutta l’attività del terapista, ma viene anche modulata sulla base dei dati iniziali e delle vicende interattive che lì si compiono. Quindi circoscrive e influenza dinamicamente l’osservatore, in quanto ogni atto del bambino lo modifica.

L’osservazione è in fondo un’esperienza percettiva, «cioè un’esperienza fisiologica regolata soggettivamente.

Ne conseguono tante “visioni” quanti sono gli osservatori» (Cartacci, 2002, p. 117). Se da un lato sembrerebbe impossibile condividere un’esperienza osservativa, la linea offerta dagli obiettivi concordati tra famiglia e terapista, a cui si aggiunge la domanda spesso implicita del bambino, orienta l’ascolto clinico.

Si trova ciò che si cerca, si vedono le cose per cui il nostro sguardo è regolato, per cui è importante regolare il nostro sguardo, ma è anche necessario aprirsi all’inatteso e allo sconosciuto, lasciarsi sorprendere e spiazzare momentaneamente.

Il rigore scientifico richiede spesso un atteggiamento riduzionista o di generalizzazione che scorpora l’esperienza dal suo alveo concreto, per ricondurre comportamenti, azioni e interazioni a quadri generali.

Il terapista dovrà trovare flessibilità ed equilibrio nel bilanciare le sue esigenze di «inquadramento» con l’umanità necessaria e il contatto sintonico; l’uso di riferimenti che lo aiutino a oggettivare la sua conoscenza dovrà essere bilanciato da un ampio ascolto della sua soggettività.

D’altronde, se il soggetto che percepisce non è solo un assimilatore passivo delle informazioni sensoriali, ma

struttura e impone ordine alle proprie percezioni, le organizza in una figura su di uno sfondo, la nostra attenzione

dovrà essere direzionata contemporaneamente all’oggetto e al soggetto che ascolta.

Infine chi osserva modifica l’osservato: questo è un principio base, che si impara nelle prime esperienze di tirocinio, quando l’ingenuità e la velleità a volte ci portano a credere che il nostro atto d’ascolto si possa sottrarre alla reciprocità e ci sentiamo esterni all’evento, come «alla televisione»: L’osservare non è solo un’operazione interna all’individuo, ma un atto comunicativo, per il fatto stesso che non ci si cala nel ruolo osservativo in modo neutro, bensì

lo si agisce, lo si esprime: la qualità dello sguardo, la postura, il tono, lo stesso silenzio sono forme di influenza sull’osservato. Per il fatto che non ci possiamo sottrarre mai all’esperienza comunicativa, è necessario che sviluppiamo il massimo grado di consapevolezza della possibile influenza prodotta dalla nostra posizione d’osservatori. (Ibidem, p. 118)

 

QUALE OSSERVAZIONE E QUALE SETTING

Un’osservazione psicomotoria è sempre finalizzata alla conoscenza e alla «raccolta di dati», senza i quali non sarebbe possibile elaborare alcuna strategia di intervento. Le osservazioni sono diverse (indiretta, diretta, naturalistica, condotta in laboratorio): in ambito psicomotorio l’osservazione è sicuramente diretta, cioè centrata sulle azioni dei soggetti, bambino e terapista, e si svolge nel medesimo luogo, un ambiente a metà strada tra quello naturalistico e di laboratorio (Ambrosini e Wille, 2005).

Le osservazioni si diversificano anche in base agli scopi. Si possono avere:

  1. osservazioni partecipanti e osservazioni critiche (ibidem);
  2. osservazioni partecipate e descrittive (Cartacci, 2002);
  3. osservazioni partecipanti, distaccate e differite (Berti e Comunello, 2011).1

Il primo punto dichiara le identità che contraddistinguono le osservazioni: infatti, la raccolta dei dati è regolata da

criteri che «a seconda dell’ambito teorico di riferimento, distinguono i contenuti dell’osservazione» (Ambrosini,

1996b, p. 37). Si avranno dunque osservazioni diverse in base al loro riferimento teorico. Il secondo punto affronta la

questione della forma osservativa e introduce la questione ambiente, mentre il terzo punto esamina la natura delle

osservazioni e in parte il rapporto con la conduzione. Conduzione e ambiente terapeutico non sono scindibili,

poiché la stanza di terapia2 è organizzata a seconda delle ipotesi che si formulano sulle conduzioni possibili (Ambrosini e Wille, 2005). L’ambiente psicomotorio dovrebbe offrire scenari predisposti con oggetti neutri, cioè oggetti che non inviano informazioni univoche sul loro utilizzo [...], quindi possono essere utilizzati con azioni diverse e sollecitare la Motricità [...], e oggetti simbolici, che richiamano la vita quotidiana, quali bambole e omini, mezzi di trasporto, animali… Sarebbe opportuno, non indispensabile, che questi ultimi oggetti non appartenessero alle categorie dell’industria del giocattolo, così da limitare nel bambino l’accostamento tra stanza di terapia e stanza della sua casa. (Ambrosini e Pellegatta, 2012, p. 94)

 

La scelta degli oggetti e la loro disposizione nella stanza dipenderanno poi dagli scopi dell’osservazione.

Una parte della osservazione rivolge l’attenzione anche ai parametri ambientali:

– le caratteristiche fisiche della stanza;

– gli oggetti e le loro caratteristiche fisiche;

– la presenza umana: bambino, genitori, terapista.

Le caratteristiche fisiche della stanza di terapia dovrebbero essere concepite in modo da essere accoglienti e prive di elementi stressanti e informare il bambino su una sua valenza affettiva positiva che, secondo Kaplan (Kaplan e Kaplan, 1973), è determinata da fattori di coerenza, leggibilità, complessità, mistero e identità.

La conduzione della seduta, tempo in cui l’osservazione si esplicita in modo diretto e a cui dedicheremo le righe successive, è però sempre preceduta da un’idea che anticipa i possibili avvenimenti e da un’operazione di verifica dell’accaduto successiva alla seduta. Il terapista indirizza l’osservazione diretta sia verso il bambino e le sue azioni, sia verso di sé.

Secondo alcuni autori (Ambrosini, 1996b; Ambrosini e Pellegatta, 2012), l’osservazione del comportamento del

bambino è organizzata sulla base dello schema Ambrosini e Pellegatta (2012, p. 97) e deve prestare attenzione al rapporto tra i diversi tipi di motricità, mentre l’osservazione che il terapista rivolge a sé si contraddistingue secondo due polarità: una interiore, che deriva dal rapporto persona-professionista e si costruisce nella formazione di base psicomotoria (formazione personale), e l’altra esteriore, che riguarda le modalità comportamentali e si costruisce nella formazione di base psicomotoria (vissuti corporei).

Il rapporto tra le due polarità, interiore-esteriore, si traduce in un atteggiamento posturo-motorio3 che definisce

il ruolo terapeutico dello psicomotricista e comunica al bambino che il movimento è l’area di ascolto privilegiata, nella quale si costruirà la relazione terapeutica.

L’atteggiamento posturo-motorio si esprime attraverso i canali della Comunicazione Non Verbale e della Comunicazione Verbale e orienta l’attenzione all’immagine del terapista e alla sua compatibilità con l’ambiente, all’ubicazione nello spazio, alla postura e alle posizioni, alle modificazioni della postura in relazione all’attività del bambino, alle modificazioni della posizione o della distanza in base al comportamento del bambino, alla voce e al linguaggio.

OSSERVAZIONI PARTECIPATE E DESCRITTIVE

Come districarsi nella complessità dell’atto osservativo, tra soggettività e oggettività? Come favorire una consapevolezza piena dell’esperienza dell’ascolto in un contesto terapeutico?

Se è vero che la psicomotricità fin dalle sue origini ha posto l’osservazione diretta al centro della sua metodologia, sia in ambito di ricerca che nei campi educativo e clinico, è altrettanto certo che l’evoluzione tecnologica dell’ultimo mezzo secolo ha offerto mezzi nuovi e sempre più sofisticati alle procedure osservative, e ha reso possibile un’analisi differita delle sequenze videoregistrate. Nel frattempo la concezione di una mente incorporata, l’attenzione al corpo come matrice dell’esperienza umana, ha permeato la ricerca e la pratica clinica: l’Infant research, sviluppo dell'Infant observation di origIne psicoanalitica, ha fondato il suo costrutto su una fine osservazione delle interazioni madre-bambino nel primo anno di vita; la Psicologia Umanistica , con la sua matrice fenomenologica, ha da sempre rivolto la massima attenzione ai parametri espressivi e ai canali di sensibilità che connotano l’esperienza; i termini intersoggettività e interazione nutrono i più aggiornati paradigmi clinici.

All’interno di questo processo scientifico e culturale la Psicomotricità ha dato una progressiva struttura epistemologica al suo pensiero e alle sue applicazioni cliniche, a partire dalla centralità dell’azione, sviluppando una relativa indagine semeiotica, approfondendo l’attenzione verso i parametri dell’espressività e in particolare delle sue matrici tonico-emozionali e tonico-posturali, costruendo procedure valutative generali e specifiche per età e per aree psicopatologiche.

 

Qui rivolgiamo la nostra attenzione ai principi e ai metodi generali d’osservazione psicomotoria.4

Dalla pratica e dalla riflessione in ambito psicomotorio siamo stati indotti a individuare due prospettive principali per una metodologia dell’osservazione:

– l’osservazione partecipata (o partecipe per alcuni), che ha per oggetto l’osservatore stesso e dove l’attenzione viene orientata alle sensazioni, alle emozioni, alle immagini e ai pensieri di chi osserva, i quali, resi consapevoli, potranno divenire utili elementi di lettura e di orientamento, mentre se verranno semplicemente ignorati e scotomizzati intralceranno lo sguardo decentrato rivolto al paziente;

– l’osservazione descrittiva , che si rivolge in primo luogo alle azioni e alle interazioni del bambino con il suo ambiente e il terapista (il che cosa) e in secondo luogo all’espressività corporea (il come) e ai suoi parametri principali, in una logica ricostruttiva esente da giudizio.

L’osservazione descrittiva non si distacca essenzialmente dalla prospettiva soggettiva: è sempre il soggetto che osserva, non ci si può illudere che ciò che cogliamo abbia caratteristiche oggettive. In questo caso, però, l’osservazione viene «scremata» dagli elementi più personali e interiori, per favorire una maggiore attenzione, che viene data alla base sensoriale dell’osservare (a ciò che vedo, ascolto, «tocco con mano»). Riferire un evento attraverso un’osservazione descrittiva è mettere a disposizione una serie di dati, il più possibile incolori, non interpretati, così

come appaiono. (Cartacci, 2002, p. 120).

Lo sforzo è quello di attenersi a un pensiero positivo, ovvero centrato su ciò che «si vede» e non su ciò che «non si vede», sulla mancanza: non diremo «questo bambino non fa niente», semmai andremo a cogliere in quello che fa il limite del suo fare.

I parametri che chiamiamo «ambientali», il tempo, lo spazio, gli oggetti, ci aiutano a conoscere come il bambino coglie il contesto e lo abita. Tra i parametri più «personali», il movimento, la postura e il tono rivelano prevalentemente gli elementi espressivi del soggetto che rimandano al «corpo proprio»; lo sguardo, la voce e la mimica trattengono gli elementi più fini della vita intersoggettiva.

La parola introduce un altro elemento identificativo che riguarda la particolare interpretazione che l’individuo fa

dei codici sociali.

Al termine della seduta di osservazione è necessario trascriverne i contenuti e nella nostra esperienza abbiamo trovato utile disporre di una scheda che li raccolga in modo schematico (vedi tabella 1); essa non va intesa in senso compilativo, ma può aiutare la stesura di una sintesi descrittiva, ricostruita a fine seduta, delle interazioni del bambino con l’ambiente e l’operatore; oltre ai dati anagrafici del bambino, conterrà la traccia delle sequenze

Vorremmo concludere questo articolo citando alcune considerazione di Berti, secondo il quale, se l’assunto di

riferimento è che l’osservazione del terapista si focalizza sull’azione, è necessario ricordarsi che:

– l’azione è sempre azione-in-un-contesto, azione con e per qualcuno;

– l’azione ha sempre un aspetto intersoggettivo;

– il significato non è riducibile all’attribuzione che ne fa l’attore, o alla ricostruzione della sua intenzione, ma comprende anche il modo in cui l’azione viene recepita dal destinatario o da un osservatore;

– connettere le azioni [...] dà ordine e senso all’esperienza. Questo significa costruire una narrazione e questo

avviene nella cornice del gioco;

– la terapia psicomotoria è la ricomposizione e la connessione di azioni o di frammenti di azioni attraverso l’interazione di gioco, ossia la costruzione di un senso condiviso, perché costruire una narrazione permette al bambino di restituire senso a se stesso e al proprio vissuto, cioè cambiare ed evolvere. (Berti, 1998, pp. 67-68)

 

Nome e cognome ...

Data...

Caratteristiche del contesto ...

Sequenze principali

Azioni e interazioni reali e simboliche

Tempo, spazio, materiale

Movimento, postura, tono, mimica, sguardo, voce e parole

0

 

 

 

15

 

 

 

30

 

 

 

45

 

 

 

60

 

 

 

Note....

 

1 L’osservazione diretta, quella cioè che avviene nella stanza di terapia o nell’ambito educativo, si contraddistingue come osservazione diretta partecipante o partecipata; Berti e Comunello (2011) e Cartacci (2002) introducono anche la videoregistrazione come uno dei sistemi osservativi.

2 Si parla di ambiente terapeutico, ma le cose non sono dissimili per l’ambiente educativo (Ambrosini, 1996a).

3 Le parti che seguono sono tratte da seminari di formazione condotti da M.C. Arcelloni.

4 Ulteriori contributi sull’osservazione si possono trovare in questo stesso numero, nell’articolo di G. Gison,

Procedure specifiche di valutazione.[ndr principali dell’attività, delle azioni e interazioni reali e simboliche, dell’uso del

tempo, dello spazio e del materiale, la descrizione del movimento, della postura, del tono, della mimica, dello sguardo, della voce e delle parole emerse nel contesto osservativo (Cartacci, 2002).

 

ABSTRACT

Some introductory statements on the observation process and its principles introduce a synthesis on the more specific issues related to neuropsychomotor observation: its setting, its objectives, and its parameters expressed in some explanatory charts. A comment follows on the descriptive and «participated» approach in observation.

 

BIBLIOGRAFIA

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Ambrosini C. e Pellegatta S. (2012), Il gioco nello sviluppo e nella terapia psicomotoria, Trento, Erickson.

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Berti E. (1998), Il gioco delle azioni , «Psicomotricità», Atti del Terzo Congresso Nazionale ANUPI, «Movimento,

Azione, Interazione», Napoli, 28-30 novembre 1997, Milano, Dega Design Group.

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Berti E. e Comunello F. (2011), Corpo e mente in psicomotricità: Pensare l’azione in educazione e terapia

, Trento, Erickson.

Cartacci F. (2002), Bambini che chiedono aiuto: L’ascolto e la cura nella terapia dell’esperienza, Milano, Unicopli.

Kaplan S. e Kaplan R. (1973), Cognition and environment, New York, Praeger.

Zingarelli N. (2008), Il Nuovo Zingarelli minore. Vocabolario della lingua italiana , Bologna, Zanichelli

di P. Rampoldi, A.R. Di Tuccia e R. Avernaba

Terapista della NeuroPsicomotricità dell’età evolutiva; Medico Dipartimento di Scienze Neurologiche, Psichiatriche e Riabilitative dell’età evolutiva, Università «La Sapienza», Roma.

Nel presente lavoro viene descritto il trattamento riabilitativo, basato sul modello della Karmiloff-Smith (1992), la Ridescrizione Rappresentazionale (RR), rivolto a un bambino con Disabilità Intellettiva Lieve, giunto in prima consultazione all’età di 9 anni per difficoltà di apprendimento presso il Servizio di Neuropsicologia del Dipartimento di Scienze Neurologiche, Psichiatriche e Riabilitative dell’età evolutiva. Al fine di verificare l’efficacia della terapia, il bambino è stato sottoposto auna valutazione completa — cognitiva, neuropsicologica e degli apprendimenti scolastici — prima e dopo il trattamento. La valutazione effettuata alla fine del ciclo terapeutico evidenzia un miglioramento nelle capacità di ridescrizione, integra-zione e comprensione di competenze appartenenti a domini cognitivi diversi. Rispetto a tali risultati, il modello della Kar-miloff-Smith può offrire un’originale quanto solida cornice teorica alla riabilitazione delle disabilità intellettive, perché il focus terapeutico non si limita più all’apprendimento di nuove abilità, ma si rivolge principalmente all’ampliamento delle capacità di pensiero e rappresentazione.

INTRODUZIONE

Il disturbo cognitivo, inteso come atipia di sviluppo (Levi e Antonozzi, 1983), può essere considerato una successione di squilibri o interferenze, da cui conseguono una serie di problemi, come rallentamenti nella progressione di stadi secondo il modello piagetiano(Piaget, 1967), difficoltà a mettere insieme e a integrare strategie di sintesi simultanea con strategie di sintesi successiva, problemi di scelta gerarchica o sequenziale di strategie. Tali deficit caratterizzano in misura diversa soggetti con ritardo mentale o disabilità intellettiva, determinando una forte disomogeneità dei profili cognitivi, discrepanze tra la disponibilità delle risorse e la possibilità di utilizzarle (Levi e Musatti, 1988; Ivancich Biaggini, 2004). La natura del disturbo coinvolge tutti i livelli dell’intelligenza, e la problematica riguarda qualcosa di più vasto delle singole componenti del sistema, che viene definito metacognitivo. Problema centrale nei bambini con Disabilità Intellettiva Lieve (DIL) diventa quello di cogliere, definire, affrontare e superare situazioni di conflitto cognitivo; tale difficoltà si evidenzia quando il soggetto deve integrare insieme strategie a diversa complessità cognitiva. Ogni atto intelligente possiede una valenza metacognitiva necessaria per il suo uso «adattativo». Per raggiungere tale adattamento, il soggetto deve mettere in atto una serie di procedure che consentano un rimaneggiamento dell’informazione e il recupero/integrazione delle componenti necessarie per assolvere al compito attraverso una ridescrizione della rappresentazione(RR) (Karmiloff-Smith, 1995). Si tratta di un processo in cui l’informazione, che nella mente viene codificata come rappresentazione mentale, viene progressivamente ridescritta in forma di rappresentazioni sempre più esplicite, astratte e indipendenti. Nei soggetti con DIL può esservi una buona acquisizione di informazioni al suo livello più concreto, procedurale, contestuale e anche una possibile automatizzazione dei processi di apprendimento, ma vi è una notevole difficoltà a rimaneggiare tali informazioni, per renderle accessibili alla generalizzazione, all’inferenza, all’esplicitazione degli apprendimenti procedurali e, quindi, al passaggio sul piano metacognitivo (Baldi, 2004).

RIABILITAZIONE E DISABILITÀINTELLETTIVA LIEVE

Il trattamento delle Disabilità Intellettive non può prescindere dalla constatazione della grande variabilità che esiste tra i diversi quadri clinici di ritardo mentale, anche tra quelli che condividono lo stesso fattore eziopatogenetico, la stessa fase evolutiva e il medesimo grado di gravità (a parità di QI) (D’Andrea et al., 1981). Per questo la riabilitazione neuropsichiatrica in età evolutiva deve sapersi adeguare non solo alle caratteristiche specifiche del disturbo di quel bambino o adolescente, ma anche ai bisogni propri di quel momento di vita; è quindi indispensabile una flessibilità terapeutica, che non equivale a un intervento generico e ateorico (Capozzi eDiomede, 2005). Nella riabilitazione neuropsicologica delle disabilità di sviluppo la flessibilità si coniuga strettamente con la specificità e la settorialità dell’intervento; nel caso della DIL il modello meta-rappresentazionale o della ridescrizione rappresentazionale offre una base innovativa per lo studio della disabilità intellettiva (Capozzi e Penge, 2004), ma soprattutto comporta significative ricadute sul lavoro riabilitativo della DIL, ancora poco esplorato. Secondo il modello proposto dalla Karmiloff-Smith, tutti i soggetti durante l’infanzia maturano delle abilità, che si acquisiscono attraverso la ripetizione e la stabilità di presentazione e sono relativamente indipendenti dal sistema cognitivo, mentre l’acquisizione dei concetti richiede un’organizzazione cognitiva complessa, fatta di punti di contatto tra rappresentazioni diverse e di una serie di ridescrizioni dell’informazione. Ne consegue che i soggetti con disabilità intellettiva, specialmente se di grado lieve, possono sviluppare determinate abilità in modo efficiente, ma hanno difficoltà legate soprattutto ai processi di ridescrizione rappresentazionale e nell’esplicitazione delle conoscenze procedurali; in ultima analisi si tratta di un deficit a livello metacognitivo. Il lavoro riabilitativo specifico nella DIL non può limitarsi quindi solo all’acquisizione di abilità e rappresentazioni mentali, ma attraverso la «manipolazione» del concreto e del reale (oggetti, azioni, gesti, parole, immagini, disegni, racconti) dovrebbe promuovere l’integrazione tra le diverse abilità e rappresentazioni per una ridescrizionee un’esplicitazione della conoscenza.

CASO CLINICO

Il presente contributo ha lo scopo di descrivere e valutare l’efficacia di un lavoro riabilitativo tardivo, ma specifico, sulla Disabilità Intellettiva Lieve, utilizzando il modello della ridescrizione rappresentazionale. Matteo viene in osservazione per la prima volta presso il Servizio di Neuropsicologia del Dipartimento di Scienze Neurologiche, Psichiatriche e Riabilitative dell’Età Evolutiva dell’Università di Roma «La Sapienza», all’età di 9,6 anni, mentre frequenta la quarta elementare in una scuola privata, senza usufruire di un insegnamento di sostegno. In visita la madre evidenzia soprattutto le difficoltà comportamentali e scolastiche del figlio: Matteo viene descritto con un umore instabile, spesso è oppositorio e ha atteggiamenti di aggressività verso i coetanei e la madre stessa; incontra notevoli difficoltà negli apprendimenti scolastici, soprattutto in relazione alla letto-scrittura e alle competenze logico-matematiche. L’anamnesi non evidenzia anomalie degne di nota: la gravidanza e la vita perinatale del piccolo Matteo hanno avuto un decorso nella norma; le varie aree di sviluppo (motorio, linguistico e psichico) non presentano particolari ritardi né anomalie; sono riferite solo alterazioni del ritmo sonno/veglia con addormentamento difficoltoso e cosleeping. In passato il bambino non è mai stato sottoposto a visite specialistiche neuropsichiatriche, a intervento riabilitativo o a terapie di altro tipo. Tale caratteristica, di riscontro poco frequente in età scolare per questo tipo di disturbo, ha reso il caso particolarmente interessante dal punto di vista riabilitativo, perché si andava a operare per la prima volta su un terreno «vergine». Matteo è stato osservato e valutato mediante il protocollo cognitivo, neuropsicologico e degli apprendimenti scolastici in uso presso il nostro servizio. Di seguito verranno riportati solo i test e le prove che si sono dimostrati utili per fare diagnosi di disabilità intellettiva e in seguito verificare l’efficacia del trattamento:

– Wechsler Intelligence Scale for Children-III(1991), scala intellettiva per la valutazione del livello cognitivo;

– Movement ABC(Henderson e Sugden, 1992), batteria per la valutazione motoria;

 – TPV (Hammill, Pearson e Voress, 1994), test di percezione visiva e integrazione visuo-motoria;

– Torre di Londra(Shallice e McCarthy, 1982), come prova di pianificazione;

– Cubi di Corsi (De Renzi e Nichelli, 1975), test di memoria visuo-spaziale;

– Peabody PPV-T(Lloyd, Leota e Dunn, 2000), test di vocabolario recettivo;

– VDS, vocabolario di differenziazione semantica;

–Prova di Racconto Orale «Il ladro di galline» (Pengee Feo, 2001), per valutare la capacità di recezione ed espressione di un testo ascoltato;

– CMF (Marotta, Trasciani e Vicari, 2004), per la valutazione delle competenze metafonologiche;

– Prove di lettura MT (Cornoldi, Colpo e Gruppo M.T.,1981), per valutare la rapidità, la correttezza e la comprensione del testo letto;

– AC-MT 6-11 (Cornoldi, Lucangeli e Bellina, 2002), batteria per la valutazione delle abilità di calcolo.

PROFILO DEL DISTURBO IN FASE DI DIAGNOSI

Alla WISC-III Matteo ottiene i punteggi di QIV 58; QIP62; QIT 55, che lo pongono all’interno della fascia della Disabilità Intellettiva Lieve. Il profilo intellettivo alla WISC-III è così caratterizzato:

– ai Subtest Verbali si evidenziano cadute significative in Comprensione e Ragionamento Aritmetico, solo la Memoria Cifre risulta adeguata all’età cronologica;

–ai Subtest di Performance si riscontrano cadute significative in Cifrario e Ricerca Simboli, mentre si evidenzia una migliore prestazione in Disegno con Cubi. Il profilo motorio prassico del bambino evidenzia la presenza di goffaggine motoria con maggior interessamento della motricità grossolana (Movement ABC: punteggio globale di compromissione 18, pari al 1° centile per la sua fascia d’età) e difficoltà nelle prove prassiche, che richiedono l’elaborazione di strategie di problem solving. Nelle prove che indagano competenze visuo-percettive e visuo-motorie (TPV), mediante la discriminazione e la riproduzione grafica di figure, Matteo ha delle prestazioni corrispondenti a un’età di sviluppo di 7 anni, età lievemente inferiore a quella cronologica. La rappresentazione grafica, sul piano esecutivo, è caratterizzata da un tratto impreciso e approssimativo, mentre sul piano ideativo il contenuto risulta povero e banale: il bambino è in grado di raffigurare semplici oggetti d’uso quotidiano, legati ai suoi interessi, mentre rappresenta in misura minore azioni, fatti, eventi. Nelle prove di pianificazione (Torre di Londra), pur ottenendo risultati che rientrano nei limiti della norma, il bambino tende a utilizzare e reiterare delle modalità di soluzione poco funzionali. Nell’indagare le competenze di memoria visuo-spaziale (Cubi di Corsi), il bambino evidenzia una difficoltà nel mantenere uno span di sequenza adeguato rispetto la sua età cronologica. Il profilo linguistico evidenzia principalmente una difficoltà di Matteo nell’organizzare le informazioni utili per la rielaborazione di un semplice racconto. La sua narrazione, infatti, appare imprecisa e frammentaria nei contenuti, scarsamente organizzata nell’esplicitazione della successione logico-temporale degli eventi. La comprensione del racconto, indagata attraverso specifiche domande, è deficitaria ed evidenzia soprattutto la difficoltà a operare inferenze per la decodifica dei nessi logici impliciti. La difficoltà di categorizzazione e la difficoltà di differenziazione semantica, evidenziate con le prove di vocabolario sia ricettivo che espressivo mediante l’utilizzo di figure (PPV-T, VDS), sembra incidere sulle sue difficoltà nel recuperare le informazioni e collegarle tra loro congruamente. Nelle prove metafonologiche (CMF), il bambino compie un notevole sforzo nel ricercare parole che iniziano con un determinato fonema; tale sforzo diviene ancora più evidente in prove che prevedono la manipolazione attiva di due parole, scambiandone il fonema iniziale (spoonerismo). Nelle prove di lettura procede lentamente con una modalità di lettura lessicale a tratti infralessicale; compie errori relativi a omissioni e sostituzioni di lettere o sillabe, che talvolta portano alla produzione di parole prive di significato (ad esempio «cambiare» = «campiare, combiare») (Prove MT: richiesta Attenzione per Rapidità e Correttezza). La comprensione della lettura appare sufficiente per il livello di classe frequentata. Nel riassunto orale del brano letto il bambino è in grado di riproporre soltanto l’evento iniziale. L’elaborazione del riassunto scritto appare problematica: sollecitato dall’operatore, Matteo scrive il riassunto aggiungendo all’evento iniziale elementi non presenti nel racconto e compiendo diversi errori di ortografia relativi all’uso di doppie e accenti. Nelle prove di calcolo (AC-MT 6-11), il bambino dimostra di controllare gli algoritmi dell’addizione, della sottrazione e parzialmente della divisione. Procede in modo impreciso nelle prove che indagano la conoscenza dei numeri, mentre si rilevano difficoltà significative nelle prove che richiedono l’automatizzazione del calcolo; i tempi di esecuzione appaiono significativamente dilatati. Durante le sedute di osservazione Matteo appare disattento e demotivato, nel suo comportamento poco collaborante alterna momenti di noia e passività ad altri francamente oppositori e di rifiuto nei confronti soprattutto delle richieste scolastiche. In sintesi, la valutazione cognitiva, neuropsicologica e degli apprendimenti scolastici ha evidenziato un disturbo di apprendimento aspecifico, caratterizzato da difficoltà che si manifestano prevalentemente in compiti di integrazione logico-linguistica e di ragionamento aritmetico, difficoltà proprie della Disabilità Intellettiva Lieve. Le osservazioni effettuate hanno permesso, inoltre, di individuare non solo la presenza del deficit intellettivo e valutarne il grado di gravità, ma anche di costruire un profilo del disturbo, dove vengono evidenziate le aree più efficienti (punti di forza) e quelle più compromesse (punti di debolezza), premessa indispensabile per il nostro lavoro terapeutico.

TRATTAMENTO RIABILITATIVO

Il bambino ha effettuato un ciclo riabilitativo che si è articolato in 20 sedute, a intensa frequenza (3 volte a settimana); l’intervento riabilitativo è stato condotto da una terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva informazione, sotto la supervisione di una terapista esperta, presso il servizio di Neuropsicologia del Dipartimento. Il lavoro terapeutico si è basato sui principi della variabilità e flessibilità propri dell’intervento riabilitativo in età evolutiva e sul modello della RR della Karmiloff-Smith. In relazione al profilo di sviluppo del bambino e alle richieste ambientali si è scelto di focalizzare l’intervento riabilitativo sull’organizzazione grafica, sull’arricchimento delle competenze metalinguistiche e linguistiche, su una migliore utilizzazione di lettura, scrittura e calcolo, favorendo l’emergere delle capacità metacognitive. Il programma riabilitativo si è articolato tra aspetti più generali e altri più specifici:

– stimolare una maggiore attenzione/coinvolgimento di Matteo scomponendo il compito, definendone primai tempi di esecuzione, cercando di andare incontro ai suoi interessi per ottenere una maggiore collaborazione;

– sviluppare e sostenere le capacità di analisi, di ragionamento, e soluzione del compito suggerendo strategie opportune, fornendo supporto «concreto» e agganciandosi al reale attraverso attività di vita quotidiana;

– promuovere l’integrazione logico-linguistica tramite la pianificazione, l’organizzazione/l’espressione del racconto orale:

  • sollecitare la comprensione verbale con l’utilizzo di supporti reali e iconografici, che permettono la rappresentazione di eventi (il disegno, le immagini, gli avvenimenti quotidiani, come strumenti per avviare una migliore organizzazione del racconto orale);
  • aiutare il bambino a individuare i principali nodi ei diversi piani narrativi (personaggi, eventi, tempi, contesto, stati emotivi, ecc.), sollecitandolo con domande;
  • favorire l’integrazione delle informazioni rilevate, mediante la rappresentazione grafica e/o la verbalizzazione, allo scopo di individuare le connessioni temporali e logico-causali tra gli eventi (ad esempio, utilizzando storie figurate gradualmente più complesse e articolate, o disegnando i contenuti più significativi della storia, ecc.);

– espandere il patrimonio linguistico del bambino mediante attività che promuovano la categorizzazione e la differenziazione semantica;

– legare i compiti di letto-scrittura a situazioni concrete e sociali, senza intervenire sugli aspetti prettamente tecnici (rapidità e correttezza) della lettura, della scrittura e del calcolo;

– promuovere nel bambino la consapevolezza delle proprie competenze in modo da poterle utilizzare al meglio.

Punto di riferimento nel lavoro riabilitativo è la terapista, che si relaziona in modo da stabilizzare le capacità già possedute o emergenti del bambino e ricerca competenze e strategie che possano essergli di supporto per operare a un livello rappresentativo più astratto (Sabbadini e Sabbadini, 1996). Centrale nella terapia rimane la «qualità» della relazione, basata sulla fiducia, che si è andata stabilendo tra il bambino e la terapista e che ha portato a una maggiore consapevolezza e autocontrollo da parte di Matteo su azioni, parole, pensieri ed emozioni, divenendo partecipe in modo più attivo.

PROFILO DEL DISTURBO DOPOIL TRATTAMENTO RIABILITATIVO

Al fine di verificare l’efficacia del lavoro riabilitativo, Matteo è stato nuovamente sottoposto a una valutazione completa (cognitiva, neuropsicologica e degli apprendimenti scolastici) a distanza di circa 8 mesi dalla prima, effettuata da un operatore diverso, che non conosceva il bambino. Alla WISC-III, Matteo ottiene punteggi migliori di QIV 65; QIP 68; QIT 62. Il profilo intellettivo alla WISC-III è così caratterizzato:

– ai Subtest Verbali si apprezza un incremento dei punteggi in Somiglianze, Ragionamento Aritmetico e Vocabolario, che rimangono però sempre al di sotto della norma, mentre in Informazioni e Comprensione i punteggi si sono mantenuti stabili. Si osserva un decremento significativo tra i Subtest Verbali in Memoria Cifre (rispetto alla precedente WISC III preintervento). Questo rendimento più basso potrebbe essere giustificato da uno scarso interesse del bambino rispetto al singolo subtest (facile stancabilità, demotivazione) e non da un peggioramento nel funzionamento della memoria in considerazione dei buoni risultati ottenuti da Matteo nel Test Cubi di Corsi;

– ai Subtest di Performance si evidenzia un aumento dei punteggi in Completamento di Figure, Storie Figurate, Ricostruzione Oggetti e Ricerca Simboli e un decremento modesto nel Disegno con Cubi. Nel grafismo, riguardo agli aspetti esecutivi, Matteo è più preciso e meno approssimativo. Positivi riscontri si notano specie sul piano ideativo. Nella valutazione pre e post-trattamento gli è stato chiesto di disegnare qualcosa che raffigurasse il concetto astratto «prezioso»: la prima volta ha raffigurato una carta da gioco, mentre nel secondo disegno ha raffigurato la mamma. Il contenuto rappresentato in quest’ultimo indica l’accesso del bambino a un livello di simbolizzazione più elevato e una miglior capacità di recupero di contenuti, significati, informazioni. Nella Torre di Londra, che richiede competenze di pianificazione nel problem-solving, il bambino attua delle strategie di soluzione più consone e funzionali. Nella prova di memoria visuo-spaziale (Cubi di Corsi), si apprezzano positive modifiche per cui il bambino riesce a mantenere uno span di sequenza più elevato, ottenendo risultati ottimali. Nel profilo linguistico non si rilevano cambiamenti significativi rispetto al vocabolario in ricezione (PPV-T), mentre si apprezzano miglioramenti nella prova di differenziazione semantica (VDS), dove il bambino effettua meno generalizzazioni, recuperando le giuste etichette semantiche. Prima dell’intervento riabilitativo, nel ricercare somiglianze tra oggetti (d’uso quotidiano) e categorizzarli, il bambino si è limitato a discriminare le caratteristiche più «estrinseche». Dopo l’intervento Matteo inizia a operare associazioni legate alle caratteristiche «intrinseche» degli oggetti (ad esempio in base all’azione che si poteva svolgere con l’oggetto, all’uso, ecc.). Nella prova di racconto orale il bambino mostra migliori capacità nell’organizzare, pianificare e produrre oralmente la narrazione: individua i principali nessi logici e riporta anche alcuni elementi descrittivi, rispettando la corretta successione degli eventi. Tali cambiamenti sono ulteriormente confermati anche dalla qualità e dal numero delle risposte alle domande di comprensione del brano: il bambino è più preciso e meno approssimativo nell’esplicitare i contenuti. Tuttavia permane una difficoltà nella comprensione e nell’esplicitazione della componente inferenziale della storia. A livello metafonologico (CMF), Matteo ottiene dei risultati positivi nella prova di fluidità verbale, in cui è in grado di recuperare un più elevato numero di parole. Nella prova di spoonerismo controlla e risolve correttamente più item rispetto alla precedente valutazione, ma il punteggio ottenuto è ancora insufficiente. La modalità di lettura utilizzata dal bambino rimane lessicale e infralessicale per le parole plurisillabiche. Nelle prove di lettura (MT) che valutano i parametri di velocità, correttezza e comprensione della lettura, il bambino ottiene risultati che confermano i dati della valutazione precedente. Sia la produzione orale che quella scritta del testo letto, pur restando inadeguate, sono più congrue rispetto al contenuto. Nelle prove di calcolo (AC-MT 6-11) il bambino controlla gli algoritmi delle quattro operazioni, con una corretta scansione del compito, ma non sempre è preciso nell’uso del riporto e del prestito. A livello comportamentale Matteo ha modificato le proprie strategie di analisi del compito: mentre inizialmente il bambino tendeva a essere precipitoso e frettoloso, ora appare più attento e concentrato.

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

I miglioramenti ottenuti nei test intellettivi e neuro­psicologici, evidenti dal confronto tra le valutazioni pre e post-trattamento, confermano il deficit rappresentazionale come focus principale dell’intervento riabilitativo nella Disabilità Intellettiva Lieve. In una prima fase si è stimolata l’attività di analisi, pianificazione ed esecuzione del compito: tali capacità sono state in seguito generalizzate in attività diverse, ottenendo ripercussioni positive su varie aree deficitarie. Nello specifico, i maggiori cambiamenti si sono avuti nell’organizzazione orale del racconto, sia rispetto auna «storia per immagini in sequenza» sia rispetto a un brano precedentemente ascoltato. L’ipotesi che potrebbe sottendere a tale cambiamento riguarda, oltre gli aspetti attentivi e motivazionali sopracitati, il tipo di strategie e metodi suggeriti al bambino (individuare e caratterizzare i personaggi e il contesto ambientale e temporale, evidenziare i principali nodi di contenuto, «immaginare» le situazioni). In questo senso, è stato significativo operare sul «rap-presentarsi mentalmente» l’evento, dapprima fornendo indicazioni visive e/o il riferimento alla quotidianità e gradualmente diminuendo tali supporti, richiedendo una partecipazione sempre più autonoma del bambino. La narrazione più coerente, rispetto alla prova di racconto orale della valutazione post-trattamento, indica una maggior competenza di Matteo nel «rappresentarsi» e recuperare le principali informazioni e i diversi piani del racconto, che si riflette sia sull’organizzazione dell’esposizione orale che nella qualità delle risposte alle domande di comprensione. L’ampliamento delle capacità di comprensione e rappresentazione è osservabile anche nel grafismo: Matteo, a fronte di capacità grafo-motorie sul piano esecutivo poco brillanti, arricchisce il disegno, man mano che procede la terapia, di elementi significativi per le caratterizzazioni fisiche ed emotive dei soggetti e per le componenti spazio-temporali. Il livello semantico è migliorato: il supporto di immagini e l’individuazione di caratteristiche visuo-percettiveo funzionali, legate all’oggetto da denominare, hanno favorito Matteo nel crearsi un’«immagine mentale» stabile, tale da permettergli il recupero di un’appropriata etichetta semantica. Non si è osservato un uguale arricchimento in lettura, scrittura e calcolo, che al momento si mantengono stabili. I miglioramenti ottenuti ai Subtest Verbali, Somiglianze, Vocabolario e Ragionamento Aritmetico della WISC-III possono essere ugualmente collegati al trattamento riabilitativo, che si è focalizzato sulla componente semantico-linguistica (differenziazione, categorizzazione semantica, ecc.), sul ragionamento, sulla soluzione di problemi e la formazione dei concetti. I miglioramenti ottenuti ai Subtest di Performance Completamento di Figure, Riordinamento di Storie Figurate e Ricostruzione di Oggetti della WISC-III possono essere interpretati come conferma di efficacia di un intervento volto a favorire la qualità dell’attenzione attraverso un lavoro di analisi, pianificazione ed esecuzione del compito, attraverso la ricerca di idonee ed efficaci strategie di soluzione e attraverso l’utilizzo di riferimenti concreti (immagini, storie figurate, ecc.) atti a sostenere le capacità di rappresentazione e metarappresentazione. I due subtest che presentano punteggi più bassi alla seconda somministrazione della WISC-III (Memoria Cifre e Disegno con Cubi) non contengono aspetti simbolici e metarappresentativi, focus privilegiato del nostro trattamento. Un miglior funzionamento in compiti di programmazione è documentato dai punteggi più alti ottenuti dal bambino nella Torre di Londra e nel Test Cubi di Corsi. Un piano mirato verso competenze di pianificazione, esecuzione e ricontrollo, e la loro generalizzazione in ambiti specifici, ci ha portato a riflettere su quanto sia rilevante fornire e supportare il bambino con DIL, nell’utilizzo dei suoi fragili strumenti cognitivi e ricercare/stabilizzare strategie al fine di ottenere risultati positivi. Inoltre, intervenire a un livello di concretezza, mediante l’uso del supporto iconografico e/o agganciandosi alla quotidianità del bambino, sembra essere stato lo strumento di base per migliorare competenze compromesse, agendo indirettamente anche sulla consapevolezza delle proprie capacità e incentivando la motivazione all’apprendimento e una maggiore profondità di significato espresso. In sintesi l’obiettivo specifico del nostro percorso riabilitativo è stato quello di permettere al bambino di accedere a un piano metacognitivo, attraverso una manipolazione supportata di abilità e informazioni, che ha stimolato una rielaborazione e un’integrazione di rappresentazioni, appartenenti a domini cognitivi diversi. In questo modo si è cercato di ampliare la sua capacità di pensare e ragionare, riducendo situazioni di sottoutilizzazione e impoverimento cognitivo. Un’ultima considerazione, ma non per questo meno importante, è data dal fatto che un intervento terapeutico nella Disabilità Intellettiva Lieve, anche se iniziato, come in questo caso, in epoca tardiva (secondo ciclo elementare), può risultare efficace e modificare il profilo neuropsicologico e cognitivo del bambino, purché venga focalizzato sul nucleo centrale del disturbo, in questo caso il deficit meta rappresentazionale.

ABSTRACT

This article describes rehabilitation treatment based on the Karmiloff-Smith (1992) Representational Redescription (RR) model. It was used with a child diagnosed as having a Mild Cognitive Disability who came to the Neuropsychological Service in the Departmentof Childhood Neurological, Psychiatrical and Rehabilitative Sciences. A complete evaluation, cognitive, neuropsychological and scholastic achievement, was done on the child before and after treatment. Evaluation done at the completion of therapy evidenced animprovement in the child’s ability to redescribe, integrate and understand in different cognitive domains. The Karmiloff-Smith model is worthy of consideration for its originality and solid theoretical framework intreating cognitive disability. Its therapeutic focus is not limited to the learning of new abilities, but directed to the expansion of the thought process and representation.

 

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di Serena Facecchia, Caterina Piedimonte, Paola Rampoldi, Roberto Averna e Carlo Di Brina

Gruppo Disgrafia «Sapienza», Dipartimento di Pediatria e NeuropsichiatriaInfantile, Università «Sapienza» di Roma; Terapista della Neuro e Psicomotricitàdell’Età Evolutiva; Medico; Neuropsichiatra Infantile

La cattiva scrittura è un criterio diagnostico di Disturbo di Sviluppo della Coordinazione Motoria (DCM) e di Disturbo dell’Espressione Scritta che rientra trai Disturbi Specifici di Apprendimento(DSA), ma il sintomo Disgrafia, di per se stesso, non permette di formulare diagnosi di DSA, né di includere il soggetto in uno specifico gruppo diagnostico. Per il nostro studio abbiamo selezionato un campione di 22 bambini di terza e quarta primaria afferiti al nostro dipartimento per difficoltà di apprendimento e un gruppo di controllo composto da 15 bambini selezionati con criterio casuale da 2 scuole primarie romane. La diagnosi di DSA e la contemporanea presenza di disturbi della scrittura sono stati usati come criteri di inclusione. Abbiamo suddiviso il campione in 2 gruppi (Disgrafici e Cattivi Scrittori) sulla base delle performance di scrittura valutate attraverso la somministrazione della Scala sintetica per la valutazione della scrittura in età evolutiva (BHK). I tre gruppi sono stati analizzati utilizzando il Test Movement Assessment Battery for Children (M-ABC) e il Test di Percezione Visiva e Integrazione Visuo-Motoria (TPV). I risultati suggeriscono che, tra i due gruppi diagnosticati con DSA (Disgrafici e Cattivi Scrittori), vi sono evidenti differenze sotto il profilo neuropsicologico. Pur tenendo conto della limitatezza del campione, si può comunque evincere che le abilità percettive hanno un’influenza determinante sulla qualità della scrittura e possono contribuire alla manifestazione dei meccanismi di controllo motorio.

Un disturbo di scrittura si può evidenziare tra la metà-fine della seconda primaria e l’inizio della terza, quando l’apprendimento del codice scritto può essere dato per acquisito. I principali manuali adottati per la diagnosi e la classificazione inquadrano la Disgrafia all’interno dei disturbi settoriali dello sviluppo, con ottiche diverse a seconda del prevalere di un aspetto sugli altri. Si individuano due tipologie di Disturbo di Scrittura che hanno alla base diversi aspetti disfunzionali:

– un disturbo di area prevalentemente ideo-motoria, che origina da un problema esecutivo-prassico e coinvolge le componenti effettrici del processo di scrittura;

– un disturbo di scrittura più legato ad ambiti inerenti l’apprendimento, di tipo fonologico, lessicale e sintattico, dove ciascuna di queste componenti può essere alterata.

Le due aree possono comunque essere associate in uno stesso fenotipo clinico ed è stato descritto come il processo di codifica del linguaggio scritto e le componenti prettamente grafomotorie si possano intersecare influenzandosi reciprocamente (Bertelli e Bilancia, 1996) .Il DSM-IV-TR(American Psychiatric Association, 2000) parla di un problema legato principalmente alla calligrafia e prevede che il sintomo «brutta scrittura» sia dovuto ad una compromissione nella coordinazione motoria, configurando così una diagnosi di Disturbo di Sviluppo della Coordinazione Motoria (DCM). Solo se alla brutta grafia si associano errori di spelling (compitazione) e di costruzione del testo (morfosintattici) verrà, invece, formulata diagnosi di Disturbo dell’Espressione Scritta. Quest’ultimo rientra nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e si trova spesso in comorbidità con i Disturbi di Lettura e di Calcolo. Anche l’ICD-10 (World Health Organization, 1996) tende ad assegnare in presenza del sintomo Disgrafia la diagnosi di Disturbo Evolutivo Specifico della Funzione Motoria; non prevede dunque un Disturbo dell’Espressione Scritta a sé stante, ma solo in presenza di altri deficit, come quelli di grammatica o di spelling, assegna diagnosi di Altri Disturbi Evolutivi delle Abilità Scolastiche (errori ortografici, di strutturazione del testo, di punteggiatura e calligrafia deficitaria). Questo tipo di Disgrafia viene definita clinicamente Disgrafia Superficiale. La nosografia europea e quella americana, nonostante alcune differenze, sottolineano entrambe la relazione della Disgrafia con il disturbo del movimento. La letteratura di area europea al riguardo conferma la centralità della natura motoria del problema (Hamstra-Bletz e Blote, 1993). Negli ultimi anni, inoltre, si sta cercando di distinguere sempre di più la Disgrafia dalla Disortografia, per arrivare a effettuare un inquadramento più preciso. Il fatto che una parte della letteratura tenda, anche in tempi recenti, a considerare la Disgrafia come sintomo inscritto nelle più diverse costellazioni sindromiche, e a negarle la definizione di entità nosografica autonoma, ha determinato la conseguenza che il termine «Disgrafia» venga spesso usato per indicare il coinvolgimento di componenti ortografiche associate a componenti di tipo morfologico-qualitativo o a un disturbo motorio, mentre non sempre un bambino disgrafico rientra totalmente nella diagnosi di DCM. In uno studio svolto in Olanda, ad esempio, è stato dimostrato che, su 100 bambini afferiti a una clinica di riabilitazione per problemi di ordine motorio, solo 75 avevano un punteggio a un test motorio (ABC-Movement) inferiore al 15° percentile, criterio clinico di diagnosi del DCM. Il restante 25% mostrava problemi specifici come, ad esempio, una Disgrafia, un’alterazione del tono o problemi isolati di integrazione sensoriale. Al deficit motorio che spesso riscontriamo tra i disgrafici si somma un deficit di processamento visivo. Nei bambini disgrafici, infatti, esistono prove di una minore sensibilità visiva sia nella competenza legata all’individuazione delle forme degli oggetti sia in quella relativa all’identificazione del movimento/posizione degli oggetti. Questa difficoltà potrebbe inficiare le prime fasi di ricontrollo della scrittura, impedendo il passaggio a forme di feed-back e feed-forward più evolute come il ricontrollo cenestesico. Per quanto riguarda la prevalenza di questo disturbo, è stato stimato che il 5-20% dei bambini in età scolare presenta forme di movimento fine non ottimale, compreso il Disturbo di Scrittura; altri studi indicano un range di prevalenza per i problemi di scrittura che va dal 5 al 25% (Smits-Engelsman, Van Galen e Michels, 1995). È dunque evidente che un’alta percentuale di bambini presenta il sintomo Disgrafia; in un conteggio di indici di prevalenza bisognerebbe sommare quella percentuale di bambini compresa nei Disturbi dell’Apprendimento (4-8%) a una parte dei Disturbi di Coordinazione Motoria, 6% (APA, 2000), nella quale è riscontrabile un cattivo controllo della scrittura. Il nostro studio sarà focalizzato sulle componenti esecutivo-motorie e su quelle visuo-percettive, che sono alla base dell’acquisizione del tratto grafico e in modo specifico della scrittura. Non ci occuperemo in questo lavoro di altri disturbi spesso associati alla Disgrafia, come la Dislessia, la Disortografia e la Discalculia. L’elevato numero di segnalazioni che pervengono ai centri specialistici durante il primo ciclo della scuola primaria per una cattiva grafia rende urgente l’esigenza di parametri/misure più obiettivi per un suo più preciso inquadramento nosografico.

IPOTESI DI LAVORO

Al fine di studiare le componenti esecutivo-motorie e percettive che risultano coinvolte nel processo di scrittura, abbiamo selezionato un campione di bambini che presentavano una cattiva grafia, afferiti al Servizio di Neuropsicologia della UOC B di Neuropsichiatria Infantile (Università Sapienza di Roma) per generiche difficoltà scolastiche. La Disgrafia è stata individuata utilizzando l’adattamento italiano (Di Brina e Rossini, 2011) di una Scala di valutazione morfologica della scrittura proposta da Hamstra-Bletz, Bie e den Brinker (1987, p. 6), attenendoci alla definizione di Disgrafia data da questi autori: «un disordine del linguaggio scritto, che concerne le abilità meccaniche della scrittura e si manifesta in bambini di intelligenza almeno nella media e che non hanno disabilità neurologiche, handicap percettivi o motori». L’obiettivo è quello di verificare quali siano gli elementi comuni correlabili al sintomo Disgrafia, quantificare il peso di elementi visuo-percettivi e motori nelle prestazioni di scrittura, delineare i profili clinici a cui imputare una cattiva scrittura e rilevare l’esistenza di eventuali sottogruppi di soggetti disgrafici.

SOGGETTI E METODI

Il campione è composto da un gruppo di 22 bambini, di cui 11 disgrafici (9 maschi e 2 femmine) e 11 cattivi scrittori (7 maschi e 4 femmine), afferiti al Servizio di Neuropsicologia della UOC B di Neuropsichiatria Infan-tile per difficoltà di apprendimento, e da un gruppo di controllo costituito da 15 bambini abili scrittori (7 maschie 8 femmine) selezionati con criterio casuale da due scuole primarie romane (vedi tabella 1). Abbiamo considerato i seguenti criteri d’inclusione:

– presenza di Disgrafia e cattiva scrittura;

– età compresa tra i 7,5 e i 10,10 anni;

– iscrizione alla classe terza o quarta della scuola primaria;

– QIT maggiore di 85, calcolato tramite la somministrazione della Wechsler Intelligence Scale for Children Third Edition/WISC-III (Wechsler, 1991; Orsini e Picone, 2006). Sono stati invece adottati quali criteri d’esclusione:

– presenza di patologie neurologiche maggiori e di disturbi del movimento;

– concomitanza di psicopatologie gravi. Il campione è stato suddiviso in sottogruppi in base al punteggio ottenuto alla Scala BHK (Scala sintetica perla valutazione della scrittura in età evolutiva). Questa griglia di valutazione della qualità della scrittura in corsivo ci permette di valutare il prodotto grafico attraverso alcune delle sue caratteristiche qualitative. Il punteggio finale alla BHK è un indice complessivo di qualità della scrittura ed è costituito dalla somma dei punteggi ottenuti nei 13 parametri. Il punteggio alla prova di copia prevista dalla Scala ha costituito un criterio di inclusione per i tre gruppi; i punteggi totali ottenuti alla Scala sono stati convertiti in deviazioni standard (d.s.) secondo i criteri proposti dalla normativa italiana e sono state ottenute 3 fasce di merito:

  • grafia disgrafica (disgrafici), con punteggi uguali o inferiori a 1,5 d.s. sotto la media per il sesso;
  • cattiva scrittura (ma non ancora disgrafica), da -1,4 a-1 d.s. sotto la media per il sesso;
  • scrittura qualitativamente buona (controlli), con punteggi superiori a 1 d.s. sotto la media per il sesso.

Infine, al campione sono stati somministrati:

– il Movement Assessment Battery for Children/M-ABC(Henderson e Sugden, 1992) per descrivere il grado di compromissione delle funzioni motorie di ciascun bambino;

– il Test di Percezione Visiva e Integrazione Visuo-Motoria/TPV(Hammil, Pearson e Voress, 1993) per l’analisi dei pattern di percezione visiva.

RISULTATI

L’analisi statistica è stata condotta attraverso un’analisi della varianza (Test di Student, in cui rappresenta l’indice di significatività se < 0,05), che ha messo a confronto i dati ottenuti dai tre gruppi studiati (gruppo di disgrafici, di cattivi scrittori e gruppo di controllo) nelle prove che valutano le capacità motorie fini e grossolane, la percezione visiva e visuo-motoria. L’analisi dei dati ha permesso di confrontare le caratteristiche del gruppo dei bambini disgrafici, dei cattivi scrittori e del gruppo di controllo. A una prima analisi qualitativa emerge che, all’interno del gruppo dei disgrafici e dei cattivi scrittori, il numero di soggetti maschi è maggiore rispetto a quello delle femmine, con un rapporto rispettivamente di 3:1 e 1,75:1. Il quoziente intellettivo totale medio alla WISC-III degli 11 bambini disgrafici è pari a 101,54,mentre quello degli 11 cattivi scrittori è pari a 101,63.

Per quanto riguarda lo sviluppo motorio, nel gruppo dei disgrafici si evidenzia che 10 bambini hanno una lateralità ben definita a destra e uno solo a sinistra; nel gruppo dei cattivi scrittori 10 sono destrimani e un solo bambino è mancino, mentre nel gruppo dei controlli sono presenti 14 destrimani e un solo mancino. Inoltre si riscontra che, nella Prova di valutazione delle competenze di motricità grossolana e fine (M-ABC), 7 bambini del gruppo dei disgrafici, 3 del gruppo dei cattivi scrittori e 2 dei controlli hanno ottenuto un punteggio globale pari o inferiore al 15° percentile. Infine, nel Test di percezione visiva e integrazione visuo-motoria (TPV)7 bambini su11 del gruppo dei disgrafici, 5 bambini su 11 del gruppo dei cattivi scrittori e 4 su 15 dei bambini del gruppo di controllo hanno mostrato prestazioni al di sotto del 50°percentile per l’età cronologica.

Dal confronto dei dati che riguardano i punteggi totali alle prove M-ABC e TPV sono emerse:

– una differenza significativa, nella prova M-ABC, tra il gruppo dei bambini disgrafici rispetto al gruppo dei cattivi scrittori (p= 0,008) e rispetto al gruppo di controllo (p= 0,005);

– una discrepanza rilevante nel Test TPV, in particolare nelle prove di Percezione visiva generale ev integrazione visuo-motoria, tra il gruppo dei disgrafici rispetto al gruppo dei cattivi scrittori (PVGp = 0,042 ; IVMp= 0,025) e di controllo (PVGp = 0,002 ;IVMp = 0,019); nella prova di Percezione visiva a motricità ridotta è presente una differenza significativa tra il gruppo dei bambini disgrafici e il gruppo di controllo (PVMRp = 0,001), ma non si evidenziano discrepanze rilevanti tra i soggetti disgrafici e i soggetti che presentano cattiva scrittura;

– nessuna differenza significativa nel confronto tra il gruppo dei cattivi scrittori e il gruppo di controllo.

Dai punteggi ottenuti alle singole prove del M-ABC si rilevano:

– una differenza significativa nelle prove di abilità manuali ed equilibrio dinamico, tra il gruppo dei bambini disgrafici e il gruppo dei cattivi scrittori (AbMp = 0,022;EqDp = 0,035);

– una differenza statisticamente significativa nel confronto tra il gruppo dei disgrafici e il gruppo di controllo riguardante tutte e quattro le prove: abilità manuali(p= 0,035), abilità con la palla (p= 0,013), equilibrio statico (p= 0,003) ed equilibrio dinamico (p= 0,014);

– nessuna differenza significativa nel confronto tra il gruppo dei cattivi scrittori e il gruppo di controllo.

– una sola differenza statisticamente significativa tra il gruppo di controllo e il gruppo dei cattivi scrittori nel subtest costanza della forma (p= 0,020). Infine dal confronto tra il gruppo dei disgrafici e dei cattivi scrittori non sono emerse differenze significative.

Mettendo a confronto i punteggi ottenuti negli otto subtest della Prova di percezione visiva e integrazione visuo-motoria(TPV), si evidenziano:

– discrepanze significative tra il gruppo dei disgrafici e il gruppo di controllo nelle prove di coordinazione occhio-mano (p=0,047), copiatura-riproduzione (p=0,009), figura sfondo(p= 0,003), completamento di figura (p= 0,009) e costanza della forma (p= 0,000).

 CONCLUSIONI

L’elaborazione dei dati ci consente di inferire un profilo neuropsicologico dei bambini disgrafici. Dal confronto tra il gruppo dei disgrafici e il gruppo di controllo emergono delle discrepanze rispetto alle caratteristiche esecutivo-motorie e visuo-percettive. Ciò dimostra come la Scala sia in grado di differenziare il gruppo clinico dai controlli. Nel confronto tra il gruppo dei bambini disgrafici e il gruppo dei bambini che presentano cattiva scrittura, le differenze maggiori si evidenziano nella prova di motricità grossolana e fine (M-ABC) e sono relative alle abilità manuali e all’equilibrio dinamico. Ciò conferma l’impressione che i disgrafici abbiano difficoltà prevalenti in compiti che interessano la motricità fine, l’assetto posturale e la capacità di modificare quest’ultimo in risposta a un compito dinamico prefissato. I bambini disgrafici mostrano maggiori difficoltà in compiti di tipo posturo-cinetico e in compiti che necessitano di un’integrazione sensoriale che permetta variazioni dell’assetto posturale. Dal momento che la caduta al M-ABC è globale e non riguarda un item in particolare, non sembra possibile distinguere sottogruppi di disgrafici sotto il profilo motorio. Discrepanze rilevanti al test TPV si possono notare tra disgrafici e cattivi scrittori nelle prove di integrazione visuo-motoria, mentre nelle prove di percezione visiva a motricità ridotta la differenza tra i due gruppi non risulta significativa. L’integrazione visuo-motoria è un’importante variabile della scrittura, che può essere definita come l’abilità a coordinare le informazioni visive con una risposta motoria tale da permettere al bambino di riprodurre le lettere e i numeri; da questo possiamo evincere che i disgrafici ricadono in questo dominio in maggior misura rispetto ai cattivi scrittori. I due gruppi, composti entrambi dagli scrittori «poveri» (disgrafici e cattivi scrittori), mostrano prestazioni simili, invece, nella percezione visiva a motricità ridotta. Ciò sembra suggerire che i cattivi scrittori si avvicinano ai disgrafici proprio nelle prestazioni del TPV a motricità ridotta. Diversi studi hanno indagato come l’integrazione visuo-motoria possa essere uno dei più significativi predittori della performance scrittoria, con forti relazioni documentate tra l’integrazione visuo-motoria e la leggibilità della scrittura. Poco è stato detto, invece, sulle difficoltà visuo-percettive pure di un subtest del TPV probabilmente importante come la costanza della forma(subtest nel quale, in questo studio, i cattivi scrittori si differenziano significativamente dai controlli). Nel confronto tra disgrafici e controlli l’importanza della componente visuo-percettiva è evidente; anche qui la differenza tra i due gruppi nelle prove relative a percezione visiva a motricità ridotta è significativa e sembra essere l’indicatore più puro di un problema nell’ambito della percezione visiva. Ciò fa pensare a una difficoltà nella costanza delle rappresentazioni interne delle forme, in particolare delle lettere da utilizzare: è come se la con-figurazione gestaltica non si fosse consolidata e restasse fluttuante. L’evidente significatività nelle prove che riguardano le componenti visuo-percettive e, in particolare, in quelle prove del TPV nelle quali non è richiesta la componente motoria ci fa pensare che la fase di discriminazione e categorizzazione visiva svolga un ruolo decisivo nella definizione del profilo neuropsicologico di chi scrive male, oltre alle componenti meramente esecutivo-motorie. Oppure che il deficit percettivo, laddove le componenti motori e non siano primariamente compromesse, determini scarse prestazioni anche motorie, rendendo difficile la manifestazione di quella sperimentazione/automatizzazione degli schemi necessari a interiorizzare una determinata forma grafemica per uno specifico fonema. Questa difficoltà nell’analisi visiva delle informazioni sembra legata a una scarsa abilità in compiti di elaborazione visuo-spaziale, più che di tipo visuo-concettuale, e ulteriori studi dovranno essere dedicati a un suo approfondimento. Le caratteristiche del profilo presentato dai bambini disgrafici possono aiutarci nell’elaborazione del piano di intervento riabilitativo. Ci sembra, infatti, che le difficoltà rilevate nelle competenze esecutivo-motorie e visuo-percettive abbiano un peso rilevante nella riuscita della scrittura. Per questo motivo riteniamo che sia riduttivo considerare, in una fase di recupero, esclusivamente gli aspetti grafici e grafo-motori e che l’intervento dovrebbe essere finalizzato anche al rinforzo degli aspetti visuo-spaziali e visuo-percettivi.

ABSTRACT

Although poor handwriting is an inclusion criterionfor DCD and Specific Learning Disabilities, Dysgraphia by itself does not permit a diagnosis of developmental delay, nor does it include a case into aspecific diagnostic group. A cohort of 22 childrenin grade 3 or 4 of Italian primary schools, referred to our Department by their parents and teachers because of some writing or learning difficulty, has been analyzed in this study. The randomized control group consists of 15 proficient writers selected from two primary schools in Rome. The diagnosis of Specific Learning Disability (SLD) and the copresence of handwriting problems were used as inclusion criteria. This cohort has been divided in two groups, light poor writers (LPW) and severe poor writers (SPW), on the basis of the handwriting performance, as assessed through the total score in the concise assessment method for children handwriting (BHK). The three groups were investigated using the Movement Assessment Battery for Children (M-ABCtest) and the Developmental Test of Visual Perception (DTVP-2). Results suggest that the two groupsof poor writers, both diagnosed as SLD, are quite different from a neuropsychological point of view. Taking into account that the number of individual sunder study is limited, one can infer, however, that perceptual abilities are influent in the hand writing quality and can contribute to the motor control mechanisms.

 

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Giada Zanetti - TNPEE, laureata in Lingue e culture del Mediterraneo e del Medio Oriente, Treviso

Nel corso della storia dell’uomo, da sempre i popoli si muovono e si mescolano nel mondo: queste migrazioni portano inevitabilmente a cambiamenti che coinvolgono ogni livello della società, che quindi diventa sempre più multietnica e multiculturale. In ambito medico è a partire dagli anni Sessanta che ci si interessa di antropologia. Per quanto riguarda il nostro campo di intervento, negli ultimi anni sono sempre di più gli articoli, gli studi e i progetti che si interrogano su come la cultura possa influire sulla terapia neuropsicomotoria.

La neuropsicomotricità interculturale non si propone come una disciplina a parte, ma nasce dalla necessità di una maggiore conoscenza e consapevolezza del ruolo della cultura all’interno del contesto terapeutico di tipo neuropsicomotorio. Infatti, nonostante sia evidente l’impossibilità di conoscere ogni cultura, è tuttavia importante che ciascun terapista vada a indagare le differenze che esistono tra la propria e quella del bambino che lui o lei ha in carico.

Per restringere il campo d’interesse, ci siamo proposti di approfondire alcuni aspetti della cultura arabo-musulmana. Oltre che per motivi di formazione personale dell’autrice, si è scelto di approfondire questo tema perché consapevoli della presenza nelle stanze di neuropsicomotricità di molti bambini provenienti dal Mondo Arabo, che risulta poco conosciuto, e per questo occasione di pregiudizi.

Quando parliamo di Mondo Arabo e della sua cultura, consideriamo Paesi molto diversi l’uno dall’altro: esistono infatti Stati molto ricchi grazie alla presenza di grandi giacimenti petroliferi, e Paesi estremamente poveri, come la Mauritania, il Sudan e lo Yemen. Tuttavia la maggioranza degli Stati Arabi si colloca a un livello economico intermedio, è questo il caso di tutti i Paesi del Nord Africa, ma anche del Libano e della Giordania: quasi la totalità dei migranti di origine araba che attualmente vivono in Italia proviene proprio da questi Paesi. Secondo i dati ISTAT aggiornati al 1° gennaio 2017, su cinque milioni di persone residenti in Italia con cittadinanza straniera, circa 700.000 di queste provengono da un Paese Arabo. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di persone provenienti dal Maghreb e dall’Egitto, in particolare la cittadinanza più rappresentata è quella marocchina.

L’intento della ricerca è stato innanzitutto quello di comprendere l’ampiezza e le caratteristiche del fenomeno, già studiato nella regione Veneto, ossia quanti fossero i bambini di origine araba che accedono alle stanze di neuropsicomotricità e quali le difficoltà e le differenze riscontrate dai TNPEE nel relazionarsi con questi bambini e con le loro famiglie. Si è pertanto scelto di analizzare il problema su due fronti: da un lato approfondendo le concezioni d’infanzia e di disabilità nella cultura araba, e dall’altro intervistando i TNPEE riguardo alle problematiche riscontrate. La parte di rilevazione qualitativa relativa alla casistica è rimasta limitata a due casi, in questa fase dello studio. Pertanto i dati a essa riferiti si sono utilizzati a sostegno di quelli emersi attraverso il questionario distribuito agli operatori. Risultano auspicabili la continuazione e l’estensione a una popolazione più ampia.

 

CORPO E INFANZIA NEL MONDO ARABO

La concezione dell’infanzia e del corpo cambiano in base alla cultura, e tutto ciò influenza il modo di agire del bambino, condizionandone lo sviluppo.

L’antropologia ha messo bene in evidenza come il corpo non sia soltanto un’entità biologica e materiale, ma sia anche il prodotto di processi sociali, storici e culturali. Non si tratta solo di comprendere come le persone e le culture pensano i propri corpi, ma anche e soprattutto come li abitano. Saper leggere il movimento e la relazione di ogni corpo con l’ambiente in cui vive ci permette di comprendere la storia individuale e collettiva di cui esso è veicolo.

Di seguito vengono presentati alcuni esempi che riguardano la consanguineità, i concetti di corpo, di linguaggio verbale, di infanzia e di accudimento.

Sul tema della consanguineità nel Mondo Arabo sono stati fatti diversi studi, che rilevano tassi che vanno dal 20% all’80%. Generalmente i matrimoni avvengono tra cugini per via paterna. Risulta difficile indicare quanto questo fenomeno possa influire sul numero di persone disabili presenti in questi Paesi, ma inevitabilmente la consanguineità aumenta la probabilità del verificarsi di malattie di tipo genetico, soprattutto se recessive.

Nel Mondo Arabo il corpo femminile, e in misura minore anche quello maschile, viene spesso coperto, nascosto: così il corpo, inteso anche come immagine di sé, perde d’importanza. Ne consegue che, in questi Paesi, adulti e bambini non hanno molta cura del corpo in quanto tale, anche perché tradizionalmente la religione musulmana lo considera corruttibile, un tabù. Non solo il corpo di per sé, ma soprattutto il modo in cui lo si vive e lo si abita è portatore di informazioni culturali. Come afferma Rizzolati (Cristaldi, 2016) i neuroni specchio si attivano solo quando c’è una corrispondenza tra ciò che stiamo osservando e ciò che sappiamo fare, di conseguenza non si attivano quando vediamo un’azione a cui non sappiamo attribuire un significato. Ovviamente lo stesso vale per il linguaggio verbale e non verbale: per esempio quando una persona compie un gesto, questo stesso gesto può non avere alcun significato per il partner, o può avere un significato diverso. Un semplice esempio è il gesto che in alcuni Paesi latini può essere interpretato come «Cosa vuoi?» o «Ma cosa stai dicendo?», in più Paesi Arabi lo stesso gesto assume il valore di «Aspetta!».

Anche il linguaggio verbale codificato è parte dell’identità culturale: esso è infatti lo strumento che ha a disposizione un popolo per costruire la propria rappresentazione del mondo. Molti studi sottolineano come sia auspicabile che ogni bambino abbia la possibilità di continuare a parlare la sua lingua madre, poiché essa porta con sé tutta una serie di valori emotivi e affettivi insostituibili. Inoltre il bilinguismo favorisce la costruzione di un buon legame con i genitori e uno sviluppo precoce delle funzioni esecutive (Rivera et al., 2008). Nonostante ciò, quando il bambino presenta delle serie difficoltà in entrambe le lingue può risultare difficile promuovere il bilinguismo, che però mantiene, alla luce di quanto esposto, una maggiore significatività.

È a partire dal Ventesimo secolo, con l’affermazione dell’antropologia come disciplina accademica, che si comincia a interessarsi dell’infanzia da un punto di vista trans-culturale. L’antropologia dell’educazione, attraverso osservazioni comparate sulla crescita dei bambini, afferma che non esiste una «via normale» rispetto allo sviluppo. Lo studio dell’ambiente in cui il bambino cresce è necessario per l’approfondimento a livello scientifico della maturazione del soggetto.

Se la prima acquisizione linguistica avviene tra i 18 e i 36 mesi, la capacità comunicativa tipica di una cultura avviene ancora prima di questo momento (LeVine e New, 2009), da qui l’importanza dello studio dell’ambiente culturale di crescita per la comprensione del bambino, anche in termini di concezione dell’infanzia e di accudimento.

Secondo la concezione araba tradizionale, l’infanzia è un’epoca priva di specificità proprie, poiché rappresenta un periodo d’attesa dell’età adulta. Esistono vari riti legati alla nascita del neonato e norme che ne regolano l’accudimento. Per esempio nel Corano si fa riferimento al fatto che è buona norma allattare i bambini fino ai due anni d’età, allo stesso tempo in vari Paesi Arabi si consiglia di svezzare molto presto) i bambini: le madri quindi iniziano a svezzare il bambino continuando a dargli per molto tempo anche latte materno.

Non di rado i bambini provenienti da queste zone dormono nella stessa stanza dei genitori. Si segnala inoltre come le madri arabe si dedichino completamente al proprio bambino, rispondendo a ogni sua richiesta, cercando di evitarne la frustrazione e mostrandosi particolarmente presenti e disponibili anche nel contatto corporeo. A tal proposito uno studio condotto in Germania evidenzia come solo il 6% delle madri immigrate marocchine scelga di lasciar piangere il proprio figlio contro il 45% delle madri tedesche (Abdulrazzaq, Al Kendi e Nagelkerke, 2009).

Seppur sia difficile da quantificare, tutto questo influisce inevitabilmente sullo sviluppo della relazione mamma-bambino. Per quanto riguarda le pratiche di accudimento, si segnala come le madri immigrate riescano, se positivamente supportate, a trovare un equilibrio tra il seguire e trasmettere i valori del Paese d’origine e l’aprirsi nei confronti di nuovi valori e di nuovi stili di vita. Come scrive Ranchetti (2015), riprendendo le teorie di La Framboise, Coleman e Gerton, l’esito dell’adattamento alla cultura ospitante dovrebbe consistere nell’alternanza, ossia nella capacità dell’individuo di fare riferimento a entrambe le culture, utilizzandole alternativamente in base alle situazioni, senza che ciò comprometta l’identità dell’individuo, ma permettendo che questo «meticciamento» sia fonte di arricchimento per il soggetto stesso, in primo luogo per l’adulto genitore immigrato e di conseguenza per il bambino.

Ecco che allora sarà compito dell’équipe e del terapista cercare di affiancare le famiglie in questa esperienza di costruzione di nuovi sensi e di nuovi sistemi simbolici, impegnandosi non tanto a comprendere, ma piuttosto a valorizzare l’alternanza delle culture, come aspetto caratteristico dell’esperienza migratoria. L’operatore deve rendersi consapevole e supportare il lavoro di negoziazione tra significati culturali diversi che un individuo migrante fa continuamente e faticosamente per poter costruire il proprio esistere e vivere in un Paese ospitante. In particolare è opportuno sostenere le madri rispetto alle difficoltà che esse incontrano frequentemente, faticando a uscire dall’isolamento cui la migrazione le ha portate: queste donne, seppur legate alle loro pratiche tradizionali, si sentono allo stesso tempo in dovere di rispettare le indicazioni del personale sanitario e le usanze del Paese in cui ora si trovano, cercando così di mediare tra due diversi stili di accudimento, che talvolta rischiano di essere in conflitto tra loro. Per uscire da questa impasse, le madri dovranno essere supportate nella creazione di uno spazio terzo di generazione di senso, un luogo del pensiero e dell’azione dove l’incontro tra pratiche educative e culturali diverse genera modelli funzionali e funzionanti per la famiglia e per la società ospitante.

 

LA DISABILITÀ NEL MONDO ARABO

Diventa interessante analizzare il concetto di disabilità, da un lato secondo la tradizione popolare araba, dall’altro secondo la visione del Corano; successivamente si sposterà l’attenzione sulle condizioni di vita del bambino disabile nel Mondo Arabo.

Nella tradizione popolare, la disabilità è dovuta alla presenza di un jinn, che occupa la mente della persona disabile. Con la parola jinn, che letteralmente significa genio, si indica un essere capace di impossessarsi della mente di una persona, causandone la disabilità psichica; secondo le pratiche tradizionali esistono gli sheikh, letteralmente marabutti, ossia persone capaci di allontanare il jinn dalla mente del disabile.

Tobie Nathan, uno dei maestri dell’etnopsichiatria, sostiene che le teorie culturali, come quella del jinn, non hanno tanto la pretesa di rilevare la causa di una malattia, ma piuttosto hanno lo scopo di definire come procedere nella cura (Nathan, 1996). Pertanto, conoscere la teoria della cultura del paziente aiuta il terapista a comprendere il senso del comportamento patologico secondo quella determinata cultura, aumentando così l’efficacia terapeutica.

Nel Corano la disabilità è citata raramente ma, al contrario di quanto avviene nella tradizione popolare, essa è considerata un segno divino. Anche per questa ragione è dovere della famiglia prendersi cura del disabile.

Nel Mondo Arabo, i bambini con disabilità spesso restano in casa per diversi motivi:

  • maggior numero di persone che possono prendersi cura del minore, perché esiste un modello familiare di tipo allargato;
  • ragioni economiche;
  • maggiore tolleranza rispetto ai comportamenti dei bambini: è anche per questo motivo che talvolta si riscontra una maggiore difficoltà nel riconoscere e accettare la disabilità del figlio, soprattutto se la disabilità è di tipo psichico;
  • minore conoscenza della disabilità: uno studio di Belahcen et al. (2014) evidenzia come spesso i genitori vengano a conoscenza dell’esistenza di una determinata patologia solo al momento della diagnosi, anche per quel che riguarda patologie comuni, come la Sindrome di Down;
  • pochi programmi di prevenzione, non ben distribuiti in tutti i Paesi, e nemmeno all’interno di un singolo Paese;
  • spesso i bambini con disabilità vengono esclusi dall’accesso scolastico, anche se in alcuni stati, come in Marocco, si stanno facendo delle riforme in favore di una maggiore integrazione.

In questi Paesi sono però presenti diverse associazioni private a sostegno dei bambini disabili, generalmente si tratta di realtà fondate e promosse proprio dai genitori stessi. È dunque possibile affermare che esiste un divario tra i servizi riabilitativi forniti da questi Stati e le esigenze dei genitori, che sono alla ricerca di una migliore assistenza per i loro figli. Infine, alcune famiglie scelgono di emigrare per garantire ai loro bambini un servizio riabilitativo migliore.

 

DATI E RILEVAZIONI DALLE STANZE DI NEUROPSICOMOTRICITÀ

Per comprendere l’ampiezza del fenomeno studiato, ovvero quanti minori arabi siano seguiti dai TNPEE e le difficoltà che i terapisti riscontrano nel relazionarsi con questi bambini e con le loro famiglie, abbiamo cercato di conoscere l’opinione dei professionisti. Pertanto si è scelto di inviare dei questionari online ai TNPEE del Veneto.

Su 57 questionari inviati, hanno risposto 33 terapisti (58% degli intervistati). Le risposte sono rimaste anonime. Con una sola eccezione, tutti i terapisti hanno dichiarato di aver seguito in passato uno o più bambini provenienti dal Mondo Arabo. In base ai dati raccolti, la media di bambini di cultura arabo-musulmana che attualmente ha in carico ogni terapista è di 1,6 bambini, e nella maggior parte dei casi essi provengono dal Marocco. Come esplicitato, la parte relativa ai due casi considerati ha messo in evidenza elementi/contenuti che sono stati inseriti nelle considerazioni emerse dai questionari degli operatori. Di seguito le prime evidenze sul materiale raccolto.

Difficoltà nella relazione con il bambino

Il 55% degli intervistati dichiara la presenza di difficoltà maggiori o diverse nel relazionarsi con il bambino arabo, rispetto al bambino non arabo. Le criticità riscontrate dai TNPEE riguardano in modo particolare la presenza di un quadro patologico mediamente più complesso. Questo fatto è in linea con quanto detto prima, rispetto al diverso concetto di disabilità. È possibile ipotizzare che mediamente i genitori di bambini arabi sentano la necessità di far seguire i loro figli in terapia neuropsicomotoria soprattutto in presenza di patologie gravi, e non di fronte a problematiche lievi.

Accanto a ciò le nostre osservazioni relative ai due casi seguiti ci dicono come l’influenza della cultura, nella relazione con il bambino in terapia, sia tanto maggiore quanto è minore la disabilità. In particolare il soggetto con Disturbo della condotta e Ritardo mentale lieve ha più volte proposto in seduta giochi simbolici e di ruolo con forte contenuto culturale; in questo caso sarebbe importante la valorizzazione di questi elementi per permettere l’elaborazione identitaria e la creazione di un’immagine positiva di sé.

È opportuno considerare, però, che anche i contenuti culturali dei giochi simbolici sono soggetti a una costante ibridazione grazie ai percorsi educativi all’interno della scuola, ad esempio. In sostanza è importante avere ben presente che l’identità del soggetto non è da vedere come un contenitore fisso e confinato, in particolar modo quando si lavora con bambini che crescono in un luogo terzo, di intersezione tra la cultura educativa famigliare e quella scolastica. Se non valutassimo costantemente questo fattore, rischieremmo di ricadere continuamente in facili stereotipi etichettati culturalmente. Altri TNPEE sottolineano come le difficoltà nell’uso della lingua italiana possano influire negativamente sulla buona riuscita della terapia; in effetti, possiamo dire che una lingua non sia esattamente traducibile in un’altra, vi è sempre uno scarto di comprensione del fatto se lo si racconta in due lingue differenti.

Infine alcuni terapisti segnalano la presenza di difficoltà relative al diverso tipo di educazione che ricevono i maschi dalle femmine, o al diverso ruolo che i bambini arabi riconoscono alla figura maschile o femminile. In questo senso sarebbe auspicabile un approfondimento sulla valenza sociale dell’identità di genere in culture altre, sempre con un approccio che sospenda ogni giudizio.

Difficoltà nella relazione con la famiglia

Per quanto riguarda la relazione con i genitori, l’85% dei terapisti dichiara la presenza di difficoltà diverse o maggiori. Ben 24 TNPEE dichiarano come una scarsa o nulla conoscenza della lingua italiana da parte dei genitori influisca negativamente nella costruzione di una buona alleanza terapeutica. Molti terapisti sottolineano delle difficoltà a causa del diverso stile educativo: anche questo dato è perfettamente in linea con quanto esposto precedentemente riguardo alla differente concezione dell’infanzia che esiste nelle due culture.

I TNPEE evidenziano inoltre come particolari difficoltà logistiche possano influire negativamente sulla buona riuscita della terapia: problemi negli spostamenti, lunghe assenze durante il periodo estivo e dimenticanza degli appuntamenti. Infine alcuni terapisti riscontrano una limitata conoscenza della patologia del figlio e una scarsa comprensione della terapia neuropsicomotoria.

Inoltre alla luce degli elementi raccolti attraverso un’intervista semi-strutturata ai genitori dei due bambini seguiti come casi emblematici di riferimento, il primo di 7 anni con Disturbo ipercinetico della condotta e Ritardo mentale lieve, e l’altro di 6 anni con Tetraparesi discinetica e Ritardo mentale grave, a conferma di quanto già esposto, i genitori non conoscevano l’esistenza della patologia del figlio fino al momento della diagnosi; allo stesso tempo essi si sono mostrati fiduciosi nei confronti del personale medico-sanitario italiano.

 

RIFLESSIONI E PROPOSTE

Come premessa alle riflessioni relative all’intervento terapeutico con bambini di cultura arabo/musulmana, è importante pensare al fatto che anche il terapista è portatore di una determinata cultura, che condiziona il suo agire anche all’interno della terapia. La stessa psicomotricità nasce infatti in un preciso contesto socio-culturale.

Una diversa cultura implica necessariamente un altro modo di vivere il corpo e la relazione, pertanto anche l’approccio neuropsicomotorio non può essere considerato universalmente applicabile senza un’approfondita e costante problematizzazione degli approcci.

Il concetto di universalità psichica ideato da Georges Devereux e ripreso da Marie Rose Moro sottolinea come «Tutte le culture hanno uguale dignità, perché quello che noi definiamo credenze non sono altro che le rappresentazioni che altri hanno della realtà e hanno lo stesso valore delle nostre rappresentazioni scientifiche» (Moro, 2004). Se si considera che ogni cultura ha il medesimo statuto, è facile comprendere come il terapista debba apprendere a decentrarsi per poter accogliere la cultura dell’altro, ossia debba imparare a spostare il proprio centro da dentro a fuori di sé, per avvicinarsi all’altro. In tal senso sarebbe auspicabile che il percorso formativo del TNPEE prevedesse degli approfondimenti in ottica interculturale, per aumentare la capacità di decentramento, sperimentando ciò che differenzia, nel proprio ambito di intervento, la propria cultura di appartenenza dalle altre.

Attraverso un percorso di questo tipo ci si renderebbe quantomeno consapevoli che spesso si danno letture dei comportamenti dei bambini secondo proprie categorie culturali, non universalmente applicabili. Si tratta quindi di comprendere il senso del concetto di etnocentrismo culturale per poterlo arginare.

Da quanto esposto è importante che il terapista consideri gli aspetti culturali in ogni fase della presa in carico del bambino. A partire dalla raccolta dei dati anamnestici, occorre filtrare le informazioni ricevute attraverso la cultura di appartenenza del bambino, considerando, come già riportato, per esempio che nel Mondo Arabo l’allattamento dura normalmente fino ai due anni di età o che i bambini dormono regolarmente con i genitori. Anche in fase di osservazione e valutazione, nell’analisi delle modalità corporee di quel particolare soggetto, emergeranno delle padronanze che si sono evolute in modo differenziato rispetto all’età, se paragonate a quelle comuni in altre culture. Il terapista dovrà essere consapevole di ciò anche nella sua azione inserendo nel progetto terapeutico le sue considerazioni proprio a partire dagli elementi di differenza.

Anche il setting può essere modificato, ad esempio con l’utilizzo di oggetti comuni alla cultura di appartenenza del bambino (strumenti musicali, stoffe, oggetti della vita quotidiana ecc.). Possono essere proposte delle attività di stimolazione sensoriale che prevedano l’uso di oli o profumi che abbiano un valore culturale e quindi affettivo.

L’operatore deve anche essere consapevole di come il suo modo di essere possa differenziarsi dai modelli genitoriali e culturali. Molto banalmente una terapista che veste abiti attillati si discosta dall’immagine di madre del bambino, che porta il velo e abiti ampi. Come è stato ribadito più volte, questo non significa che l’operatore debba adeguarsi alla cultura araba, ma che deve essere il più possibile consapevole dei messaggi culturali che invia al bambino e alla sua famiglia.

Come è emerso dai questionari è molto importante curare il rapporto con i genitori, mostrandosi disponibili ad ascoltare le loro difficoltà e a spiegare il senso della terapia. Solo così sarà possibile creare una buona alleanza terapeutica, indispensabile per la riuscita della stessa presa in carico. Non di rado è auspicabile la collaborazione con un mediatore culturale, anche nel caso in cui i genitori dei bambini sappiano parlare l’italiano: infatti alcuni vissuti possono essere espressi dal migrante solo nella sua lingua madre. È necessario inoltre rendersi consapevoli che una traduzione, in un colloquio con la famiglia, non sempre è abbastanza. Forse è necessario, più che in ogni altro caso, attivare il linguaggio non verbale per costruire una primaria alleanza da far crescere nel tempo.

Il tema della lingua condivisa per comunicare fra terapista-bambino-genitore rimane al centro del processo di cura. La neuropsicomotricità si rivela un approccio privilegiato in tal senso proprio per la pregnanza della comunicazione non verbale nella sua metodologia, unita all’importanza degli elementi corporei comunicativi primitivi, come il dialogo tonico, che non prevedono l’utilizzo semantico, ma permettono la costruzione dello scambio emotivo intersoggettivo.

Concludendo, è auspicabile che la presente ricerca possa essere approfondita e ampliata, soprattutto andando ad aumentare quantitativamente la casistica clinica, così da promuovere un’attitudine sempre più interculturale della terapia neuropsicomotoria.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Abdulrazzaq Y.M., Al Kendi A. e Nagelkerke N. (2009), Soothing methods used to calm a baby in an Arab country, «Acta Paediatrica», vol. 98, n. 2, pp. 392-396.
  • Belahcen A., Taloubi M., Chala S., Izgua A.T e Alaoui A.M. (2014), Mother’s awareness and attitudes towards prenatal screening for Down syndrome in Muslim Moroccans, «Prenatal Diagnosis», vol. 34, n. 9, pp. 821-830.
  • Berti E., Comunello F. e Nicolodi G. (1988), Il labirinto e le tracce, una ricerca di terapia infantile attraverso la comunicazione non verbale, Milano, Giuffrè. Cristaldi M. (2016), Psychomotricité et Interculturalité dans la Méditérranée, Saarbrucken, Editions Universitaires Européennes.
  • Le Vine R. e New R. (2009) Antropologia e infanzia. Sviluppo, cura, educazione: studi classici e contemporanei, Milano, Raffaello Cortina.
  • Moro M.R. (2004), Seminario introduttivo alla clinica transculturale, Bobigny, Association Internationale d’EthnoPsychanalyse.
  • Nathan T. (1996), Principi di etnopsicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri. Ranchetti G. (2015), Il percorso identitario degli adolescenti di origine straniera, Milano, FrancoAngeli.
  • Rivera M.M., Arentoft A., Kubo Germano K., D’Aquila E., Scheiner D., Pizzirusso M., Sandoval T.C. e Gollan T.H. (2008), Neuropsychological, Cognitive, and Theoretical Considerations for Evaluation of Bilingual Individuals, «Neuropsychology Review», vol. 18, n. 3, pp. 255-268.

OBIETTIVI, AZIONI E SETTING IN ETA' PRECOCE 0-3

Livia Laureti, Laura Lonetti

TNPEE, Centro integrato per l'educazione e la riabilitazione visiva "C.Monti", AOU Careggi-Firenze

TNPEE, NPM Bambini in Movimento Soc.Coop.Soc., Scandicci (FI)

 

SOMMARIO

L’articolo descrive la specificità dell’intervento neuropsicomotorio nei disordini della funzione visiva in età 0-3 e propone un modello operativo di training per l’abilitazione visiva precoce attraverso la presentazione di tre casi clinici dove vengono descritti obiettivi, attività e setting pensati per il bambino con disordine visivo e per i suoi caregiver.

 

INTRODUZIONE

La specificità dell’intervento abilitativo visivo si colloca all’interno dell’approccio tipico neuropsicomotorio in quanto sostiene le funzioni emergenti che si trasformano nel tempo, attraverso una visione olistica ed ecologica, dove il rispetto della dimensione affettivo-relazionale del bambino e del suo ambiente di vita costituiscono sempre lo sfondo di ogni azione.

Dopo aver osservato e valutato la funzionalità visiva tramite l’interazione diretta con il bambino, lo scambio attivo di informazioni fornite dai genitori e la documentazione pervenuta, il neuropsicomotricista è in grado di formulare e di condividere con questi ultimi i primi obiettivi del training nel quale la predisposizione del setting, la selezione degli oggetti e la cura dei materiali assumono particolare rilevanza fino a impegnare il TNPEE nella realizzazione di sussidi «personalizzati», pensati appositamente per quel bambino e per i suoi genitori.

La struttura e la specificità del training di abilitazione visiva in età precoce 0-3 anni che presentiamo nascono dall’esperienza del Centro integrato per l’educazione e la riabilitazione visiva dell’AOU Careggi di Firenze 1 , dove il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva collabora con l’équipe specialistica (costituita da oculista, ortottista e psicologo) nella valutazione e nel monitoraggio della funzionalità e dell’uso adattivo della vista in bambini con importanti disordini della funzione visiva e propone, ove necessario, la conduzione di cicli di abilitazione visiva precoce per i bambini di età compresa tra gli 0 e i 3 anni.

In considerazione delle peculiarità di sviluppo della fascia d’età presa in esame e dell’importanza che la funzione visiva riveste nella costruzione delle competenze evolutive motorie, cognitive, comunicative e relazionali sin dalla nascita, le finalità generali del training di abilitazione visiva in età precoce sono:

  • sostenere e/o migliorare l’esercizio delle competenze visive di base (aggancio, fissazione, inseguimento) e promuoverne l’uso adattivo;
  • sostenere l’emergenza e/o il consolidamento delle competenze di sviluppo in cui è implicata la vista anche attraverso l’investimento e il potenziamento degli altri canali sensoriali;
  • offrire ai caregiver una guida costante e puntuale al trasferimento di modalità interattive efficaci, sia per promuovere maggiormente l’uso della funzione visiva nella comunicazione, sia per favorirne l’integrazione con le altre abilità.

Ogni training prevede generalmente la seguente struttura temporale, suscettibile di variazioni per cadenza, durata e numero degli incontri in relazione ai bisogni specifici del bambino e della sua famiglia:

  • primo colloquio di conoscenza con i genitori del bambino e di presentazione delle finalità generali e delle modalità operative;
  • tre incontri settimanali di un’ora ciascuno di osservazione-valutazione della funzionalità visiva e del profilo psicomotorio del bambino, finalizzati a definire obiettivi specifici per lo sviluppo della funzione visiva e obiettivi generali per la promozione dello sviluppo globale;
  • dieci incontri a cadenza settimanale di circa un’ora ciascuno di abilitazione visiva;
  • un incontro conclusivo con i genitori finalizzato alla restituzione del percorso svolto e alla condivisione di strategie, strumenti e attività utili alla promozione della funzione visiva integrata.

Gli incontri si svolgono nella stanza di terapia neuropsicomotoria dove il TNPEE accoglie il bambino accompagnato da almeno un genitore, che rimane sempre presente come «base sicura» necessaria per far sì che il proprio figlio si affidi gradualmente al terapista. La possibilità di assistere e partecipare agli incontri permette al caregiver di comprendere contestualmente le azioni del TNPEE e di osservare modalità interattive efficaci da trasferire anche nella quotidianità. La modalità con cui il TNPEE si offre, propone e orienta l’attività è quella peculiare dell’intervento neuropsicomotorio, dove la cornice di gioco si crea sintonizzandosi attraverso micro-azioni costituite da variazioni di postura, da regolazioni toniche, dall’accentuazione della mimica, da vocalizzi, ripetizioni, amplificazioni e integrazione di gesti e/o suoni.

Il materiale selezionato o appositamente creato permette al terapista di elicitare e consolidare le competenze visive di base e allo stesso tempo di favorire e sostenere la motivazione del bambino, nel rispetto del suo profilo evolutivo e tenendo presente anche la fascia d’età di riferimento, in cui si assiste a una crescita graduale dell’esplorazione e della sperimentazione autonoma verso l’oggetto d’interesse (Wille, 1998).

Di seguito vengono sintetizzate le caratteristiche fisiche specifiche degli oggetti e dei materiali utili a favorire e a sollecitare un maggiore investimento delle funzioni visive di base, insieme alle modalità generali con cui presentarli al bambino.

 

COMPETENZE VISIVE DI BASE

MATERIALI

Caratteristiche degli oggetti/materiale:

  • possibilità di auto-illuminazione e/o di richiamo sonoro;
  • colori brillanti e contrastanti (bianco/nero, rosso/bianco, blu/giallo);
  • consistenze e caratteristiche tattili diversificate;
  • devono essere leggeri e adatti anche alla prensione manuale dei bambini più piccoli o con difficoltà neuromotorie.

MODALITA' DI PRESENTAZIONE

Presentare l’oggetto centralmente a circa 20-30 cm dal viso del bambino seguendo le diverse direzioni nello spazio (sul piano orizzontale: destra-sinistra; sinistra-destra; sul piano verticale dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto; in diagonale; vicino-lontano); aumentare pian piano la distanza fino a dove il bambino è in grado di mantenere l’inseguimento e la fissazione. Proporre sia materiale luminoso sia materiale ad alto contrasto cromatico per rilevare eventuali differenze nel comportamento visivo del bambino, identificando facilitazioni e barriere.

A conclusione del ciclo di incontri previsti da ogni training il TNPEE consegna ai genitori il seguente materiale:

  • relazione descrittiva del ciclo d’intervento condotto e completa del protocollo sincronico di osservazione-valutazione visiva compilato e presentato in questa rivista nella sezione «Approfondimenti»;
  • scheda SON di Gison, Minghelli e Di Matteo (2007) compilata in ingresso e in uscita;
  • dvd con un filmato di una decina di minuti che raccoglie i passaggi più significativi del training, al fine di esemplificare e condividere materiali e modalità interattive oltre che con i genitori anche con i professionisti in ambito educativo e sanitario che seguono il bambino.

La scelta dei casi è stata guidata dal desiderio di offrire un’esemplificazione il più diversificata possibile delle variabili, collegate all’età, alla diagnosi clinica generale e alla patologia oculare, che determinano la specificità di ogni intervento e che ne possono influenzare l’efficacia.

I cicli di abilitazione visiva descritti sono sempre stati condotti da due TNPEE, la cui presenza contemporanea nella stanza ha consentito di:

  • equilibrare lo spazio di attenzione e ascolto offerto al bambino e ai suoi caregiver;
  • confrontarsi sulle competenze osservate e sulle interazioni avvenute, anche attraverso l’analisi di alcune riprese video, integrando oggettività e soggettività.

 

Caso clinico 1

Il primo caso clinico riguarda S.G. (età: 5 mesi e mezzo). Il bambino presenta coloboma retinico, labiopalato-schisi, difetto del setto interventricolare perimembranoso, ipertensione polmonare, ipertrofia del ventricolo destro.

Sul piano neuropsicomotorio si riscontra un ritardo delle tappe fisiologiche dello sviluppo e basso peso per l’età cronologica.

Dai referti oculistici emergono una severa compromissione della funzionalità visiva e un modesto utilizzo adattivo della vista. Il piccolo S. giunge presso il nostro servizio per una consulenza finalizzata a un approfondimento sulla valutazione della funzionalità visiva e dell’uso adattivo della vista all’età di 5 mesi e mezzo. L’incontro di osservazione si svolge in presenza di entrambi i genitori, molto preoccupati poiché, riferiscono, gli oculisti non hanno dato loro molte speranze.

L’ambiente è inizialmente mantenuto in penombra e successivamente illuminato con luce naturale proveniente da destra. Durante le proposte dirette della TNPEE per sollecitare l’uso della funzionalità visiva, S. rimane prima seduto in braccio al padre; accetta in seguito di stare seduto sul tappeto sostenuto da un sistema posturale semirigido posteriore e di essere preso in braccio dalla TNPEE; manifesta con un pianto immediato di non gradire la posizione supina sul tappeto, ma si lascia consolare facilmente non appena viene preso di nuovo in braccio. Il bambino entra in relazione con facilità con la TNPEE che inizia a interagire con lui frontalmente; nel contatto vis à vis presenta attenzione al volto dell’altro e mantiene il contatto visivo; la mimica facciale è povera e poco variata rispetto all’età; il padre riferisce che inizia ora, a distanza molto ravvicinata, a rispondere ai suoi sorrisi. La TNPEE avvia la presentazione di alcuni oggetti e materiali selezionati tra quelli con maggiore contrasto visivo e luminosi con ambiente oscurato, a una distanza di sguardo compresa tra i 15 e i 30 cm, entro la quale S. mostra una risposta visiva: nel complesso l’aggancio è presente nelle varie posizioni dello spazio a distanza di circa 20 cm ed è più immediato se l’oggetto viene presentato centralmente o nell’emispazio di sinistra; la fissazione è piuttosto stabile e ha una durata adeguata all’età; l’inseguimento lento dell’oggetto lungo l’asse orizzontale è presente su entrambi i lati, ma avviene con maggiore fluidità verso sinistra, sostenuto dal movimento del capo che il bambino ruota in direzione dell’oggetto da seguire; l’inseguimento sull’asse verticale è in fase emergente, il bambino compie infatti alcuni tentativi per guardare l’oggetto che si sposta verso l’alto e abbassa lo sguardo per mantenere il contatto seppure non sistematicamente.

A conclusione dell’osservazione si definiscono gli obiettivi da perseguire in un primo ciclo di abilitazione visiva e le attività correlate volte soprattutto a sostenere le competenze di inseguimento verso destra e sull’asse verticale, l’esercizio della coordinazione occhio-mano e quello della coordinazione bimanuale.

Si individuano inoltre le facilitazioni ambientali (distanza di presentazione degli oggetti non superiore a 20-35 cm e comunque proporzionata alla loro dimensione; illuminazione dell’ambiente e provenienza della fonte luminosa) e quelle per sostenere l’apprendimento e la comunicazione, attraverso la selezione e la modalità di presentazione degli oggetti (uno o massimo due alla volta per un tempo sufficiente affinché il bambino riesca a esaurire il suo interesse); l’arricchimento e la variabilità d’uso degli stessi da parte dell’adulto per sostenere l’imitazione del bambino; la cura nella stabilizzazione posturale per ridurre la fatica che l’investimento del sistema visivo non integro comporta; il rispetto dei segnali di stanchezza attraverso la previsione di pause o l’alternanza d’uso degli oggetti proposti.

Negli incontri successivi si calibrano la qualità e la durata delle interazioni, in base alle risposte del bambino, introducendo gradualmente anche nuovi oggetti per sollecitare un arricchimento degli schemi di azione e delle condotte visive.

Il percorso si conclude alcuni incontri prima del previsto a causa di un intervento chirurgico al cuore già in programma; i genitori hanno tuttavia acquisito modalità interattive adeguate e, nell’ambiente domestico, hanno adottato gli accorgimenti visivi utili.

Ci si accorda per un monitoraggio presso il servizio dopo il periodo di convalescenza e per una successiva osservazione presso l’asilo nido in cui il bambino è stato iscritto, che preveda anche uno spazio di ascolto e scambio con le educatrici finalizzato alla condivisione di facilitazioni, strategie, tipologia di giochi e di attività e loro modalità di presentazione, per sostenere e arricchire lo sviluppo delle funzioni emergenti e di quelle in via di consolidamento.

 

Caso clinico 2

Il secondo caso clinico riguarda G.T. (età: 10 mesi)

La bambina presenta disprassia oculare in un quadro di sviluppo neuropsicomotorio nella norma. I referti oculistici descrivono movimenti del capo che anticipano quelli degli occhi; non c’è una completa assenza delle saccadi 2 che si possono elicitare con una stimolazione di tipo optocinetico.

La piccola G. è afferita al nostro servizio tramite richiesta diretta della madre su indicazione dell’oculista, che ha suggerito di verificare l’eventuale attivazione di un ciclo di abilitazione visiva.

Gli incontri con la bambina si svolgono in presenza della madre che rimane seduta a poca distanza dalla figlia, in un ambiente illuminato con luce naturale proveniente dalla finestra laterale. G. accetta di rimanere sul tappeto insieme alla TNPEE e si dimostra curiosa, attenta e partecipe sin dal primo incontro; esplora l’ambiente circostante con lo sguardo, talvolta guarda la madre per ritrovare conforto o incoraggiamento alle sue azioni o ricercarne un breve incoraggiamento verbale. Sul tappeto G. mantiene la postura seduta in maniera stabile e adeguata per l’età; osserva, afferra e manipola con entrambe le mani gli oggetti presentati; talvolta si sporge anteriormente e raggiunge la postura quadrupedica per avanzare di poco, quando la TNPEE la motiva a raggiungere gli oggetti posti al di fuori del suo raggio d’azione.

Durante l’osservazione la TNPEE propone una serie di oggetti (palline, molle, sonagli, burattini a forma di animali) a una distanza di sguardo iniziale di circa 30 cm; li presenta e li ferma in posizioni differenti nello spazio anteriore e laterale; li sposta lentamente, poi gradualmente in maniera più rapida in orizzontale, in verticale e in entrambe le direzioni; anticipa la presentazione o il cambio di oggetto e ne accompagna l’uso con un commento vocale modulato ed enfatizzato, per sostenere la motivazione e la permanenza della bambina sulle attività proposte. G. afferra gli oggetti con entrambe le mani o con una mano sola a seconda della loro dimensione e della parte di spazio in cui li percepisce; li passa da una mano all’altra, li porta alla bocca, li scuote; è in grado di selezionare e usare un solo oggetto quando ne vengono presentati due per volta; quando è stanca o poco motivata lo dichiara vivacemente opponendosi con il gesto e vocalizzi brevi di lamento.

Dai primi incontri si rilevano:

  • integrità della competenza visiva di aggancio;
  • lieve difficoltà di fissazione, che avviene con rotazione del capo verso il punto di interesse (il movimento della testa anticipa quello degli occhi bloccati lateralmente in direzione opposta);
  • inseguimento visivo verticale lento: fluido e funzionale in entrambe le direzioni;
  • inseguimento orizzontale lento: interrotto e compromesso dai movimenti a scatto del capo evocati dalla bambina in maniera automatica per lanciare una nuova saccade e continuare a seguire l’oggetto.

Le difficoltà di fissazione e inseguimento visivo aumentano proporzionalmente alla distanza a cui viene proposto l’oggetto/attività e sono più evidenti nello spazio ampio del tappeto di un metro e mezzo, dove la bambina è impegnata a mantenere il controllo posturale e motorio, oltre che visivo, per seguire oggetti e azioni della terapista. Per esempio, durante il gioco con la palla che la TNPEE fa rotolare sul tappeto, G. s’impegna a controllare visivamente la palla, ma quando tenta di gattonare per raggiungerla i movimenti a scatto del capo per seguirla aumentano, con conseguente perdita della fissazione e dell’orientamento.

Gli obiettivi specifici stabiliti a breve termine consistono nel migliorare le competenze visive di fissazione e inseguimento sollecitando strategie di compenso come l’ammiccamento, per ridurre il ricorso spontaneo al riflesso vestibolo-oculare attivato con il movimento del capo.

Gli obiettivi generali per la promozione dello sviluppo psicomotorio globale riguardano invece in particolare l’esercizio della coordinazione occhio-mano, di quella bimanuale e l’aumento dei tempi di attesa.

Il setting in cui si sono svolti gli incontri di abilitazione visiva è stato organizzato in due ambienti spazio-temporali: in una prima parte dell’incontro la bambina rimaneva seduta sul passeggino, per garantire una posizione stabile e ridurre i fattori di distrazione, condizioni necessarie per sostenere l’esercizio delle competenze visive di base; la seconda parte dell’incontro si svolgeva sul tappeto, dove la bambina sperimentava i passaggi posturali e le prime modalità di spostamento emergenti all’interno di proposte finalizzate a promuovere il controllo visivo in uno spazio più ampio, e le coordinazioni occhio-mano e bimanuale.

La TNPEE ha realizzato alcuni supporti specifici per esercitare le abilità di fissazione e inseguimento, tra i quali: un pannello rettangolare di dimensioni 20 x 60 cm a strisce bianche/nere con binario sinusoidale su cui far scorrere una pallina di colore brillante e una nave in cartone da imballaggio a strisce bianche/nere, con finestre e oblò distanti tra loro 3 e 5 cm, da cui fare comparire gli oggetti di maggiore interesse per la bambina.

Al termine del ciclo di abilitazione visiva, frequentato con costanza, si sono registrati maggiori disponibilità e attenzione in tutte le attività proposte e un miglioramento delle competenze visive di inseguimento lento orizzontale e di fissazione, con emergenza del compenso di ammiccamento, più frequente durante il mantenimento della postura seduta, nello svolgimento di attività bimanuali e oculo-manuali.

Ci si accorda per un monitoraggio a lungo termine presso il servizio e presso la struttura educativa frequentata dalla bambina, per verificare il mantenimento del miglioramento raggiunto nell’esercizio della funzione visiva, e per rispondere tempestivamente a eventuali bisogni futuri che potrebbero discendere dalla sempre più stretta integrazione della funzione visiva con le altre competenze evolutive motorie e cognitive in via di acquisizione.

 

Caso clinico 3

Il terzo caso clinico riguarda B.R. (età: 20 mesi)

La bambina presenta un importante ritardo psicomotorio e deficit visivo centrale in un quadro di tetraparesi da esiti di trauma cranico encefalico con idrocefalo derivato, avvenuto a un mese dalla nascita, per grave incidente stradale.

La piccola B. giunge presso il nostro servizio all’età di 16 mesi, su indicazione della neuropsichiatra infantile e della fisioterapista del territorio che hanno preso in carico la bambina in seguito al trauma che ha determinato il quadro clinico. La partenza del training abilitativo decorre circa 4 mesi dopo la prima osservazione in seguito al ricovero in un’altra struttura riabilitativa.

Il primo incontro di osservazione si svolge con la bambina prima in braccio al padre, poi seduta sul tappeto con contenimento di un cuscino semirigido a ciambella in ambiente illuminato da luce naturale proveniente da destra. Si osservano: controllo del capo inclinato sulla spalla destra poco stabile; controllo del tronco non ancora acquisito; repertorio di schemi d’azione ridotto per l’età, con possibilità di afferrare, scuotere e portare alla bocca gli oggetti presentati a una distanza di circa 30-35 cm (più oltre si rileva una diminuzione dell’interesse visivo) in particolare con la mano destra, mentre l’arto superiore sinistro è mantenuto flesso al gomito in deviazione ulnare con mano chiusa a pugno.

B. appare serena e disponibile per circa mezz’ora in maniera continuativa, dopo la quale inizia a mostrare cenni di scarso interesse e di stanchezza. Mostra maggiore curiosità per oggetti che suonano e/o si illuminano (lucine a led, palline, palette illuminate, campanelle, maracas, catenelle) e si affida spesso all’udito per direzionare capo e sguardo verso i rumori prodotti dalla TNPEE che le interessano. Alla distanza indicata B. è in grado di agganciare e fissare l’oggetto in posizione centrale e verso sinistra; di inseguire lentamente un oggetto in movimento in maniera instabile, meglio verso sinistra, aiutandosi con il movimento del capo; l’inseguimento sull’asse verticale risulta critico. Nel secondo incontro, avvenuto dopo quattro mesi, B. mostra un incremento della qualità attentiva e dell’interesse verso l’azione della TNPEE con oggetti posti nello spazio peri-personale. L’aggancio resta possibile in posizione centrale e nell’emispazio sinistro, mentre è discontinuo e instabile in quello destro; la fissazione è presente e stabile

per oggetti di dimensioni medio-grandi, più prolungata a sinistra; ci sono evidenti difficoltà di integrazione visuo-motoria; l’inseguimento verticale continua a essere difficilmente evocabile. La bambina presta attenzione alle attività proposte per un tempo più sostenuto, partecipa utilizzando il canale visivo, uditivo, tattile e mostra un repertorio di schemi d’azione poco più ampio (afferrare, scuotere, battere, accarezzare, strofinare al viso) che esercita utilizzando per tempi maggiori e prevalentemente con la mano destra.

Gli obiettivi a breve termine individuati e le attività correlate consistono in:

  • esercitare l’aggancio e l’inseguimento orizzontale verso destra, con aumento progressivo della velocità di spostamento dell’oggetto;
  • promuovere l’inseguimento verticale;
  • favorire il consolidamento della coordinazione occhio-mano e dell’integrazione visuo-motoria (staccare e attaccare piccoli oggetti da/su un pannello con velcro, sfilare oggetti da supporti, estrarre/inserire oggetti variando la posizione spaziale del contenitore);
  • sostenere la coordinazione bimanuale, soprattutto il coinvolgimento dell’arto superiore sinistro attraverso attività di cooperazione delle mani (trattenere tra le mani una palla leggera di medie dimensioni; tirare una molla; aprire una scatolina).

B. partecipa inizialmente seduta con sostegno del cuscino a ciambella oppure sul passeggino, successivamente su una seggiolina acquistata dai genitori, con un tavolino ad altezza adeguata. La TNPEE seleziona per B. oggetti idonei dai colori vivaci e contrastanti, di materiale differente per consistenza e di peso leggero, così da guidarla prima nella fissazione e nell’inseguimento dell’oggetto proposto, poi nella prensione e nella successiva manipolazione. Gli oggetti sono presentati sempre uno alla volta e per un tempo sufficiente alla bambina per organizzare una risposta visuo-motoria efficace. La terapista anticipa

verbalmente le attività o gli oggetti che verranno proposti; durante la conduzione delle azioni di manipolazione e bimanuali utilizza anche una guida gestuale e fisica per fornire un sostegno prossimale agli arti superiori, in particolare a quello sinistro più compromesso. Durante gli incontri la TNPEE orienta l’attenzione dei genitori presenti in stanza sulla tipologia di attività proposte e sulle modalità con cui vengono presentate.

A conclusione del training di abilitazione visiva la TNPEE, in accordo con i professionisti dei servizi territoriali, condivide con i genitori l’importanza di proseguire un intervento neuropsicomotorio a sostegno dello sviluppo globale della bambina. I genitori si rivolgono a un centro di terapia neuropsicomotoria vicino alla loro abitazione, i cui operatori, in continuità con l’intervento di abilitazione visiva appena concluso, inseriscono l’attività di consolidamento delle abilità visive di base in un progetto terapeutico più ampio volto al sostegno delle competenze posturo-motorie, cognitive e relazionali della bambina in lenta e graduale evoluzione. Le neuropsicomotriciste dei due servizi stabiliscono un confronto periodico, mantenendo un costante raccordo con la neuropsichiatra e la fisioterapista. Vengono effettuate alcune osservazioni partecipate presso l’asilo nido, in cui nel frattempo la bambina è stata inserita, allo scopo di favorire l’integrazione tra la dimensione educativa e quella riabilitativa: competenze emergenti, facilitazioni, strategie individuate nella terapia neuropsicomotoria sono condivise con i genitori e con le educatrici. Grazie a questa modalità operativa integrante, l’équipe dei professionisti riesce ad accompagnare e sostenere i genitori nel faticoso percorso di riconoscimento dei limiti e delle potenzialità della bambina, intessendo nuove maglie di collegamento ogni qualvolta essi si rivolgono ad altri servizi o attivano ulteriori operatori, spinti dall’urgenza di fare di più e dal bisogno di un «recupero riparatorio» che fronteggi il trauma subito, lasciando loro il tempo necessario per la trasformazione di quei sentimenti di rabbia, dolore e colpa che, sotto pelle, affiorano.

 

CONCLUSIONI

Il training di abilitazione visiva presentato si integra nella pratica neuropsicomotoria che si occupa in modo specifico dei disturbi e delle atipie del neurosviluppo in età evolutiva. L’intervento abilitativo nella fascia d’età 0-3 affronta precocemente i rischi di sviluppo che il disturbo sensoriale visivo congenito comporta; consente inoltre di riconoscere le competenze emergenti, di promuovere l’uso adattivo della funzione visiva e la sua migliore integrazione con le altre funzioni percettive, motorie, cognitive e relazionali. All’interno di una visione olistica ed ecologica, che vede come protagonisti il bambino e la sua famiglia, il training risulta essere un momento importante dove il neuropsicomotricista accompagna i genitori nel riconoscimento delle caratteristiche e dei bisogni del proprio figlio, anche attraverso indicazioni concrete sulle modalità interattive e sulla tipologia di giochi e di attività da proporre per promuovere e sostenerne la crescita.

Il training è inoltre un’occasione per monitorare lo sviluppo globale del bambino a partire dai bisogni derivanti dalla compromissione visiva, e per orientare i genitori ad avviare, ove necessario, un intervento neuropsicomotorio più ampio, condiviso con i professionisti di riferimento e con gli operatori che contribuiranno alla crescita del bambino.

  1. Linee di indirizzo per la riabilitazione visiva nel Servizio Sanitario della Regione Toscana, delibera n. 751 del 21.07.2015.
  2. Rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare il target di interesse a coincidere con la fovea, zona della macula che possiede il più alto potere di discriminazione visiva. Le saccadi, una volta iniziate, non possono essere interrotte o modificate.

 

ABSTRACT

This article describes the specificity of neuro psychomotor treatment for children from 0-3 with visual disorders. It offers a working model for early visual training through the presentation of three clinical cases in which objectives, activity and setting, created for a child with a visual disorder and his/her caregivers, are described.

 

BIBLIOGRAFIA

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  • Wille A.M. (1998),Il ruolo del gioco in terapia psicomotoria, «Psicomotricità», vol. 2, n. 2, pp. 16-21.

Claudio Ambrosini TNPEE, Centro R.TP., Milano

L’articolo descrive una tipologia di supervisione neuropsicomotoria basata sul dialogo verbale. Definisce il TNPEE come il referente per la supervisione e ne analizza le funzioni. Vengono riportati i passaggi attorno a cui si snoda il percorso, ricordando che al centro di esso vi sono le azioni che intercorrono tra terapista e bambino.

L’articolo illustra i motivi per cui una supervisione viene richiesta e circoscrive i limiti che il supervisore deve mantenere affinché il discorso rimanga negli ambiti specifici della professione.

Alcuni accenni vengono fatti su altri tipi di supervisione, differenziandone le modalità, e conclude con una metafora sul difficile equilibrio che il TNPEE deve saper mantenere per preservare l’identità della professione. 

Il termine supervisione è importato dall’inglese supervision con cui si intende la sovraintendenza alle componenti che nel loro insieme realizzano un film, il quale è un’opera che, per l’appunto, si vede.

Super è il termine più interessante, che contrasta nel suo primordiale significato con l’idea corrente di qualcosa «fuori dal normale», eccezionale. Ha a che fare, infatti, con upa (dal sanscrito): vicinanza, «prossimità con cui si intreccia». Ed è proprio questo elemento di prossimità che è alla base della supervisione, il cui significato estensivo è applicabile a qualsiasi disciplina.

Una «visione» vicina, sentita, proprio nel senso uditivo dell’ascolto delle parole, rappresentazione che appare, si genera nel corso del racconto creando nuovi significati.

La supervisione è un incontro tra chi svolge la funzione di supervisore e colui/colei che porta il proprio racconto.

Affronto subito due punti preliminari senza i quali potrebbero nascere equivoci:

  1. la supervisione del neuropsicomotricista avviene attraverso il dialogo verbale;
  2. il TNPEE è supervisionato dal collega TNPEE (per entrambi, i punti citati, altre modalità sono possibili e praticabili con utilità, ma lascerei a fine articolo le riflessioni sulle loro varianze).

Il punto zero sono le competenze del supervisore neuropsicomotricista (NPM): gli anni di professione, la casistica di cui è dotato e la sua diversità, il percorso formativo personale, un chiaro approccio terapeutico riconoscibile nei suoi principi teorici, metodologici e tecnici.

Descriverò, quindi, una tipologia di supervisione neuropsicomotoria che affonda le sue radici nella modernità del Novecento con i lavori di Julian de Ajuriaguerra e Jean Piaget. Al primo autore aggiungerei l’avverbio «ovviamente», per il suo contributo dato alla disciplina psicomotoria nel secondo dopoguerra; il secondo è diventato riferimento essenziale per la definizione del concetto epistemologico di azione e della sua funzione nella costruzione della realtà e per le implicazioni energetiche affettive che in esso vengono convogliate.

Nella contemporaneità mi affido alle neuroscienze con i lavori di Alain Berthoz e dell’italiano Giacomo Rizzolatti che con la sua équipe ha portato alle scoperte dei neuroni specchio e ancor prima dei meno conosciuti (e non di moda) «neuroni canonici». Questi ultimi riconoscono, o meglio certificano, il valore delle osservazioni «piagettiane» da cui nacque il concetto di schema d’azione, il quale conferisce significato all’atto, che può riferirsi coerentemente all’oggetto proprio grazie alla presenza dei neuroni canonici.

Al centro della nostra metodologia (il gruppo di lavoro del Centro RTP di Milano), vi è quindi l’atto della relazione terapeutica nelle sue molteplici valenze che si esplicitano contemporaneamente: starà poi al terapista interpretarne il senso e declinare la risposta.

 

L’ATTO AL CENTRO DELLA SUPERVISIONE

Gli atti si esplicitano in un luogo, la stanza, le cui caratteristiche fisiche sono, per la maggior parte delle volte, determinate dai differenti contesti lavorativi. La stanza, con al suo interno gli oggetti utili per la terapia, si trasformerà in un luogo dinamico e simbolico durante la costruzione dei significati. In tal modo accoglierà le prime proiezioni professionali/personali del terapista, cui ne succederanno altre. Le proiezioni, ovvero ciò che ognuno porta di sé negli ambienti, si mescolano infatti con il percorso formativo, con le idee «operative» del posto di lavoro, con la cultura di aiuto che la società pone come istanza politica. Perché questo discorso? Perché ciò che le giovani colleghe/i portano inizialmente e sempre più spesso in supervisione è proprio il tipo di richiesta della struttura sanitaria di riferimento. Una richiesta che oggi, in fase valutativa, concentra la sua attenzione sugli strumenti testistici aspecifici rispetto alla professione del TNPEE.

Sia ben chiaro che non si vuole qui contestare il valore di un ADOS, di un ABC-2, o di altri test, bensì affermare il valore e l’utilità che alla diagnosi possono derivare dalla valutazione neuropsicomotoria e distinguere gli strumenti specifici (osservazione ed esame psicomotorio) utilizzati dal NPM da quelli che, come i test, non ne fanno parte.

Questi ultimi vengono sempre più utilizzati in maniera esclusiva nella valutazione del bambino, con la conseguenza che il bilancio neuropsicomotorio deriva dall’uso esclusivo di test e non dalla somministrazione degli strumenti specifici della nostra professione. Un esempio tra i tanti? Nell’indagine sui Disturbi della Coordinazione Motoria si usa l’ABC-2 e non l’Esame Psicomotorio, non riuscendo così a distinguere le componenti prassiche da quelle di coordinazione, per cui sarà poi molto difficile delineare un chiaro progetto terapeutico.

Una prima parte del percorso di supervisione è quindi quella di offrire una possibile conciliazione tra le esigenze del servizio (ricordo che non è solo un’esigenza del servizio, ma politica) e quella della professione. Operazione che riesce, con un costo affettivo alto, poiché si deve compiere un progressivo e continuo adattamento al contesto lavorativo senza perdere i contenuti identificativi della professione.

A sostegno della mia riflessione riporto le considerazioni di due autorevoli autori: Rizzolatti nel libro Sei tu il mio io. Conversazione sui neuroni specchio con Antonio Gnoli, a proposito dello spettro autistico e Umberto Galimberti, per il ricordo di un suo discorso rispetto ai giovani e ai test. E infine un invito alla lettura di un libro di Allen Frances che cito più sotto.

A seguito di questa domanda che Antonio Gnoli rivolge a Rizzolatti, «Per una patologia come l’autismo, ad esempio, si è parlato di Broken Mirror. Potrebbe dirci qualcosa in proposito?», la sua risposta è stata la seguente: «L’autismo è un tema del quale mi sono occupato e sul quale ho delle idee, ma mi spaventa il fatto che sotto la parola autismo vengano raggruppati tutti i soggetti che hanno difficoltà sociali, di comunicazione [...] è evidente, invece, che tra loro ci sono differenze enormi. [...] Metterli tutti in un solo calderone e pensare di trovare una terapia generale per l’autismo è a mio parere privo di senso, perché si tratta di una questione estremamente complessa» (Rizzolatti, 2016, pp. 46-47).

E Galimberti, a proposito dei giovani professionisti e dei test che dovrebbero utilizzare, ha affermato che essi, i giovani, nel prioritario utilizzo di tali strumenti, vengono esclusivamente posti a confronto con la parte problematica del soggetto in terapia e di conseguenza con l’esigenza di affrontare il disturbo e non la complessità dell’individuo. Galimberti ha poi definito l’atteggiamento clinico come una declinazione nella verità che l’altro abita, per comprenderla nel luogo dove sorge, nella sua condizione meno mascherata e, aggiungo io, meno difesa, quindi aperta alla possibile accoglienza. Infine consiglio, come accennato sopra, il libro dello psichiatra Frances (che ha guidato la «task force» che ha pubblicato il DSM-IV): Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie (Frances, 2013). Il titolo si riferisce al DSM-5 ® e nel libro, il nuovo manuale 1diagnostico viene sottoposto a una critica, non proprio benevola.

Ma ritorniamo ora ai primi due punti citati a inizio articolo.

 

LA SUPERVISIONE ATTRAVERSO IL DIALOGO VERBALE

Il linguaggio è un sistema di segni rappresentativo della realtà, che da esso viene raccontata sia in termini di trasmissione di informazioni e contenuti, sia in termini simbolici, connotandola di un sistema di significazione soggettivo. Il linguaggio è al centro del lavoro di supervisione poiché è il materiale che accompagna la descrizione dei fatti e contemporaneamente la riflessione su di essi.

È lo strumento che consente di porre a distanza l’accaduto della seduta, ma non è solo uno strumento, poiché è indissolubilmente legato sia al pensiero cognitivo e alla sua logica interna, sia al sistema emotivo-affettivo: è l’atto che si compie nel racconto, oggetto della supervisione.

L’immagine (le riprese video della seduta), soluzione tecnica che il lavoro potrebbe utilizzare, non assolverebbe la stessa funzione. Il suo potere, infatti, è proprio in ciò che essa veicola spostando l’attenzione dal racconto ascolto interattivo dei due interlocutori agli ulteriori significati depositati in essa. Un oggetto terzo sulla scena, non utile per una supervisione che fa del racconto-ascolto l’azione determinante per la comprensione dei fatti.

IL SUPERVISORE Il TNPEE è supervisionato dal collega TNPEE: non potrebbe essere altrimenti. Il riferimento è il professionista che conosce, usa, padroneggia gli strumenti della disciplina. Se l’atto è la centralità del lavoro sarà nel suo utilizzo terapeutico che il supervisore, nel racconto del/della collega, osserverà le diverse sfumature in esso contenute e le implicazioni che istante per istante ne veicolano il senso.

Uno stesso atto possiede valenze differenti, cioè rappresenta azioni diverse e il lavoro del NPM è proprio quello di comprenderne i significati che a volte sono adattivi e altre ludici, a volte sono centrati sulle abilità motorie, altre su implicazioni cognitive e altre ancora sugli affetti in gioco nel rapporto con il terapista o con gli oggetti. Atti, infine, tracimanti emozioni.

Solo una formazione che ha tali competenze può favorire il processo di riconoscimento dell’agire della/del collega che richiede la supervisione.

 

PERCHÉ VIENE RICHIESTA UNA SUPERVISIONE

Nella maggior parte dei casi, la supervisione avviene come aiuto di quei percorsi terapeutici sentiti come difficili.

Situazioni dove è evidente una problematicità di conduzione causata da atti del bambino che con il suo comportamento pone al terapista domande evolutive complesse.

Trattandosi di atti, lo scambio avviene velocemente e a volte, soprattutto quando si ha meno esperienza, in maniera non sempre o immediatamente chiara. Le informazioni che il terapista riceve dal bambino, infatti, sono molteplici e trasmettono bisogni, desideri, richieste diverse che si intersecano con emozioni, vissuti, affetti che inevitabilmente accompagnano la relazione terapeutica e rischiano risposte (anche inconsapevoli) affrettate, che precipitano come massi lungo una scarpata.

Tutto si compie in una situazione dinamica di cui progressivamente si cercherà di portare a conoscenza il senso, come vedremo, in una rielaborazione dell’accaduto.

Dedicherei spazio, allora, a questo tipo di supervisioni ricordando soltanto che altre volte la richiesta può essere su argomenti settoriali, come potrebbe essere quella relativa alle procedure di valutazione, ai colloqui con i genitori, al ruolo del TNPEE nell’équipe. Solitamente però è difficile che la prima richiesta sia focalizzata su questi argomenti che invece possono trovare ambiti di dialogo quando il tema principale della supervisione è stato sufficientemente affrontato.

Dunque, situazioni difficili dove la domanda della/del collega è attorno all’elaborazione della risposta terapeutica.

Il punto di partenza, successivo al racconto clinico del caso, è l’ambiente (l’articolo ha posto subito in primo piano la stanza di terapia), evidenza visuo-percettiva immediata della prima seduta di terapia, prima indicazione che il NPM offre al bambino (Arcelloni e Magnifico, 2006).

Nell’arredo è implicito il discorso dei primi scopi terapeutici; la scelta degli oggetti e la loro disposizione dichiarano possibili piste di azioni che in parte si snoderanno secondo le anticipazioni 1 del NPM, ma che saranno anche la conseguenza del percorso interattivo dei protagonisti. Il bambino 2 nel primo periodo di terapia porterà con forza le proprie esigenze assimilative, il che non significa che siano ludiche, né evidentemente simboliche

 

AMBITI E CONFINI DELLA SUPERVISIONE NEUROPSICOMOTORIA

Il supporto che la supervisione può offrire, dopo aver concordato le norme vincolanti, 3 si pone su più livelli:

il primo è accogliere il racconto senza aver fornito particolari indicazioni su come procedere, se non quella di partire dai fatti che si vogliono raccontare (vengono quindi in evidenza i temi principali su cui sono convogliate le energie del NPM); il secondo è suggerire una descrizione accurata dell’accaduto/degli accadimenti in modo che nell’analisi degli atti si possa progressivamente discernere i possibili significati in gioco (box 1); il terzo è l’individuazione di alcune ricorrenze, nodi evolutivi, su cui concentrare l’attenzione poiché in essi vi è la domanda del bimbo; il quarto è l’organizzazione della risposta.

 

BOX 1

Descrizione e analisi degli avvenimenti portati in supervisione

  1. Analisi del contesto fisico e motivazioni per cui è stato creato in quel modo (la scena).
  2. Analisi degli atti del bambino a confronto con quelli del NPM. Atti che sono espressione del suo stato psichico e che si configurano nel/nella;
    • prossemica (nella sua parte riferibile all’occupazione dello spazio);
    • atteggiamento posturo-motorio;
    • dosaggio tonico;
    • cinetica dei movimenti settoriali in MP (Motricità di Posizione);
    • cinetica delle coordinazioni cinetiche in MS (Motricità di Spostamento);
    • linguaggio verbale.
  3. Riflessioni che accompagnano il suo agire.
  4. Ipotesi sul senso che il bambino sta dando all’azione in corso.

Questi quattro passaggi hanno necessità di un tempo affinché possano divenire materiale fluido di lavoro.

Un tempo per entrambi gli interlocutori, così da trovare un filo conduttore comune che li accompagni verso una comprensione dei fatti, traducibile in un aiuto per il bambino conseguente ad alcune modificazioni dell’impianto personale/professionale in gioco per il/la collega supervisionato/a.

I passaggi devono mantenere quell’upa (vicinanza) di cui si accennava all’inizio dell’articolo, ma così facendo, in certi punti del percorso, la componente personale emerge con forza: è chiaro che le azioni del bambino evocano nel terapista contenuti controtransferali. Qui vi è il limite che il supervisore deve saper rispettare: «Guardi che qui, in questo suo agire, vi è qualcosa di suo, altre volte ci è capitato di osservare la stessa dinamica, oggi in modo più intenso. Sappiamo entrambi che è qualcosa che la riguarda con intensità, ma non è questo, guardare dentro di lei, lo scopo del nostro lavoro, ma è tema di una sua riflessione e di chiarimento in altro ambito».

Necessario e indispensabile è porre dei limiti in un lavoro che muove ogni nostro muscolo e su cui è stampata e trattenuta in ogni fibra la nostra storia. Per cui alcuni aspetti fanno parte del percorso interpretativo che la nostra professione ha l’obbligo di fare, altri sono invece esclusi anche se alcune considerazioni, proprio per il percorso personale formativo che ogni supervisore dovrebbe avere svolto, possono essere utili.

La supervisione, per le giovani colleghe che si avviano al lavoro terapeutico dovrebbe essere uno strumento prioritario del percorso formativo. Andrei a distinguere: un conto è la supervisione che avviene all’interno di un servizio, che sia pubblico, convenzionato o privato non fa differenza, altra è la scelta personale che un TNPEE fa di intraprendere una supervisione. Nel primo caso la funzione è prevalentemente professionalizzante e finalizzata al sistema operativo del servizio, anche se tali componenti non vengono esplicitate; nel secondo prevalgono, invece, la componente personale e l’indirizzo metodologico professionale che si vuole approfondire, per cui viene scelto il collega TNPEE che meglio può rispondere alle esigenze.

Il percorso di supervisione che ho descritto si riferisce a questo secondo modello che ritengo più utile nel momento in cui il NPM ha intenzione di riflettere sul metodo e di riconoscere nel lavoro alcune condizioni soggettive che con esso interferiscono. Con i limiti già descritti.

Vero è che alcune tipologie di bambini pongono in precario equilibrio la conduzione quando ciò che mettono in scena racchiude contenuti simbolico-affettivi profondi. Sono i bambini di cui ho discusso in un precedente articolo (Ambrosini, 2015) che trascinano il NPM in un «paludoso» terreno psicodinamico. Bambini comunque inviati in terapia neuropsicomotoria dal medico, quindi casi per cui è stata valutata un’utilità terapeutica non psicoterapica. In tali situazioni è ipotizzabile che il referente supervisore possa essere una figura diversa dal NPM. È più utile uno psicoterapeuta e, anche in questo caso, vi sarà una scelta da compiere rispetto ai riferimenti teorici e metodologici.

La supervisione è un percorso che accompagna il lavoro del NPM nel corso degli anni, 4 non vi è un momento in cui se ne possa fare a meno. Con il tempo certamente si modificano le richieste e le conoscenze sui disturbi, anche perché una società in rapido cambiamento impone avvicinamenti diversi (si pensi alla moltitudine di bambini con culture diverse che vivono nel nostro paese e sono in cura a colleghi NPM).

Un’attenzione particolare dovrebbe essere data al linguaggio verbale usato in seduta, conseguenza del tipo di conduzione scelta, in riferimento agli scopi terapeutici del periodo.

Il linguaggio, infatti, è uno strumento su cui delle volte non vi è una sufficiente attenzione, mentre nel nostro lavoro il suo utilizzo dovrebbe essere ben calibrato in quanto strumento di regolazione delle azioni, di informazione, di passaggi in funzione di apprendimenti di atti e di verbalizzazione di contenuti simbolici (Massenz, 2015).

Il linguaggio del NPM in supervisione è un segnale delmodo in cui non solo egli vive gli atti della seduta, ma come li conosce e come ne diviene consapevole. L’attenzione del supervisore al lessico (perché quella parola) e alla sintassi (perché i fatti sono legati linguisticamente in un certo modo) è parte fondamentale del suo lavoro e può togliere il velo a una situazione fin lì oscura.

Tra le varianze tecniche citerei quella supervisione che utilizza foto, riprese video, registrazioni audio, utili quando il processo terapeutico è ben chiaro e quindi è possibile focalizzare l’attenzione su aspetti particolari che gli strumenti citati possono ben mostrare.

Ritengo, comunque, che nel momento in cui un/una giovane collega inizi a lavorare, il riferimento sia il TNPEE che svolge il suo operato così come descritto, poiché questo rapporto permetterà di entrare in possesso degli strumenti specifici della professione e solo successivamente potrà essere utile variare le condizioni del lavoro qualora ne sorgesse la necessità.

 

CONCLUSIONI

La nostra è una professione in un perenne rapporto con l’equilibrio e, quando si cammina su un filo sospeso, il rischio di cadere è sempre possibile. È pur vero che Philippe Petit, ritenuto il più grande equilibrista del mondo, dalle vertiginose altezze dove la sua fune veniva sospesa, precipitato non è.

Nel suo libro (Petit, 1999) è affascinante la descrizione delle funi usate, delle tecniche impiegate per costruirle, terminali di competenze professionali e pulsioni personali che l’hanno portato a camminare sui punti più alti degli edifici di città della Terra.

L’atto è contemporaneamente terminale e attivatore di processi neurali e, a seconda di come lo si interpreta o di cosa ci vuole rivelare, racconta le varie componenti della persona.

Essendo l’atto al centro del mio agire professionale, il rischio di scivolare in campi del sapere contigui alla professione è reale (generalizzerei, senza timore di essere smentito: tale rischio, indipendentemente dalle metodologie diverse, è un rischio voluto della terapia NPM).

Per tale motivo il percorso formativo post-universitario dovrebbe proseguire nell’appropriazione degli strumenti specifici della professione, e ritengo la supervisione un percorso prioritario poiché consente di lavorare in vicinanza e osservare gli aspetti personali/professionali e così di collaborare con le/i giovani colleghe/i affinché possanointeriorizzare l’identità della professione

  1. Le anticipazioni provengono dal bilancio in cui sono delineati progetto e programmi con i rispettivi obiettivi.
  2. Indipendentemente dalla diagnosi, i casi che vengono portati in supervisione si riferiscono a quei bambini che «deviano» dagli obiettivi terapeutici, ponendo il NPM in difficoltà nella conduzione delle sedute, difficoltà che prima di essere tecnica è in rapporto diretto con la persona-terapista e «tocca» la sua struttura motorio-posturo-affettiva. (Ambrosini e Pellegatta, 2012), le quali interferiranno con le anticipazioni ipotizzate.
  3. Le norme sono poche: decisione della frequenza con cui gli incontri avvengono (settimanale, quindicinale, mensile, altro) e costanza nel mantenere la frequenza; durata dell’incontro (un’ora/due ore) e rispetto degli orari; l’articolo è dedicato alla supervisione individuale, ma le supervisioni possono essere anche di gruppo. La differenza principale sta nell’approfondimento del discorso rispetto a sé (supervisione individuale) che permette una maggiore riflessione sui contenuti personali/professionali: riflessione che esiste anche nella supervisione di gruppo, ma quest’ultimo limita tale approfondimento, a vantaggio di un ventaglio di considerazioni arricchenti, in quanto molteplici e di diversi orientamenti.
  4. In riferimento a casi di bambini con disturbi della sfera emotivo-affettiva il nostro gruppo di lavoro del Centro RTP si rivolge a una psicoterapeuta

 

ABSTRACT

This article describes a type of neuropsychomotor therapy supervision based on a verbal exchange. The therapist is defined as the referent for supervision and his/her role is analysed. Passages are reported that are important to therapy’s evolution while keeping in mind that the actions between the child and the therapist are central.

The article illustrates the motives for which supervision is requested and circumscribes the supervisor’s role in order to remain in a specific professional sphere. Some mention is given to other types of supervision and how their modalities differentiate. A metaphor on how a TNPEE has to know how to maintain a difficult balance in order to preserve a professional identity concldes the article.

 

BIBLIOGRAFIA

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di Roberta Penge e Maria Letizia Piredda - Neuropsichiatra infantile, TNPEE

Dipartimento di Neuropsichiatria infantile, Università di Roma Sapienza

 

Le diverse definizioni dei disturbi del movimento (disfunzione cerebrale Minima, disprassia evolutiva e disturbo della coordinazione Motoria – Developmental Coordination Disorder/DCD), che si sono succedute nel tempo a partire dagli anni ’70, corrispondono a diversi approcci teorici (ma anche diagnostici) a questi disturbi e hanno condizionato, tra l’altro, la comprensione delle sue frequenti comorbidità.

Questo contributo descrive in modo particolare le relazioni tra dcd e disturbi (specifici) di apprendimento (dsa): la disomogeneità dei dati presenti in letteratura viene discussa proprio in relazione alle diverse definizioni del disturbo di movimento e di dsa, nonché ai nuovi approcci teorici ai disturbi neuroevolutivi, definiti dalla loro complessità, eterogeneità e multifattorialità e, quindi, dalla multidisciplinarità necessaria per la diagnosi e la presa in carico.

Negli ultimi anni la ricerca e la riflessione clinica sui disturbi dello sviluppo, e in particolare su quelli settoriali, hanno subito un’evoluzione significativa. Dalla fase in cui era necessario definire la loro esistenza e differenziarli dai disturbi più gravi e/o a più ampia compromissione, si è passati a uno studio più attento della loro variabilità interna della comorbilità. Dalla fase in cui si cercavano cause uniche per singoli disturbi, si è passati a modelli patogenetici multicomponenziali e multicausali. È all’interno di questa cornice che affronteremo il rapporto tra DSA e DCD.

 

I DCD: DALLA DISFUNZIONE NEUROLOGICA MINORE PASSANDO PER LA DISPRASSIA

La storia dei disturbi dello sviluppo motorio inizia nel primo Novecento, quando i termini «Danno Cerebrale Minimo» prima e «Disfunzione Neurologica Minore» poi vengono utilizzati per descrivere i bambini che presentano difficoltà nel movimento, in assenza di Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) o di Disturbi Neuromuscolari. L’ideaimplicita nella prima definizione è che si tratti di disturbi simili alle PCI, conseguenza

di «danni» cerebrali di entità inferiore, ma comunque interessanti le aree corticali motorie. L’introduzione del termine «disfunzione» inizia gradualmente a spostare l’accento dalla struttura al suo funzionamento, dalla singola area alla rete tra aree e connessioni, al disturbo del tono muscolare e/o dell’utilizzazione coordinata della motilità dei due emilati.

Le descrizioni di bambini con un lieve deficit di coordinazione e goffagine motoria, che sono presenti nella letteratura fin dall’inizio del Novecento, negli anni ’60 e ’70 subiscono una serie di modificazioni terminologiche, che portano con sé anche un cambiamento della visione del disturbo.

Si inizia a fare riferimento alla «goffaggine congenita» (per una rassegna vedi Vaivre-Douret, 2007). In Italia, Rosano (1992) descrive due forme di difficoltà motoria: la Goffaggine, caratterizzata dalla presenza di paratonia o ipotonia diffusa associata a movimenti poco fluidi, e la Maldestrezza, caratterizzata da scarsa associazione motoria tra gli emilati e tra i cingoli con tono irregolarmente distribuito. Nello stesso lavoro viene descritto anche il quadro di Instabilità psicomotoria come un disturbo dell’integrazione percettivo-motoria associato a ipotonia e paratonie.

Nel 1969 de Ajuriaguerra descrive la «Disprassia Infantile» con riferimento all’aprassia costruttiva degli adulti e la definisce come un disturbo dell’integrazione corporea che interferisce con l’organizzazione spaziale.

Altri autori, che in un primo tempo hanno utilizzato il termine «aprassia dello sviluppo», più tardi hanno preferito usare il termine «Disprassia». Il termine «Disprassia Evolutiva» o «Disprassia dello Sviluppo» è stato applicato ai bambini che rientrano nella categoria di soggetti descritti come «goffi o maldestri». La Disprassia viene descritta come un disturbo dello sviluppo di natura costituzionale, caratterizzato da una difficoltà nell’apprendimento o nell’espletamento dei compiti motori non abituali, generalmente identificata in età infantile. Come in altri settori il termine evolutivo viene utilizzato come «contrasto» con la forma «acquisita» dell’adulto, che implica la perdita di una competenza precedentemente controllata.

Per i primi autori, infatti, la forma evolutiva si differenzia da quella dell’adulto in quanto risulta caratterizzata da difficoltà nel compiere attività motorie complesse (compatibili con l’età), in assenza di difficoltà nella pianificazione delle stesse. Per altri autori anche in età evolutiva possono essere presenti diverse forme di Disprassia che coinvolgono pure gli aspetti ideativi e di pianificazione motoria.

In ogni caso l’uso del termine «Disprassia» sposta l’attenzione dagli aspetti esecutivi del movimento (tono, forza, fluidità) alla sua efficacia e finalità (scopo e adattabilità), e dal singolo atto motorio alla sequenza dei movimenti necessari per raggiungere uno scopo.

Nonostante i diversi tentativi di descrivere la Disprassia Evolutiva in modo oggettivo e dettagliato, in termini clinici questa è rimasta una diagnosi poco definita e soggetta a numerose controversie. In particolare non si è raggiunto un accordo sulla possibilità di definire la Disprassia come un disturbo a sé stante, o come un «sintomo» presente all’interno di altri disturbi (dal Ritardo Mentale, ai Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, agli altri Disturbi del Movimento).

Nel 1987 il DSM-III-R (American Psychiatric Association, 1987) e poi nel 1994 il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1996) introducono il termine «Disturbo della Coordinazione Motoria» (Developmental Coordination Disorder/DCD) per identificare i bambini con una difficoltà significativa nello sviluppo della coordinazione motoria, che interferisce significativamente con gli apprendimenti scolastici o con le attività di vita quotidiana, in assenza di disturbi neurologici maggiori o di Ritardo Mentale. La prevalenza del disturbo nella fascia d’età 6-15 anni è stimata intorno al 6% ed esso tende a permanere in età adulta, non solo come persistenza di difficoltà visuo-motorie, ma anche come disturbo socio-emozionale.

A livello osservativo i bambini con DCD vengono descritti come goffi, con difficoltà posturali, confusione nell’uso delle due mani, difficoltà nel prendere o tirare una palla, nell’impugnare correttamente una matita, nella lettura e nella scrittura. I soggetti con DCD presentano difficoltà anche in compiti visivi che non includono componenti motorie, come le discriminazioni di lunghezza o il completamento di Gestalt, con difficoltà prevalenti nel giudizio di grandezze e nel localizzare la posizione degli oggetti nello spazio. Il rapporto tra competenze percettive e competenze motorie, fin dall’inizio oggetto di un ampio dibattito, viene nuovamente analizzato all’interno della definizione di DCD. Da un lato, infatti, appare sempre più chiaro che nel corso dello sviluppo le competenze visuo-percettive e il controllo motorio interagiscono fortemente, dall’altro è stato dimostrato da vari autori come nei soggetti con DCD la presenza di difficoltà visuopercettive possa essere non presente o comunque poco determinante nella genesi del fallimento delle attività motorie o visuo-motorie.

L’introduzione di una nuova e univoca definizione apre un nuovo e attivo dibattito, in cui il diverso uso terminologico sembra dare luogo a posizioni di partenza differenti, ma con approcci che si vanno man mano unificando. Tra il 1980 e il 2000, su 176 lavori pubblicati il 41% utilizza il termine «Goffagine», il 26% il termine «DCD», il 18% termini riferiti alla compromissione di competenze sensori-motorie, il 10% il termine «MBD» o «MDN» e solo il 6% il termine «Disprassia». Il termine «DCD» viene utilizzato in misura sempre crescente a partire dal 1994 (Geuze et al., 2001).

Nonostante questa graduale uniformizzazione della terminologia utilizzata, la letteratura sui DCD continua a presentare una serie di limitazioni che si ripercuotono sulla comprensione del disturbo e sulla sua gestione clinica. Nella rassegna sopra citata (Geuze et al., 2001) si sottolinea come in molti lavori (che facciano riferimento o meno al DSM) sia i criteri di inclusione ed esclusione (criterio A) che l’impatto negativo nel funzionamento adattivo (criterio B) appaiono spesso presunti, oppure descritti in termini qualitativi e non misurati in modo oggettivo.

L’utilizzo di una definizione condivisa non ha quindi risolto del tutto i problemi diagnostici relativi al DCD infatti, accanto ai limiti metodologici sopra brevemente descritti, emerge in modo sempre più chiaro come alcune caratteristiche intrinseche al disturbo (e comuni a tutti i disturbi di sviluppo) contribuiscano significativamente a questa problematicità.

Un primo elemento è la mancanza di omogeneità: anche i lavori che utilizzano il termine «DCD» (e un’applicazione rigorosa dei criteri diagnostici del DSM) descrivono gruppi di soggetti fortemente disomogenei per ogni area esplorata o compito utilizzato e solo una parte dei soggetti con DCD (mediamente il 50%) mostra una caduta significativa.

Ad esempio, un lavoro riporta le percentuali di caduta in un’ampia serie di compiti (test neuropsicologici strutturati, esame neurologico, attività motorie spontanee, ecc.) somministrati a un campione di 43 bambini di età compresa tra 5 e 15 anni (81% di sesso maschile), selezionati da una popolazione clinica ambulatoriale, utilizzando i criteri diagnostici del DSM-IV-R (American Psychiatric Association, 2000).

A parte l’integrazione visuo-motoria, la strutturazione visuo-spaziale (Figura di Rey-copia) e l’abilità di scrittura manuale (non la disgrafia), che appaiono compromesse in più dell’85% dei soggetti, la percentuale di cadute rilevate, anche in compiti teoricamente rilevanti per la diagnosi di DCD, appare oscillare tra il 40% e il 60% dei soggetti.

Diversi autori hanno affrontato il tema della disomogeneità del DCD tentando di individuare sottotipi più omogenei di disturbo. Molto recentemente, utilizzando due diverse metodiche statistiche (analisi fattoriale e cluster analysis) su 43 bambini con diagnosi di DCD, Vaivre-Douret et al. (2011) ha individuato l’esistenza di tre sottotipi (ideomotorio, visuo-spaziale/costruttivo e misto), più un possibile quarto sottogruppo (visuo-spaziale puro). Questi sottotipi differirebbero non solo per le caratteristiche cliniche (funzioni primariamente compromesse), ma anche per comorbidità e per prognosi.

In precedenza altri tentativi avevano condotto a risultati molto diversi tra loro. In una rassegna di qualche anno fa, Visser (2003) ha suggerito la possibile esistenza di un sottotipo di DCD caratterizzato da una compromissione ampia delle competenze sensorio-motorie (una sorta di disfunzione percettiva generalizzata), che emerge in tutti i lavori indipendentemente dalle aree indagate e dagli strumenti utilizzati, mentre gli altri sottotipi individuati sembrano dipendere in modo significativo dai criteri di inclusione utilizzati, dalle ipotesi sulle disfunzioni presenti e dalla scelta degli strumenti di misura.

Questa variabilità si ripercuote sulla scelta degli strumenti e dei protocolli diagnostici per il DCD. Al momento attuale, infatti, non esiste nessuno strumento che esplori tutte le funzioni e le abilità potenzialmente coinvolte nel Disturbo di Coordinazione Motoria. Un confronto tra i diversi strumenti disponibili mostra come ciascuno di essi individui come compromessi soggetti solo parzialmente sovrapponibili e come quindi nessuno di essi possa essere considerato il gold standard per la diagnosi di DCD.

Anche la Movement Assessment Battery for Children (Henderson e Sugden, 1992) al momento la prova più utilizzata nella letteratura internazionale e quindi anche in ambito clinico, presenta una serie di limiti sia psicometrici (test-retest e inter-rater reliability, factorial and predicitve validity, internal consistency, ecc.), sia dovuti al tipo di item in essa contenuti (che esplorano solo alcune delle caratteristiche presenti nella definizione di DCD), sia rispetto alle modalità di somministrazione (ad esempio, possibilità di aiuto, istruzioni, allenamento).

Queste caratteristiche fanno sì che l’ABC, utilizzato da solo, individui correttamente soltanto la metà dei soggetti con un DCD.

Se sul piano della ricerca appare necessario definire meglio criteri e strumenti diagnostici, sul piano clinico ci sembra indispensabile utilizzare più di uno strumento diagnostico e integrare i dati misurati con informazioni descrittive fornite dai genitori, dal soggetto e/o dall’osservazione diretta. Questa difficoltà nell’individuazione ei criteri diagnostici del DCD non deve, però, far perdere di vista il fatto che si tratta di un disturbo rilevante sul piano clinico. Alla sua alta prevalenza in età evolutiva, che ne fa uno dei disturbi più frequenti, si aggiungono l’ampiezza delle aree di funzionamento adattivo compromesse e una prognosi sociale e psicopatologica non sempre favorevole.

Dati recenti, che utilizzano i costrutti e gli strumenti proposti dall’ICF (World Health Organization, 2001), mostrano una correlazione significativa tra presenza e gravità del DCD e restrizione dell’Attività e della Partecipazione, non solo in ambito scolastico, ma anche nelle attività pomeridiane strutturate o spontanee. I soggetti con DCD, pur riferendo lo stesso livello di piacere rispetto a queste attività, percepiscono chiaramente la loro minor capacità rispetto ai coetanei. Questa consapevolezza, insieme alla sperimentazione dell’insuccesso (soprattutto in un campo come quello sportivo, dove vincere e perdere hanno connotazioni ben definite), fa sì che essi tendano a partecipare con minor frequenza e variabilità alle attività motorie, scegliendo quelle più tranquille e più isolate socialmente.

Sul piano emotivo è un dato sufficientemente accettato che i soggetti con DCD presentano frequentemente sentimenti di scarsa autostima, livelli più alti di ansia e di lamentele relative a disturbi somatici (mal di pancia, mal di testa, ecc.). Gli studi longitudinali inoltre mostrano come, nell’adolescenza e nell’età adulta, questi soggetti possono essere caratterizzati dal permanere delle difficoltà di organizzazione motoria (e del disadattamento ad essa secondario) e apparire come più immaturi, passivi e socialmente isolati.

 

DCD E COMORBILITA'

Gli studi sulla sottotipizzazione del DCD si sono rapidamente incontrati con gli studi sulla comorbidità tra i disturbi di sviluppo che si sono moltiplicati negli ultimianni. Il sempre più frequente rilevamento di percentuali di associazione significativa tra i diversi disturbi di sviluppo ha naturalmente portato a rileggere in una chiave diversa sia il concetto di comorbidità che quello di sottotipo.

In un’interazione dinamica e circolare, una diversa aggregazione delle concause dei disturbi di sviluppo potrebbe portare a una diversa fenomenologia dei disturbi, che si distribuirebbero lungo un continuum che vede a un estremo il disturbo/sottotipo «puro» e all’altro quelle situazioni di comorbidità plurima (DSA, DCD, ADHD, DSL), che sembrano mettere in discussione il concetto stesso di disturbo settoriale.

Anche la variabilità delle alterazioni rilevate in questi disturbi con le moderne tecniche di neuroimmagini contribuisce a far ripensare il concetto di relazione causale tra alterazione cerebrale e alterazione della funzione, che di fatto ha costituito per lungo tempo la base teorica per la definizione di un disturbo. Alcune ipotesi esplicative dell’alta comorbidità in età evolutiva fanno quindi riferimento ai meccanismi causali/patogenetici del disturbo.

In una sorta di rilettura del concetto di disfunzione neurologica minore alcuni autori utilizzano il concetto di «sviluppo cerebrale atipico» (Atypical Brain Development/ABD) quale elemento patogenetico comune, ad esempio all’ADHD, al DCD e ai DSA, con una variabilità clinica che dipende dall’«espressività» della disfunzione in termini di estensione e localizzazione della disfunzione neurologica. Si tratta per alcuni versi di una spiegazione parziale e generica, che non esclude la possibilità che i casi «puri» di ciascun disturbo presentino, invece, disfunzioni cerebrali più definite e circoscritte.

Molti lavori hanno studiato la comorbidità tra DCD e Disturbi Specifici di Linguaggio, sottolineando che una significativa percentuale di soggetti con diagnosi di DSL presenta difficoltà di organizzazione motoria compatibile con una diagnosi di DCD; le caratteristiche cliniche di questi soggetti si discosterebbero e si differenzierebbero da quelle del DSL puro e del DCD puro.

Altrettanto interessante sul piano del ragionamento sulla comorbidità appare la descrizione del DAMP (Disturbo dell’Attenzione, del Controllo Motorio e della Percezione). All’inizio degli anni ’80 viene descritto un gruppo di bambini con diagnosi di Minimal Brain Dysfunction/MBD, che mostrano alterazioni neuroevolutive indicative di una sindrome da Goffaggine Motoria. Negli anni successivi si conferma una stretta associazione tra difficoltà attentive, percettive e del controllo motorio che non comprende soggetti con dis di linguaggio o di apprendimento del linguaggio scritto, ma che conduce a difficoltà scolastiche significative. I segni neurologici rilevati in questi soggetti fanno pensare a una disfunzione cerebellare o dei gangli della base.

Molti altri autori segnalano la frequente presenza di problemi di organizzazione motoria nei soggetti con ADHD, che arriverebbe fino al 50% dei casi.

 

DCD E DA

Più complessa appare invece la relazione tra DCD e Disturbi di Apprendimento, poiché in questo caso alle difficoltà descrittive del DCD si aggiungono quelle relative al DSA. Nella letteratura di lingua inglese, infatti, i termini Dyslexia, Reading Disability e Learning Disability vengono utilizzati a volte come sinonimi per descrivere disturbi dello sviluppo delle competenze scolastiche in assenza di altre compromissioni patologiche, mentre in altri casi gli ultimi due vengono usati per descrivere difficoltà di apprendimento all’interno di disturbi più ampi (ad esempio il Funzionamento Intellettivo Limite, il Ritardo Mentale Lieve o forme lievi di Disturbi Generalizzati dello Sviluppo) Questa difficoltà ha fatto sì che le due categorie diagnostiche abbiano viaggiato in «opposizione» per alcuni anni, anche se, parallelamente alle descrizioni della Disprassia Evolutiva, era comparsa in letteratura la descrizione di una «sindrome» che ne condivide alcune caratteristiche e che sottolinea la frequente compresenza di difficoltà «motorie» con difficoltà in altri ambiti di sviluppo.

Il Disturbo di Apprendimento Non Verbale viene descritto per la prima volta da Rourke nel 1989, partendo dalle particolari caratteristiche di alcuni soggetti con Disturbo Specifico di Apprendimento, quali deficit nelle competenze motorie/psicomotorie, tattili/percettive, visuo-spaziali, di problem solving e particolari difficoltà con l’aritmetica. Questi stessi soggetti sembrano presentare competenze intatte (o comunque meglio organizzate) nell’area linguistica, nello spelling e nella lettura di parole isolate. Partendo da una descrizione inzialmente qualitativa, vengono man mano definiti in modo più operativo le aree deficitarie e gli strumenti diagnostici necessari.

Il DSA Non Verbale viene descritto attraverso il confronto tra deficit e risorse, organizzati su tre livelli causali, e tra le conseguenze, accademiche e sociali, secondarie. Tali caratteristiche possono in parte variare con l’età. A livello primario sono presenti deficit nella percezione tattile e visiva, nella psicomotricità complessa e nei confronti di materiale nuovo, mentre vengono descritte competenze adeguate nella percezione uditiva, nei movimenti semplici e nei confronti di materiale iperappreso.

Questi problemi nucleari generano difficoltà nell’attenzione tattile e visiva e nelle condotte esplorative, mentre l’attenzione uditiva e quella verbale appaiono indenni. Come ulteriore conseguenza la memoria tattile e visiva, la formazione dei concetti e il problem solving appaiono compromessi e si determinano problemi anche nell’area verbale con difficoltà nelle prassie orali, nel controllo della prosodia, nella presenza di errori semantici superiore a quella degli errori fonologici, in un deficit nella pragmatica e nell’uso funzionale del linguaggio; adeguate sono invece la memoria uditiva e quella verbale e, in ambito liguistico, le abilità fonologiche, la ricezione e ripetizione verbale, l’immagazzinamento e le associazioni tra materiali verbali.

Come dimensioni dipendenti Rourke individua l’area accademica (con punti di forza nelle abilità grafomotorie tardive, nella decodifica di parole, nello spelling e nella memoria verbale, con punti di debolezza nei primi apprendimenti grafomotori, nella comprensione della lettura, nell’aritmetica, nella matematica e nelle scienze).

Sul piano dell’adattamento sociale, vengono invece descritti solo i deficit, presenti nell’adattamento alle novità, nelle competenze sociali, nella stabilità emotiva e nel livello di attività.

L’utilizzo prevalente degli item delle Scale Wechsler e l’attenzione prioritaria attribuita ai test visuopercettivi (che individuano correttamente il 90% dei soggetti con DSA Non Verbale) rendono difficile confrontare con certezza la descrizione di questa popolazione con quella dei DCD, anche se la descrizione appare molto suggestiva nel senso di una, almeno parziale, sovrapposizione.

Negli anni più recenti quasi tutte le ricerche sui DCD hanno evidenziato difficoltà nell’apprendimento e nel rendimento scolastico, a volte in modo generico, a volte invece riportando (Vaivre-Douret et al., 2011; Dewey et al., 2002) la presenza di cadute significative in aree e test relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo.

Una possibile via per comprendere questa coesistenza potrebbe venire dalle ipotesi che spiegano il DSA come un «disturbo da automatizzazione». Partendo dall constatazione della presenza di difficoltà di alterazioni motorie e di alterazioni del tono muscolare in un gruppo di soggetti con DSA e dalla diminuzione di efficienza in un compito motorio semplice e automatico, se svolto contemporaneamente a un compito di altro tipo (quale, ad esempio, il contare all’indietro), questi autori hanno ipotizzato che, alla base delle difficoltà di lettura, ci sia una difficoltà nell’automatizzazione di molti compiti e attività. Questa alterazione viene fatta risalire a un’alterazione del cervelletto (che ha un ruolo nell’apprendimento e nel controllo di molte abilità) e sarebbe dimostrata, oltre che da dati di neuroimmagini, dalla presenza di segni neurologici «minori» quali la dismetria, l’adiadococinesia, la presenza di movimenti a specchio. Questa ipotesi, che contrasta ampiamente con l’ipotesi fonologica più accreditata per la genesi di un disturbo di lettura, non è al momento accettata quale modello esplicativo dei DSA in toto. Non esistono altresì studi che abbiano indagato la presenza di difficoltà di automatizzazione nei soggetti con DCD. Potrebbe tuttavia essere una strada percorribile per spiegare la comorbidità tra DCD e DSA.

Partendo da un ambito più clinico-diagnostico, la comorbidità tra DCD e DSA è stata studiata da più autori.

Dewey (Dewey et al., 2002), confrontando soggetti con DCD e soggetti con sviluppo tipico, evidenzia la presenza di differenze statisticamente significative in un’ampia serie di prove di attenzione, apprendimento e adattamento sociale. Per ciò che concerne l’apprendimento, i soggetti con DCD presentano cadute più significative nella comprensione della lettura, ma anche in compiti più saturi di componenti di processamento fonologico, come la lettura rapida di parole o il word attack, tipicamente compromessi nei soggetti dislessici.

Nello studio sopra citato Vaivre-Douret (Vaivre-Douret et al., 2011) individua differenze nelle difficoltà di apprendimento nei sottotipi di DCD/Disprassia identificati mediante analisi statistica. La presenza di difficoltà nell’area linguistica sarebbe maggiore nel sottotipo visuo-motorio rispetto al sottotipo visuo-spaziale/visuo-costruttivo, mentre il contrario avverrebbe per le difficoltà nell’area della matematica e della geometria; il sottotipo misto presenterebbe problemi in entrambe le aree. Interessante appare anche studiare la comorbidità con i DCD, prendendo le mosse dallo studio dei DSA e della loro complessità diagnostica.

I Disturbi di Apprendimento, accanto alle caratteristiche che li accomunano (natura neurobiologica, esclusione di patologie più ampie, discrepanza tra potenzialità di apprendimento e rendimento scolastico, interferenza con il funzionamento adattivo), presentano, infatti, un’ampia eterogeneità clinica. Il tentativo più frequente di raggruppamento è quello tra DSA Verbali (caratterizzati dalla frequente presenza di un pregresso disturbo di linguaggio e da difficoltà prevalenti nella lettura) e DSA Non Verbali (caratterizzati da difficoltà nei compiti visuo-spaziali e da discalculia), a cui più recentemente è stato proposto di aggiungere un terzo tipo, caratterizzato dalla presenza di difficoltà di attenzione (non necessariamente parte di un quadro di ADHD) e/o dalla presenza di difficoltà di organizzazione motoria (Attention and Motor Function Disabilities/AMD).

Nonostante l’esistenza di questi raggruppamenti clinici sia ormai ben nota, la maggior parte delle ricerche sui DSA (e in particolare sulla Dislessia) analizza esclusivamente i processi di lettura e le funzioni ad essa direttamente sottostanti (come il processamento fonologico, la memoria fonologica di lavoro), inducendo anche i clinici ad attivare percorsi diagnostici limitati a questi aspetti.

In uno studio (Hendriksen et al., 2007), condotto su 495 soggetti segnalati a un Centro Specializzato per i Disturbi di Apprendimento dell’Università di Maastricht da unità diagnostiche periferiche nell’arco di 5 anni, sono state analizzate la distribuzione finale delle diagnosi e la coerenza con la diagnosi di invio.

Il 51,7% del campione riceveva una diagnosi di DSA Verbale, solo il 4% una diagnosi di DSA Non Verbale, e ben il 41% una diagnosi di AMD. All’interno di questa categoria la maggior parte dei soggetti (25,7/41) presentava un ADHD di tipo combinato, mentre la percentuale restante si divideva equamente tra ADHD di tipo disattento e Disturbo della Coordinazione Motoria con o senza difficoltà attentive.

La corrispondenza con la diagnosi di invio (formulata da singoli operatori più o meno specializzati) oscillava tra l’81% per i DSA Verbali e il 68-70% per gli AMD e i DSA Non Verbali. Tra i singoli disturbi la Dislessia e l’ADHD combinato venivano segnalati con maggior frequenza in modo corretto (circa nel 74% dei casi), mentre percentuali tra il 30 e il 60% si rilevano per gli altri disturbi. Da notare, infine, che il 23% di tutti i casi riceveva una diagnosi in un’area completamente diversa da quella dei disturbi di apprendimento e che, per ogni categoria di DSA, è in ogni caso presente una percentuale del 6-7% di casi ad attribuzione incerta.

I tre gruppi, infine, differivano per età e distribuzione di genere (gli AMD tendevano ad avere età inferiore e a essere di sesso maschile) e anche per la presenza di problemi emotivo-comportamentali, minori nei DSA Verbali, di tipo prevalentemente internalizzante nei DSA Non Verbali e di tipo esternalizzante nel gruppo AMD.

Al di là dei dati specifici, che risentono anche di scelte culturali e dell’organizzazione sanitaria, i dati sopra descritti sottolineano, come concludono anche gli autori, la necessità di un approccio diagnostico multidisciplinare alle difficoltà di apprendimento, attento alla rilevazione delle possibili comorbidità e dei differenti assetti neuropsicologici, cognitivi e affettivi.

I problemi teorici e clinici sulla comorbidità tra DCD e difficoltà di apprendimento si ricongiungono dunque sul tema della complessità, dell’eterogeneità e multifattorialità e, quindi, della multidisciplinarità diagnostica e della presa in carico.

 

ABSTRACT

The different definitions of movement disorders (Minimal Brain dysfunction, developmental dyspraxia, nonverbal learning disabilities and developmental coordination disorder), that have been used alternatively since the ‘70, correspond to different theoretical (but also diagnostic) approaches to these problems and have affected, beside the coherence of the clinical descriptions of dcd, the understanding of its frequent co-morbidities. This contribution describes in detail the relationships between dcd and (specific) learning disabilities: the differences found in literature are discussed in relation to the different definitions of both dcd and dsa, and to the new theoretical approaches to neurodevelopmental disorders, defined by their complexity, heterogeneity and multifactoriality, and then for the multidisciplinary approach required for their diagnosis and clinical management.

 

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Poster-TNPEE-Specialisti-eta-evolutiva

TNPEE specialisti dell'Età Evolutiva

Il crescente interesse per la formazione professionale e per orientamento formativo ed informativo-scientifico sollecita la divulgazione di quanto i TNPEE hanno prodotto e pubblicato nel corso degli anni sulla Rivista.

Nei mesi che ci separano dal 2019 valorizzeremo gli articoli che meglio si collegano alle celebrazioni internazionali o agli eventi scientifico-culturali legati al mondo della disabilità e dell’età evolutiva.


 Giornata Mondiale del Sordo

 

  

INTRODUZIONE

Per lo sviluppo di tutte le aree sensoriali del cervello è necessaria la presenza di un’adeguata stimolazione sensoriale durante tutto il periodo evolutivo, dalla nascita alla maturità dell’individuo (Piaget, 2000; Piaget e Inhelder, 1970). Ciò è stato documentato ampiamente in letteratura per il sistema visivo, dove è dimostrata la necessità di un’esperienza in età precoce per acquisire diverse proprietà della visione (Kanizsa, 1980).

Allo stesso modo nel sistema uditivo, durante i primi annidi vita, la coclea assume un ruolo fondamentale perché le aree uditive della corteccia cerebrale possano organizzarsi.

Normalmente la coclea già alla nascita raggiunge un livello massimale di prestazioni (Guyton e D’Arcangelo, 1996). Da questo momento, per un periodo di 4-8 anni, le informazioni in uscita dalla coclea, codificate in pattern di attivazione neurale, guideranno lo sviluppo delle strutture centrali così da permettere quei livelli funzionali che garantiscono una normale prestazione uditiva. Al contrario, se l’informazione in uscita dalla coclea è insufficiente o alterata, le strutture centrali non ricevono sufficienti stimoli per svilupparsi regolarmente: se alla nascita lo sviluppo funzionale della coclea è incompleto, anche le funzioni che dovrebbero essere assicurate dalla maturazione corticale sono incomplete (Prosser e Martini, 2013;Kandel, Schawartz e Jessel, 2003). La privazione della funzione uditiva, quindi, può provocare nel bambino problemi sul versante dell’apprendimento e dello sviluppo delle capacità cognitive, così come l’esperienza uditiva ha invece un effetto potente sullo sviluppo e sul mantenimento delle sinapsi nell’intero sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda lo sviluppo affettivo, la prima conseguenza è sulla percezione della voce materna: il bambino può usare altri sensi per il riconoscimento, tuttavia avrà la sensazione di una minore responsività materna; a ciò aggiungiamo l’ansia dei genitori per la scarsa reattività del bambino, che si aggrava con la scoperta della sordità (Ajuriaguerra, 1973). Tuttavia è verosimile che le madri adottino delle strategie alternative di comunicazione, né è escluso che il canale vocale non possa essere utilizzato sufficientemente. Una funzione uditiva integra è, inoltre, il requisito necessario per un normale sviluppo del linguaggio il quale viene determinato sin dai primi mesi di vita da una precisa e progressiva strutturazione del sistema uditivo nervoso centrale e dei sistemi di ideazione e articolazione fonatoria. È quindi importante stabilire l’entità e l’epoca di insorgenza del deficit, la predisposizione individuale per la comunicazione e la disponibilità alla comunicazione nell’ambiente (famiglia, scuola) al fine di valutarne il ritardo e la prognosi. Una presa in carico precoce e globale del bambino sarà utile per sostenere i genitori a costruire un contesto stimolante, ma non intrusivo, direttivo o iperprotettivo. Spesso i bambini sordi presentano impulsività, iperdipendenza, bassa autostima, aggressività quali effetti secondari alla deprivazione sensoriale e a un ambiente non facilitante. Di conseguenza la sordità infantile, come anche le forme più lievi di deprivazione uditiva, deve essere riconosciuta il più precocemente possibile, perché ogni intervento terapeutico-riabilitativo, per migliorare la percezione uditiva e favorire un’integrazione delle funzioni, è tanto più efficace quanto prima viene avviato (Prossere Martini, 2013).

Sulla base di quanto affermato sopra, è importante riflettere su come il terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva debba tenere in considerazione, nella presa in carico di un bambino con deficit uditivo, quanto e in che modo la deprivazione sonora abbia influenzato e influenzi lo sviluppo globale del paziente.

 

MATERIALI E METODI: CASO CLINICO

Martina è la quintogenita figlia nata in una famiglia con un livello socio-culturale medio-basso; le è stata diagnosticata, all’età di 3 anni circa, sordità neurosensoriale bilaterale di grado medio-grave; nel gentilizio non emerge alcuna familiarità per ipoacusia. Nell’anamnesi patologica prossima vengono riportate frequenti infezioni alle alte vie respiratorie e numerosi otiti fino al secondo anno di vita. Lo sviluppo motorio e linguistico viene riferito nella norma. Solo l’ingresso alla scuola d’infanzia evidenzia le difficoltà della bambina: le insegnanti si accorgono subito della povertà lessicale e dell’incompetenza morfo-sintattica e soprattutto della scarsa attendibilità delle risposte a stimoli sia verbali sia sonori, della mimica facciale spesso fissa in un sorriso stereotipato. Propongono ai genitori una valutazione approfondita e dalle indagini obiettive si evince un abbassamento d’udito bilaterale, pantonale, intorno ai 40dB. I genitori spaventati e un po’ increduli si rivolgono a diversi istituti di cura in tutt’Italia. Lentamente e faticosamente accettano la protesizzazione e un percorso terapeutico in «video-conferenza» (metodica largamente usata dalla struttura cui si erano rivolti, con la tacita speranza che anche Martina potesse un giorno, tramite un intervento chirurgico, riacquistare tutta la capacità uditiva). Effettuano, inoltre, una ricerca genetica per «Diagnosi molecolare di sordità congenita dovuta a mutazioni sul gene Connessina 26» con esito negativo per la presenza di mutazioni a livello delle regioni analizzate (A1555G nel DNA mitocondriale e IVS1+1G > A genomico). Nel frattempo le insegnanti chiedono aiuti all’équipe territoriale e la famiglia si rivolge al Servizio di Neuropsichiatria Infantile presente sul territorio che conferma la necessità di un intervento integrato neuropsicomotorio e logopedico per Martina, incontri con la coppia genitoriale, periodiche verifiche con l’istituzione scolastica e l’équipe di zona. Viene sostenuta l’ipotesi di un’assistente alla comunicazione fornita dalla provincia con la quale instaurare un rapporto di reciproca collaborazione tra famiglia, scuola e operatori. Quando inizia il percorso terapeutico all’età di 5 anni, Martina porta protesi retroauricolari binaurali che le consentono un’abilità uditiva soddisfacente: la discriminazione acustica è circa dell’80% delle prove effettuate. La comprensione grammaticale e morfosintattica del messaggio verbale appare, invece, compromessa. Martina comprende frasi nucleari semplici inserite nel contesto concreto. Tende ad aderire passivamente alle richieste, asserendo con il movimento della testa e sorridendo in modo stereotipato. I suoi occhi sono sempre alla ricerca di conferme e, a volte, indagano dubbiosi quelli dell’interlocutore. Nelle prove di ritmo riesce a riconoscere e riprodurre strutture ritmiche binarie, senza, tuttavia, cogliere la differenza tra piano/forte, vicino/lontano. Il quadro fonoarticolatorio risulta parzialmente completo: ancora assentile vibranti. La pronuncia è nasale e l’eloquio tachilalico è scarsamente intelligibile. Il linguaggio, sia recettivo sia espressivo, dimostra povertà lessicale (ritardo di 18 mesi circa) e gravi difficoltà nell’organizzazione morfosintattica (vi è l’uso di «parole chiave» per cui si riesce a intuire l’argomento, ad esempio: «pizzeria amici ieri»). Dalla valutazione neuropsicomotoria emerge a livello posturale un tronco rigido, esteso, con una lieve iperlordosi lombare;  i movimenti degli arti superiori, che accompagnano il cammino, sono prevalentemente a scatti, caratterizzati da una lieve abduzione rispetto all’asse corporeo, mentre i polsi son tenuti leggermente in estensione. La dominanza appare unilaterale destra con adeguate capacità manipolative e prattognosiche. A livello linguistico Martina ha un linguaggio intelligibile; il quadro fonetico, fono-articolatorio appare completo. L’eloquio tende a essere tachilalico. La struttura morfo-sintattica è deficitaria e Martina è in difficoltà nelle abilità di narrazione, soprattutto nell’organizzare verbalmente la sequenzialità degli eventi. La comprensione appare adeguata. È molto sensibile alle variazioni del vo-lume della voce della terapista: se si verbalizza una frase con una tonalità di voce troppo bassa, la bambina non sente ma, nonostante ciò, non chiede che le venga ripetutala frase; generalmente mantiene lo sguardo sull’interlocutore restando immobile, ma osservando attentamente ciò che le succede attorno, come se tentasse di raccogliere il significato di ciò che è stato detto con gli occhi, attraverso il movimento del corpo e la mimica dell’altro. Martina controlla visivamente e in modo costante posizione e movimenti delle persone presenti nella stanza, facendo anche delle domande nel momento in cui succede qualcosa di cui non è stata informata precedentemente oppure che non conosce (per esempio chiede spiegazioni sulle azioni che l’altro esegue se non le sono state riferite e, in diverse occasioni, chiede informazioni sulla fonte dei forti rumori che vengono percepiti nell’ambiente nuovo in cui sta facendo la valutazione). L’ambiente è investito in tutto il suo spazio, specialmente con il corpo e con lo sguardo: Martina si muove, corre continuamente nella stanza, si sofferma ad analizzarne alcuni particolari chiedendo chiarimenti. La bambina presenta un assetto posturale fisso, poco modulabile rispetto alle attività svolte, maggiormente evidenziabile durante le sedute di osservazione effettuate nella stanza di logopedia. Nella stanza di neuropsicomotricità, dove la bambina ha a disposizione uno spazio più ampio e la terapista costruisce un setting che permette e sollecita maggiori possibilità di movimento, Martina presenta un tono muscolare meno alto nonostante i suoi movimenti risultino talvolta a scatti, con difficoltà nella modulazione. Anche il tono della voce è particolarmente acuto e si mantiene tale pure durante l’eloquio; caratteristica della voce di Martina è la produzione prettamente «rinofonica» che rende difficoltosa la comprensione di ciò che la bambina verbalizza. Non si osservano difficoltà nell’accettare il contatto corporeo, passivo o attivo, anche se è necessario verbalizzare alla bambina le azioni e i movimenti successivi permettendole così un maggior controllo sulle dinamiche dell’ambiente circostante e, di conseguenza, favorendo un tono muscolare e una postura disposti alla ricezione di segnali di diversa natura senza irrigidimenti ulteriori. Durante le sedute, Martina mantiene un ritmo dell’a-zione veloce, ma è in grado di modularlo in relazione alle proposte della terapista oppure in base al proprio desiderio di rimanere sull’attività che predilige. Si decide di applicare il test TPV (Test di PercezioneVisiva; Hammill, Pearson e Voress, 2003) per valutare le capacità visuo-percettive di Martina. Il quoziente di percezione visiva generale è di 81 con una notevole caduta (62) nella percezione visiva a motricità ridotta. L’integrazione visuo-motoria corrisponde a un quoziente di 102. Si decide d’iniziare subito sia la terapia logopedica, per gli aspetti del linguaggio più compromessi come comprensione e ritmo, sia la terapia neuropsicomotoria perché vi sono tratti posturali e soprasegmentari del linguaggio che ne compromettono l’espressività comunicativa (ad esempio il tono posturale generale, il tono della voce, la rigidità della muscolatura fonoarticolatoria, con la conseguente povertà della mimica facciale) che interpretiamo come scarsa sintonia tra espressione emotiva, espressione corporea e linguaggio che sarebbero poco modificabili solo con l’intervento logopedico. Il lavoro terapeutico congiunto logopedico e neuropsicomotorio, condotto nella stanza di neuropsicomotricità da entrambe le terapiste, ha lo scopo di aiutare la bambina a utilizzare e a integrare la comunicazione non verbale alla comunicazione verbale in modo sintono, a percepire il proprio corpo, a modulare il tono muscolare e la postura, a dare un significato alla vocalità (la prosodia del linguaggio verbale) che è un marcatore immediato della nostra identità e che anche i bambini sordi percepiscono come vibrazioni nel corpo. La vocalità deve essere considerata, anche con i bambini sordi, come un aspetto sia dell’espressività del corpo sia del linguaggio stesso. La voce non è solo a servizio del contenuto dell’informazione verbale ma assume un’importanza rilevante, poiché l’intensità, il timbro e le sue modulazioni hanno un potente effetto comunicativo. Nell’interazione neuropsicomotoria con un bambino che ha gravi problemi uditivi è fondamentale saper giocare con la propria voce come si fa con i gesti e con il movimento. La voce è uno strumento che va a integrare e potenziare i significati espressivi corporei, così da offrire un valido aiuto al bambino sordo nella percezione della qualità e dell’intensità emotiva del messaggio.

 

VALUTAZIONE

Si utilizzano per la valutazione due test: il Protocollo di Valutazione «Metodo Spazio-Temporale Terzi» e il Test di Percezione Visiva(TPV).

  • Il Protocollo di Valutazione Terzi perché permette di valutare l’integrazione delle informazioni relative al proprio corpo e allo spazio esterno, vicino e lontano, la coerenza percettiva e le rappresentazioni mentali, ed è utile per indagare la capacità di Martina di integrare le informazioni spazio-temporali che giungono al cervello da tutti i canali percettivi, quelli degli organi di senso esterni (vista, udito, ecc.) ma anche quelli del canale propriocettivo, ossia quel canale che permette di elaborare le informazioni che arrivano dalle ossa, dai muscoli, dal vestibolo e dal movimento del corpo.
  • Il Test di Percezione Visiva perché richiede una considerevole capacità di percezione visiva e ci può fornire importanti informazioni sulle abilità percettive di Martina. La componente motoria può interferire sulla percezione visiva, quindi una valutazione complessiva di quest’ultima deve comprendere test che siano esclusivamente visuo-percettivi (richiedono il minimo delle abilità motorie) e attività che prevedano l’integrazione visuo-motoria. Il TPV è in grado di integrare tali capacità percettive visive nel bambino in condizioni di minore o maggiore coinvolgimento motorio, in modo che i risultati possano essere facilmente confrontati. I risultati possono essere così utili per documentare la presenza e il livello di deficit percettivi nel bambino; la presenza di punteggi sia per le abilità visuo-percettivea motricità ridotta sia per quelle visuo-motorie permette un raffronto fra le due classi di abilità che può contribuire in modo decisivo all’individuazione degli eventuali deficit.

Protocollo di Valutazione «Metodo Spazio-Temporale Terzi»

Il Protocollo di Valutazione «Metodo Spazio-Temporale Terzi» (Terzi, 1995) propone prove sullo schema corporeo:

1.ritmi

2.atteggiamenti

3.tocchie

e sullo spazio metrico:

4.distinzione qualitativa

  1. a) traslazioni rettilinee
  2. b) rotazioni
  3. c) traslazioni curvilinee.

Ogni esercizio si sviluppa in tre fasi:

  • Consegna: il soggetto è a occhi bendati e il suo corpo è lo strumento dell’operatore che induce il movimento.
  • Vissuto: ripetizione autonoma a occhi bendati del movimento prodotto durante la consegna.
  • Rappresentazione: viene chiesto al soggetto di utilizzare il corpo dell’operatore o un oggetto (tavolozza di plastilina e una squadretta che rappresenta il soggetto)  per simulare una persona e lo spazio esterno e di ripetere sull’operatore o sulla tavolozza di plastilina quanto sperimentato nel vissuto. Infine viene chiesto al soggetto di modellare, a occhi bendati, una sfera di plastilina. Sulle apposite schede di registrazione vengono riportate le modalità di esecuzione degli esercizi per quanto riguarda sia gli aspetti temporali sia quelli spaziali.

Test di percezione visiva (TPV)

Il Test di Percezione Visiva (Hammill, Pearson e Vo-ress, 2003) è una batteria di otto subtest che misura sia le abilità percettive visive (quattro subtest) sia quelle di integrazione visuo-motoria (in cui viene coinvolta anche la coordinazione motoria), anch’esse suddivise in altri quattro subtest. Ognuno degli otto subtest misura un tipo di abilità percettiva, facilmente classificabile in:

  • Subtest 1– Coordinazione occhio-mano
  • Subtest 2– Posizione nello spazio
  • Subtest 3– Copiatura/Riproduzione
  • Subtest 4– Figura-Sfondo
  • Subtest 5– Rapporti spaziali
  • Subtest 6– Completamento di figura
  • Subtest 7– Velocità visuo-motoria
  • Subtest 8– Costanza della forma.

La batteria è adatta a bambini tra i 4 e i 10 anni ed è la versione più recente di quella elaborata dalla Frostig (Frostig e Horne, 1964).

 

IL PERCORSO TERAPEUTICO

«I sordi sentono con gli occhi» (Sacks, 1990). Anche per Martina il vedere ha rappresentato una parte fonda-mentale del sentire. I suoi occhi esplorano, cercano, indagano, si fissano sulla bocca di chi le parla; ogni movimento fonoarticolatorio diventa suono solo dopo essere stato visto. Senza occhi Martina non sente (Gregory, 1966). Nel cercare un compenso visivo per vicariare il deficit acustico la piccola «si adatta» all’ambiente diventando ipercontrollante, assumendo una postura rigida che non permette agli stimoli sensoriali e cinestesici di essere percepiti e adottando un’espressione mimica del viso fissa e poco modulata in relazione a ciò che succede attorno a lei. Eppure, la funzione visiva che Martina usa in ogni istante, così importante e rassicurante per lei, non ha raggiunto la complessità del guardare (Kanizsa, 1980). Allo stesso modo l’udito, seppur in compenso protesico, non permette la funzione complessa dell’ascolto senza il supporto della vista. Partendo da queste considerazioni, è stato impostato un percorso terapeutico che, paradossalmente, per alcune esperienze andasse a inibire la vista per integrare maggiormente la funzione uditiva o meglio, per poter integrare vista e udito, guardare e ascoltare, e contemporaneamente utilizzasse il metodo Verbo-Tonale (Zatelli, 1980), che prende in considerazione la comunicazione interumana come momento centrale dello sviluppo armonico della personalità. La rigidità e la poca capacità di modulazione sia del tono muscolare e della postura, sia della voce, comportano una difficoltà nella percezione generale degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno (oltre che di quelli interni) e nella loro discriminazione rendono problematica la comunicazione con l’altro. I presupposti su cui si fonda l’impostazione di tale metodo considerano la persona come una «unità» in grado di comunicare con tutta se stessa. Il metodo Verbo-Tonale (Gladic, 1980) e quello dei ritmi musicali (Drezancic, 1988), che da esso ha origine, considerano la percezione acustica come il principale elemento di comprensione e acquisizione del linguaggio, e affermano che il bambino sordo può parlare, perché può sentire tanto che nell’accezione ortodossa questo metodo esclude perfino un allenamento specifico alla lettura labiale. Partendo dalla considerazione, riferibile alle teorie della Gestalt (Metzger, 1984), che il messaggio verbale contenga delle informazioni ridondanti, delle quali solo alcune sono essenziali, si ipotizza che il cervello umano imparerebbe a percepire acusticamente e a strutturare solo gli stimoli ottimali. Secondo tale ipotesi, tutto il corpo è predisposto a ricevere e a trasmettere messaggi, in base a una ricettività che può essere affinata anche nei bambini sordi. Vengono pertanto offerti al soggetto sordo in maniera graduale dei modelli «ottimali», in cui «sono sottolineate le caratteristiche più importanti per la percezione acustica» (Volterra, Beronesi e Massoni, 1990,pp. 273-308). Il sistema verbo-tonale agisce primariamente sulle basi della percezione e definisce:

  • l’intensità in rapporto alla potenza acustica;
  • la tensione come risultato di gruppi di muscoli in op-posizione agonistica e antagonistica nella produzione dei suoni del parlato;
  • la pausa una struttura attiva implicata nell’intonazione, nel ritmo e nella tensione;
  • il tempo un fattore strutturale.

Tutto il corpo si comporta come ricettore e trasmettitore. Si individuano, sulla base di questa impostazione metodologica, obiettivi a breve medio e lungo termine che verranno verificati a 9 mesi di distanza.

 

OBIETTIVI E METODOLOGIA RIABILITATIVA

Obiettivi a breve termine:

  • percezione del suono: attraverso l’utilizzo degli strumenti, promuovere il movimento in modo che lo «strumento corpo» possa essere associato a ciò che Martina riesce a sentire tramite la funzione uditiva;
  • modulazione del tono muscolare: promuovendo situazioni contenitive e facilmente controllabili dalla bambina, favorire la percezione del proprio corpo attraverso il contatto con l’altro o con gli oggetti. Attraverso la tecnica del rilassamento aiutare Martina a percepire stimoli esterni con tutto il corpo;
  • modulazione del tono vocale: con il supporto di strumenti musicali, favorire la percezione del suono che vibra all’interno del proprio corpo e che può essere riprodotto vocalmente; incentivare tale modalità al fine di percepire la diversità tra acuto/grave utilizzando la voce: da nasale diventa acuta, quindi diventa profonda; tramite la possibile correlazione tra postura corporea e altezza del suono, favorire la modulazione vocale della bambina;
  • modulazione della mimica del volto: rimandare attraverso descrizioni verbali e attraverso la mimica del volto della terapista, che funge da specchio a Martina, le espressioni utilizzate dalla bambina per favorire il rilassamento della muscolatura orofacciale soprattutto durante la comunicazione verbale.

 Obiettivi a medio-lungo termine:

  • integrazione della vista e dell’udito: utilizzando il movimento del corpo, favorire un maggior investi-mento uditivo inibendo quello visivo per dar modo, così, a Martina di poter «ascoltare» e «guardare», ciò che normalmente vede in modo controllante con gli occhi;
  • investimento corporeo nello spazio-tempo: sostenuta nella difficile attività del sentire con le orecchie i suoni degli strumenti musicali, favorire l’integrazione spazio-temporale attraverso il movimento nella stanza;–
  • favorire l’«ascoltare»: promuovere la rappresentazione della percezione uditiva invitando la bambina a ripetere con la voce i suoni prodotti dagli strumenti musicali, ascoltando il proprio corpo e il movimento che nasce seguendo i diversi ritmi e i diversi suoni prodotti;
  • promuovere e arricchire la rappresentazione: dalla sensazione, suscitata dall’utilizzo degli strumenti musicali, ripercorrere la tappa della percezione per raggiungere poi una più adeguata rappresentazione, attraverso il movimento, del proprio corpo.

Prima tappa. Sentire: l’importanza degli occhi.

Inizialmente è stata proposta a Martina un’attività sulla percezione sonora attraverso l’utilizzo di strumenti musicali quali tamburo, sonagli, maracas e piatti. Cercando, in questa fase, di inibire l’uso dello sguardo o escludendo dalla vista lo strumento stesso o abbinando un movimento al suono, si è cercato di spostare l’attenzione dal vedere al muoversi, imparando ad ascoltare il suono per riconoscere il ritmo. Martina ha così potuto sperimentare il riconoscimento uditivo e la conseguente rappresentazione corporea e grafica degli strumenti musicali. Questa prima tappa è risultata faticosa per Martina che ogni volta cercava con lo sguardo il movimento della terapista per avere conferme. Come fare? L’applicazione del metodo verbo-tonale, secondo cui il corpo si comporta come un recettore e un trasmettitore di frequenze, ha permesso di spostare l’attenzione dalle funzioni del sentire e del vedere al movimento: il corpo e il movimento rappresentano quello che io sento.

Seconda tappa. Ascoltare: l’importanza del corpo

Martina stessa, dopo aver «sentito con le orecchie», ha investito di significato il ritmo, il timbro, l’intensità del suono: al movimento associa la voce. I tratti vocali si modificano, a seconda dello strumento, in bassi/acuti, lenti/veloci e, viceversa, il movimento diventa fluido o rigido, oppure ancora a scatti modellandosi progressivamente al ritmo e all’altezza dello strumento. Lo sguardo perde via via il potere di controllo che ha finora esercitato: Martina può utilizzare il corpo per «ascoltare» le vibrazioni e trasformare la sensazione in percezione.

Terza tappa. Rappresentare: l’importanza della mente

Successivamente il suono percepito diventa immagine mentale, carica di significato simbolico:

  • il tamburo si trasforma in un gigante;
  • i piatti sono un fantasma;
  • i sonagli diventano il sole;
  • le maracas ricordano il temporale.

Tali rappresentazioni mostrano l’evoluzione neuropsicomotoria del percorso realizzato. Con queste immagini, sostenuta e guidata dalle terapiste e soprattutto grazie al suo adeguato livello cognitivo, Martina è riuscita a iniziare una storia: la sua mente si è staccata per qualche minuto dalla concretezza e ha potuto sperimentare un’esperienza immaginativa riuscendo a far sentire al fantasma l’arrivo del gigante attraverso il forte rumore dei passi. Questo esempio chiarisce il livello raggiunto dalla bambina, la sua possibilità di rappresentare, ma soprattutto la sua capacità di utilizzare adeguatamente la funzione uditiva. Anche graficamente, utilizzando i colori a dita, il movimento e il suono vengono trasformati in segni che riempiono i fogli di significato:

  • i cerchi sono il suono del tamburo;
  • i segni lasciati con le mani in ogni direzione indicano il movimento del fantasma ricordato dal suono dei piatti;
  • le spirali rappresentano i sonagli;
  • le gocce d’acqua del temporale sono disegnate con tanti puntini fatti con le dita.

La percezione diventa così rappresentazione.

 

DISCUSSIONE DEI RISULTATI

All’inizio e al termine del percorso terapeutico, dopo circa 9 mesi di sedute a frequenza settimanale, viene effettuato il Protocollo di Valutazione Terzi. È possibile constatare che, dopo il trattamento terapeutico-riabilitativo, mirato all’utilizzo della funzione uditiva, inibendo quella visiva, e alla percezione del proprio corpo, Martina ha ottenuto un netto miglioramento globale eseguendo correttamente 10 esercizi rispetto ai 5 nella prima valutazione. Visionando i risultati raccolti nella griglia riassuntiva, si evince che la bambina ha migliorato le sue performance globali riducendo gli errori da 28 a 9. In tutte le quattro aree considerate, si evidenzia un progresso sulla percezione del proprio corpo (tocchi), del proprio corpo nello spazio, nella capacità di controllare la propria postura e nel ritmo (tabella 1).

TABELLA 1 - Valutazione con griglia Terzi Pre-Post trattamento

Subtotali

Tot. Errori Tempo 0

Tot. Errori Tempo 1

Ritmi

13

4

Atteggiamenti

4

0

Tocchi

5

1

Spazio metrico

6

4

Totale errori

28

9

 

 

CONCLUSIONI

Il deficit uditivo di Martina, nonostante la protesizzazione, ha portato all’instaurarsi di particolari atteggiamenti posturali fissi e poco modulati in concomitanza a una mimica del volto rigida a livello oro-facciale che rende poco espressiva la comunicazione verbale e non verbale. Per favorire una migliore possibilità di sentire il proprio corpo e di relazionarsi con l’ambiente esterno si è scelto di inibire il canale visivo per permettere a Martina di utilizzare la funzione uditiva deficitaria chiedendo alla bambina di sentire con le orecchie, non più solo con gli occhi, per poter giungere ad ascoltare, potersi muovere nello spazio e rappresentare le percezioni avvertite grazie soprattutto alla modulazione del tono e della postura. Dallo studio dei dati raccolti è possibile osservare, in particolar modo, un netto miglioramento in relazione alla modulazione del tono muscolare e alla postura che ha permesso alla bambina di percepire maggiormente gli stimoli provenienti dall’esterno, con la possibilità di affidarsi a ciò che sente, integrando così l’esperienza del vedere. Inibendo la funzione della vista, che cercava di vedere e sentire allo stesso tempo, è stato possibile portare Martina ad «ascoltare» attraverso la funzione uditiva e a percepire il proprio corpo nello spazio e nel tempo. La scelta di integrare l’intervento logopedico e quello neuropsicomotorio, in un percorso terapeutico che prevedesse la presa in carico globale della bambina, ha permesso un’integrazione delle funzioni e favorito uno sviluppo armonico. Ci sembra di poter asserire, interpretando i risultati, che quando l’équipe riabilitativa si sa adeguare e adattare attivamente ai bisogni del bambino, non fraziona gli interventi e si muove con modalità multidisciplinari integrate, permette lo sviluppo e la possibilità di essere e di esistere per il minore.

 

ABSTRACT

The deaf or hearing-impaired child must accomplish «hearing/listening» beginning with «liste-ning/feeling», even if deprived of the multidirected auditory sensations, in order to learn verbal language that will eventually be useful forintegrating cognitive and emotional/social abilities. The experience described is an integratedspeech and neuropsychomotor therapy that accompanies a five year old girl in discovering how to discover reality not only with her eyes, as many deaf children do, but to integrate all sensation sand emotions offered by her body if she just listens to it. The therapeutic process includes some visual deprivation experiences for this reason

 

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