di Roberta Penge e Maria Letizia Piredda - Neuropsichiatra infantile, TNPEE
Dipartimento di Neuropsichiatria infantile, Università di Roma Sapienza
Le diverse definizioni dei disturbi del movimento (disfunzione cerebrale Minima, disprassia evolutiva e disturbo della coordinazione Motoria – Developmental Coordination Disorder/DCD), che si sono succedute nel tempo a partire dagli anni ’70, corrispondono a diversi approcci teorici (ma anche diagnostici) a questi disturbi e hanno condizionato, tra l’altro, la comprensione delle sue frequenti comorbidità.
Questo contributo descrive in modo particolare le relazioni tra dcd e disturbi (specifici) di apprendimento (dsa): la disomogeneità dei dati presenti in letteratura viene discussa proprio in relazione alle diverse definizioni del disturbo di movimento e di dsa, nonché ai nuovi approcci teorici ai disturbi neuroevolutivi, definiti dalla loro complessità, eterogeneità e multifattorialità e, quindi, dalla multidisciplinarità necessaria per la diagnosi e la presa in carico.
Negli ultimi anni la ricerca e la riflessione clinica sui disturbi dello sviluppo, e in particolare su quelli settoriali, hanno subito un’evoluzione significativa. Dalla fase in cui era necessario definire la loro esistenza e differenziarli dai disturbi più gravi e/o a più ampia compromissione, si è passati a uno studio più attento della loro variabilità interna della comorbilità. Dalla fase in cui si cercavano cause uniche per singoli disturbi, si è passati a modelli patogenetici multicomponenziali e multicausali. È all’interno di questa cornice che affronteremo il rapporto tra DSA e DCD.
I DCD: DALLA DISFUNZIONE NEUROLOGICA MINORE PASSANDO PER LA DISPRASSIA
La storia dei disturbi dello sviluppo motorio inizia nel primo Novecento, quando i termini «Danno Cerebrale Minimo» prima e «Disfunzione Neurologica Minore» poi vengono utilizzati per descrivere i bambini che presentano difficoltà nel movimento, in assenza di Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) o di Disturbi Neuromuscolari. L’ideaimplicita nella prima definizione è che si tratti di disturbi simili alle PCI, conseguenza
di «danni» cerebrali di entità inferiore, ma comunque interessanti le aree corticali motorie. L’introduzione del termine «disfunzione» inizia gradualmente a spostare l’accento dalla struttura al suo funzionamento, dalla singola area alla rete tra aree e connessioni, al disturbo del tono muscolare e/o dell’utilizzazione coordinata della motilità dei due emilati.
Le descrizioni di bambini con un lieve deficit di coordinazione e goffagine motoria, che sono presenti nella letteratura fin dall’inizio del Novecento, negli anni ’60 e ’70 subiscono una serie di modificazioni terminologiche, che portano con sé anche un cambiamento della visione del disturbo.
Si inizia a fare riferimento alla «goffaggine congenita» (per una rassegna vedi Vaivre-Douret, 2007). In Italia, Rosano (1992) descrive due forme di difficoltà motoria: la Goffaggine, caratterizzata dalla presenza di paratonia o ipotonia diffusa associata a movimenti poco fluidi, e la Maldestrezza, caratterizzata da scarsa associazione motoria tra gli emilati e tra i cingoli con tono irregolarmente distribuito. Nello stesso lavoro viene descritto anche il quadro di Instabilità psicomotoria come un disturbo dell’integrazione percettivo-motoria associato a ipotonia e paratonie.
Nel 1969 de Ajuriaguerra descrive la «Disprassia Infantile» con riferimento all’aprassia costruttiva degli adulti e la definisce come un disturbo dell’integrazione corporea che interferisce con l’organizzazione spaziale.
Altri autori, che in un primo tempo hanno utilizzato il termine «aprassia dello sviluppo», più tardi hanno preferito usare il termine «Disprassia». Il termine «Disprassia Evolutiva» o «Disprassia dello Sviluppo» è stato applicato ai bambini che rientrano nella categoria di soggetti descritti come «goffi o maldestri». La Disprassia viene descritta come un disturbo dello sviluppo di natura costituzionale, caratterizzato da una difficoltà nell’apprendimento o nell’espletamento dei compiti motori non abituali, generalmente identificata in età infantile. Come in altri settori il termine evolutivo viene utilizzato come «contrasto» con la forma «acquisita» dell’adulto, che implica la perdita di una competenza precedentemente controllata.
Per i primi autori, infatti, la forma evolutiva si differenzia da quella dell’adulto in quanto risulta caratterizzata da difficoltà nel compiere attività motorie complesse (compatibili con l’età), in assenza di difficoltà nella pianificazione delle stesse. Per altri autori anche in età evolutiva possono essere presenti diverse forme di Disprassia che coinvolgono pure gli aspetti ideativi e di pianificazione motoria.
In ogni caso l’uso del termine «Disprassia» sposta l’attenzione dagli aspetti esecutivi del movimento (tono, forza, fluidità) alla sua efficacia e finalità (scopo e adattabilità), e dal singolo atto motorio alla sequenza dei movimenti necessari per raggiungere uno scopo.
Nonostante i diversi tentativi di descrivere la Disprassia Evolutiva in modo oggettivo e dettagliato, in termini clinici questa è rimasta una diagnosi poco definita e soggetta a numerose controversie. In particolare non si è raggiunto un accordo sulla possibilità di definire la Disprassia come un disturbo a sé stante, o come un «sintomo» presente all’interno di altri disturbi (dal Ritardo Mentale, ai Disturbi Generalizzati dello Sviluppo, agli altri Disturbi del Movimento).
Nel 1987 il DSM-III-R (American Psychiatric Association, 1987) e poi nel 1994 il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1996) introducono il termine «Disturbo della Coordinazione Motoria» (Developmental Coordination Disorder/DCD) per identificare i bambini con una difficoltà significativa nello sviluppo della coordinazione motoria, che interferisce significativamente con gli apprendimenti scolastici o con le attività di vita quotidiana, in assenza di disturbi neurologici maggiori o di Ritardo Mentale. La prevalenza del disturbo nella fascia d’età 6-15 anni è stimata intorno al 6% ed esso tende a permanere in età adulta, non solo come persistenza di difficoltà visuo-motorie, ma anche come disturbo socio-emozionale.
A livello osservativo i bambini con DCD vengono descritti come goffi, con difficoltà posturali, confusione nell’uso delle due mani, difficoltà nel prendere o tirare una palla, nell’impugnare correttamente una matita, nella lettura e nella scrittura. I soggetti con DCD presentano difficoltà anche in compiti visivi che non includono componenti motorie, come le discriminazioni di lunghezza o il completamento di Gestalt, con difficoltà prevalenti nel giudizio di grandezze e nel localizzare la posizione degli oggetti nello spazio. Il rapporto tra competenze percettive e competenze motorie, fin dall’inizio oggetto di un ampio dibattito, viene nuovamente analizzato all’interno della definizione di DCD. Da un lato, infatti, appare sempre più chiaro che nel corso dello sviluppo le competenze visuo-percettive e il controllo motorio interagiscono fortemente, dall’altro è stato dimostrato da vari autori come nei soggetti con DCD la presenza di difficoltà visuopercettive possa essere non presente o comunque poco determinante nella genesi del fallimento delle attività motorie o visuo-motorie.
L’introduzione di una nuova e univoca definizione apre un nuovo e attivo dibattito, in cui il diverso uso terminologico sembra dare luogo a posizioni di partenza differenti, ma con approcci che si vanno man mano unificando. Tra il 1980 e il 2000, su 176 lavori pubblicati il 41% utilizza il termine «Goffagine», il 26% il termine «DCD», il 18% termini riferiti alla compromissione di competenze sensori-motorie, il 10% il termine «MBD» o «MDN» e solo il 6% il termine «Disprassia». Il termine «DCD» viene utilizzato in misura sempre crescente a partire dal 1994 (Geuze et al., 2001).
Nonostante questa graduale uniformizzazione della terminologia utilizzata, la letteratura sui DCD continua a presentare una serie di limitazioni che si ripercuotono sulla comprensione del disturbo e sulla sua gestione clinica. Nella rassegna sopra citata (Geuze et al., 2001) si sottolinea come in molti lavori (che facciano riferimento o meno al DSM) sia i criteri di inclusione ed esclusione (criterio A) che l’impatto negativo nel funzionamento adattivo (criterio B) appaiono spesso presunti, oppure descritti in termini qualitativi e non misurati in modo oggettivo.
L’utilizzo di una definizione condivisa non ha quindi risolto del tutto i problemi diagnostici relativi al DCD infatti, accanto ai limiti metodologici sopra brevemente descritti, emerge in modo sempre più chiaro come alcune caratteristiche intrinseche al disturbo (e comuni a tutti i disturbi di sviluppo) contribuiscano significativamente a questa problematicità.
Un primo elemento è la mancanza di omogeneità: anche i lavori che utilizzano il termine «DCD» (e un’applicazione rigorosa dei criteri diagnostici del DSM) descrivono gruppi di soggetti fortemente disomogenei per ogni area esplorata o compito utilizzato e solo una parte dei soggetti con DCD (mediamente il 50%) mostra una caduta significativa.
Ad esempio, un lavoro riporta le percentuali di caduta in un’ampia serie di compiti (test neuropsicologici strutturati, esame neurologico, attività motorie spontanee, ecc.) somministrati a un campione di 43 bambini di età compresa tra 5 e 15 anni (81% di sesso maschile), selezionati da una popolazione clinica ambulatoriale, utilizzando i criteri diagnostici del DSM-IV-R (American Psychiatric Association, 2000).
A parte l’integrazione visuo-motoria, la strutturazione visuo-spaziale (Figura di Rey-copia) e l’abilità di scrittura manuale (non la disgrafia), che appaiono compromesse in più dell’85% dei soggetti, la percentuale di cadute rilevate, anche in compiti teoricamente rilevanti per la diagnosi di DCD, appare oscillare tra il 40% e il 60% dei soggetti.
Diversi autori hanno affrontato il tema della disomogeneità del DCD tentando di individuare sottotipi più omogenei di disturbo. Molto recentemente, utilizzando due diverse metodiche statistiche (analisi fattoriale e cluster analysis) su 43 bambini con diagnosi di DCD, Vaivre-Douret et al. (2011) ha individuato l’esistenza di tre sottotipi (ideomotorio, visuo-spaziale/costruttivo e misto), più un possibile quarto sottogruppo (visuo-spaziale puro). Questi sottotipi differirebbero non solo per le caratteristiche cliniche (funzioni primariamente compromesse), ma anche per comorbidità e per prognosi.
In precedenza altri tentativi avevano condotto a risultati molto diversi tra loro. In una rassegna di qualche anno fa, Visser (2003) ha suggerito la possibile esistenza di un sottotipo di DCD caratterizzato da una compromissione ampia delle competenze sensorio-motorie (una sorta di disfunzione percettiva generalizzata), che emerge in tutti i lavori indipendentemente dalle aree indagate e dagli strumenti utilizzati, mentre gli altri sottotipi individuati sembrano dipendere in modo significativo dai criteri di inclusione utilizzati, dalle ipotesi sulle disfunzioni presenti e dalla scelta degli strumenti di misura.
Questa variabilità si ripercuote sulla scelta degli strumenti e dei protocolli diagnostici per il DCD. Al momento attuale, infatti, non esiste nessuno strumento che esplori tutte le funzioni e le abilità potenzialmente coinvolte nel Disturbo di Coordinazione Motoria. Un confronto tra i diversi strumenti disponibili mostra come ciascuno di essi individui come compromessi soggetti solo parzialmente sovrapponibili e come quindi nessuno di essi possa essere considerato il gold standard per la diagnosi di DCD.
Anche la Movement Assessment Battery for Children (Henderson e Sugden, 1992) al momento la prova più utilizzata nella letteratura internazionale e quindi anche in ambito clinico, presenta una serie di limiti sia psicometrici (test-retest e inter-rater reliability, factorial and predicitve validity, internal consistency, ecc.), sia dovuti al tipo di item in essa contenuti (che esplorano solo alcune delle caratteristiche presenti nella definizione di DCD), sia rispetto alle modalità di somministrazione (ad esempio, possibilità di aiuto, istruzioni, allenamento).
Queste caratteristiche fanno sì che l’ABC, utilizzato da solo, individui correttamente soltanto la metà dei soggetti con un DCD.
Se sul piano della ricerca appare necessario definire meglio criteri e strumenti diagnostici, sul piano clinico ci sembra indispensabile utilizzare più di uno strumento diagnostico e integrare i dati misurati con informazioni descrittive fornite dai genitori, dal soggetto e/o dall’osservazione diretta. Questa difficoltà nell’individuazione ei criteri diagnostici del DCD non deve, però, far perdere di vista il fatto che si tratta di un disturbo rilevante sul piano clinico. Alla sua alta prevalenza in età evolutiva, che ne fa uno dei disturbi più frequenti, si aggiungono l’ampiezza delle aree di funzionamento adattivo compromesse e una prognosi sociale e psicopatologica non sempre favorevole.
Dati recenti, che utilizzano i costrutti e gli strumenti proposti dall’ICF (World Health Organization, 2001), mostrano una correlazione significativa tra presenza e gravità del DCD e restrizione dell’Attività e della Partecipazione, non solo in ambito scolastico, ma anche nelle attività pomeridiane strutturate o spontanee. I soggetti con DCD, pur riferendo lo stesso livello di piacere rispetto a queste attività, percepiscono chiaramente la loro minor capacità rispetto ai coetanei. Questa consapevolezza, insieme alla sperimentazione dell’insuccesso (soprattutto in un campo come quello sportivo, dove vincere e perdere hanno connotazioni ben definite), fa sì che essi tendano a partecipare con minor frequenza e variabilità alle attività motorie, scegliendo quelle più tranquille e più isolate socialmente.
Sul piano emotivo è un dato sufficientemente accettato che i soggetti con DCD presentano frequentemente sentimenti di scarsa autostima, livelli più alti di ansia e di lamentele relative a disturbi somatici (mal di pancia, mal di testa, ecc.). Gli studi longitudinali inoltre mostrano come, nell’adolescenza e nell’età adulta, questi soggetti possono essere caratterizzati dal permanere delle difficoltà di organizzazione motoria (e del disadattamento ad essa secondario) e apparire come più immaturi, passivi e socialmente isolati.
DCD E COMORBILITA'
Gli studi sulla sottotipizzazione del DCD si sono rapidamente incontrati con gli studi sulla comorbidità tra i disturbi di sviluppo che si sono moltiplicati negli ultimianni. Il sempre più frequente rilevamento di percentuali di associazione significativa tra i diversi disturbi di sviluppo ha naturalmente portato a rileggere in una chiave diversa sia il concetto di comorbidità che quello di sottotipo.
In un’interazione dinamica e circolare, una diversa aggregazione delle concause dei disturbi di sviluppo potrebbe portare a una diversa fenomenologia dei disturbi, che si distribuirebbero lungo un continuum che vede a un estremo il disturbo/sottotipo «puro» e all’altro quelle situazioni di comorbidità plurima (DSA, DCD, ADHD, DSL), che sembrano mettere in discussione il concetto stesso di disturbo settoriale.
Anche la variabilità delle alterazioni rilevate in questi disturbi con le moderne tecniche di neuroimmagini contribuisce a far ripensare il concetto di relazione causale tra alterazione cerebrale e alterazione della funzione, che di fatto ha costituito per lungo tempo la base teorica per la definizione di un disturbo. Alcune ipotesi esplicative dell’alta comorbidità in età evolutiva fanno quindi riferimento ai meccanismi causali/patogenetici del disturbo.
In una sorta di rilettura del concetto di disfunzione neurologica minore alcuni autori utilizzano il concetto di «sviluppo cerebrale atipico» (Atypical Brain Development/ABD) quale elemento patogenetico comune, ad esempio all’ADHD, al DCD e ai DSA, con una variabilità clinica che dipende dall’«espressività» della disfunzione in termini di estensione e localizzazione della disfunzione neurologica. Si tratta per alcuni versi di una spiegazione parziale e generica, che non esclude la possibilità che i casi «puri» di ciascun disturbo presentino, invece, disfunzioni cerebrali più definite e circoscritte.
Molti lavori hanno studiato la comorbidità tra DCD e Disturbi Specifici di Linguaggio, sottolineando che una significativa percentuale di soggetti con diagnosi di DSL presenta difficoltà di organizzazione motoria compatibile con una diagnosi di DCD; le caratteristiche cliniche di questi soggetti si discosterebbero e si differenzierebbero da quelle del DSL puro e del DCD puro.
Altrettanto interessante sul piano del ragionamento sulla comorbidità appare la descrizione del DAMP (Disturbo dell’Attenzione, del Controllo Motorio e della Percezione). All’inizio degli anni ’80 viene descritto un gruppo di bambini con diagnosi di Minimal Brain Dysfunction/MBD, che mostrano alterazioni neuroevolutive indicative di una sindrome da Goffaggine Motoria. Negli anni successivi si conferma una stretta associazione tra difficoltà attentive, percettive e del controllo motorio che non comprende soggetti con dis di linguaggio o di apprendimento del linguaggio scritto, ma che conduce a difficoltà scolastiche significative. I segni neurologici rilevati in questi soggetti fanno pensare a una disfunzione cerebellare o dei gangli della base.
Molti altri autori segnalano la frequente presenza di problemi di organizzazione motoria nei soggetti con ADHD, che arriverebbe fino al 50% dei casi.
DCD E DA
Più complessa appare invece la relazione tra DCD e Disturbi di Apprendimento, poiché in questo caso alle difficoltà descrittive del DCD si aggiungono quelle relative al DSA. Nella letteratura di lingua inglese, infatti, i termini Dyslexia, Reading Disability e Learning Disability vengono utilizzati a volte come sinonimi per descrivere disturbi dello sviluppo delle competenze scolastiche in assenza di altre compromissioni patologiche, mentre in altri casi gli ultimi due vengono usati per descrivere difficoltà di apprendimento all’interno di disturbi più ampi (ad esempio il Funzionamento Intellettivo Limite, il Ritardo Mentale Lieve o forme lievi di Disturbi Generalizzati dello Sviluppo) Questa difficoltà ha fatto sì che le due categorie diagnostiche abbiano viaggiato in «opposizione» per alcuni anni, anche se, parallelamente alle descrizioni della Disprassia Evolutiva, era comparsa in letteratura la descrizione di una «sindrome» che ne condivide alcune caratteristiche e che sottolinea la frequente compresenza di difficoltà «motorie» con difficoltà in altri ambiti di sviluppo.
Il Disturbo di Apprendimento Non Verbale viene descritto per la prima volta da Rourke nel 1989, partendo dalle particolari caratteristiche di alcuni soggetti con Disturbo Specifico di Apprendimento, quali deficit nelle competenze motorie/psicomotorie, tattili/percettive, visuo-spaziali, di problem solving e particolari difficoltà con l’aritmetica. Questi stessi soggetti sembrano presentare competenze intatte (o comunque meglio organizzate) nell’area linguistica, nello spelling e nella lettura di parole isolate. Partendo da una descrizione inzialmente qualitativa, vengono man mano definiti in modo più operativo le aree deficitarie e gli strumenti diagnostici necessari.
Il DSA Non Verbale viene descritto attraverso il confronto tra deficit e risorse, organizzati su tre livelli causali, e tra le conseguenze, accademiche e sociali, secondarie. Tali caratteristiche possono in parte variare con l’età. A livello primario sono presenti deficit nella percezione tattile e visiva, nella psicomotricità complessa e nei confronti di materiale nuovo, mentre vengono descritte competenze adeguate nella percezione uditiva, nei movimenti semplici e nei confronti di materiale iperappreso.
Questi problemi nucleari generano difficoltà nell’attenzione tattile e visiva e nelle condotte esplorative, mentre l’attenzione uditiva e quella verbale appaiono indenni. Come ulteriore conseguenza la memoria tattile e visiva, la formazione dei concetti e il problem solving appaiono compromessi e si determinano problemi anche nell’area verbale con difficoltà nelle prassie orali, nel controllo della prosodia, nella presenza di errori semantici superiore a quella degli errori fonologici, in un deficit nella pragmatica e nell’uso funzionale del linguaggio; adeguate sono invece la memoria uditiva e quella verbale e, in ambito liguistico, le abilità fonologiche, la ricezione e ripetizione verbale, l’immagazzinamento e le associazioni tra materiali verbali.
Come dimensioni dipendenti Rourke individua l’area accademica (con punti di forza nelle abilità grafomotorie tardive, nella decodifica di parole, nello spelling e nella memoria verbale, con punti di debolezza nei primi apprendimenti grafomotori, nella comprensione della lettura, nell’aritmetica, nella matematica e nelle scienze).
Sul piano dell’adattamento sociale, vengono invece descritti solo i deficit, presenti nell’adattamento alle novità, nelle competenze sociali, nella stabilità emotiva e nel livello di attività.
L’utilizzo prevalente degli item delle Scale Wechsler e l’attenzione prioritaria attribuita ai test visuopercettivi (che individuano correttamente il 90% dei soggetti con DSA Non Verbale) rendono difficile confrontare con certezza la descrizione di questa popolazione con quella dei DCD, anche se la descrizione appare molto suggestiva nel senso di una, almeno parziale, sovrapposizione.
Negli anni più recenti quasi tutte le ricerche sui DCD hanno evidenziato difficoltà nell’apprendimento e nel rendimento scolastico, a volte in modo generico, a volte invece riportando (Vaivre-Douret et al., 2011; Dewey et al., 2002) la presenza di cadute significative in aree e test relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo.
Una possibile via per comprendere questa coesistenza potrebbe venire dalle ipotesi che spiegano il DSA come un «disturbo da automatizzazione». Partendo dall constatazione della presenza di difficoltà di alterazioni motorie e di alterazioni del tono muscolare in un gruppo di soggetti con DSA e dalla diminuzione di efficienza in un compito motorio semplice e automatico, se svolto contemporaneamente a un compito di altro tipo (quale, ad esempio, il contare all’indietro), questi autori hanno ipotizzato che, alla base delle difficoltà di lettura, ci sia una difficoltà nell’automatizzazione di molti compiti e attività. Questa alterazione viene fatta risalire a un’alterazione del cervelletto (che ha un ruolo nell’apprendimento e nel controllo di molte abilità) e sarebbe dimostrata, oltre che da dati di neuroimmagini, dalla presenza di segni neurologici «minori» quali la dismetria, l’adiadococinesia, la presenza di movimenti a specchio. Questa ipotesi, che contrasta ampiamente con l’ipotesi fonologica più accreditata per la genesi di un disturbo di lettura, non è al momento accettata quale modello esplicativo dei DSA in toto. Non esistono altresì studi che abbiano indagato la presenza di difficoltà di automatizzazione nei soggetti con DCD. Potrebbe tuttavia essere una strada percorribile per spiegare la comorbidità tra DCD e DSA.
Partendo da un ambito più clinico-diagnostico, la comorbidità tra DCD e DSA è stata studiata da più autori.
Dewey (Dewey et al., 2002), confrontando soggetti con DCD e soggetti con sviluppo tipico, evidenzia la presenza di differenze statisticamente significative in un’ampia serie di prove di attenzione, apprendimento e adattamento sociale. Per ciò che concerne l’apprendimento, i soggetti con DCD presentano cadute più significative nella comprensione della lettura, ma anche in compiti più saturi di componenti di processamento fonologico, come la lettura rapida di parole o il word attack, tipicamente compromessi nei soggetti dislessici.
Nello studio sopra citato Vaivre-Douret (Vaivre-Douret et al., 2011) individua differenze nelle difficoltà di apprendimento nei sottotipi di DCD/Disprassia identificati mediante analisi statistica. La presenza di difficoltà nell’area linguistica sarebbe maggiore nel sottotipo visuo-motorio rispetto al sottotipo visuo-spaziale/visuo-costruttivo, mentre il contrario avverrebbe per le difficoltà nell’area della matematica e della geometria; il sottotipo misto presenterebbe problemi in entrambe le aree. Interessante appare anche studiare la comorbidità con i DCD, prendendo le mosse dallo studio dei DSA e della loro complessità diagnostica.
I Disturbi di Apprendimento, accanto alle caratteristiche che li accomunano (natura neurobiologica, esclusione di patologie più ampie, discrepanza tra potenzialità di apprendimento e rendimento scolastico, interferenza con il funzionamento adattivo), presentano, infatti, un’ampia eterogeneità clinica. Il tentativo più frequente di raggruppamento è quello tra DSA Verbali (caratterizzati dalla frequente presenza di un pregresso disturbo di linguaggio e da difficoltà prevalenti nella lettura) e DSA Non Verbali (caratterizzati da difficoltà nei compiti visuo-spaziali e da discalculia), a cui più recentemente è stato proposto di aggiungere un terzo tipo, caratterizzato dalla presenza di difficoltà di attenzione (non necessariamente parte di un quadro di ADHD) e/o dalla presenza di difficoltà di organizzazione motoria (Attention and Motor Function Disabilities/AMD).
Nonostante l’esistenza di questi raggruppamenti clinici sia ormai ben nota, la maggior parte delle ricerche sui DSA (e in particolare sulla Dislessia) analizza esclusivamente i processi di lettura e le funzioni ad essa direttamente sottostanti (come il processamento fonologico, la memoria fonologica di lavoro), inducendo anche i clinici ad attivare percorsi diagnostici limitati a questi aspetti.
In uno studio (Hendriksen et al., 2007), condotto su 495 soggetti segnalati a un Centro Specializzato per i Disturbi di Apprendimento dell’Università di Maastricht da unità diagnostiche periferiche nell’arco di 5 anni, sono state analizzate la distribuzione finale delle diagnosi e la coerenza con la diagnosi di invio.
Il 51,7% del campione riceveva una diagnosi di DSA Verbale, solo il 4% una diagnosi di DSA Non Verbale, e ben il 41% una diagnosi di AMD. All’interno di questa categoria la maggior parte dei soggetti (25,7/41) presentava un ADHD di tipo combinato, mentre la percentuale restante si divideva equamente tra ADHD di tipo disattento e Disturbo della Coordinazione Motoria con o senza difficoltà attentive.
La corrispondenza con la diagnosi di invio (formulata da singoli operatori più o meno specializzati) oscillava tra l’81% per i DSA Verbali e il 68-70% per gli AMD e i DSA Non Verbali. Tra i singoli disturbi la Dislessia e l’ADHD combinato venivano segnalati con maggior frequenza in modo corretto (circa nel 74% dei casi), mentre percentuali tra il 30 e il 60% si rilevano per gli altri disturbi. Da notare, infine, che il 23% di tutti i casi riceveva una diagnosi in un’area completamente diversa da quella dei disturbi di apprendimento e che, per ogni categoria di DSA, è in ogni caso presente una percentuale del 6-7% di casi ad attribuzione incerta.
I tre gruppi, infine, differivano per età e distribuzione di genere (gli AMD tendevano ad avere età inferiore e a essere di sesso maschile) e anche per la presenza di problemi emotivo-comportamentali, minori nei DSA Verbali, di tipo prevalentemente internalizzante nei DSA Non Verbali e di tipo esternalizzante nel gruppo AMD.
Al di là dei dati specifici, che risentono anche di scelte culturali e dell’organizzazione sanitaria, i dati sopra descritti sottolineano, come concludono anche gli autori, la necessità di un approccio diagnostico multidisciplinare alle difficoltà di apprendimento, attento alla rilevazione delle possibili comorbidità e dei differenti assetti neuropsicologici, cognitivi e affettivi.
I problemi teorici e clinici sulla comorbidità tra DCD e difficoltà di apprendimento si ricongiungono dunque sul tema della complessità, dell’eterogeneità e multifattorialità e, quindi, della multidisciplinarità diagnostica e della presa in carico.
ABSTRACT
The different definitions of movement disorders (Minimal Brain dysfunction, developmental dyspraxia, nonverbal learning disabilities and developmental coordination disorder), that have been used alternatively since the ‘70, correspond to different theoretical (but also diagnostic) approaches to these problems and have affected, beside the coherence of the clinical descriptions of dcd, the understanding of its frequent co-morbidities. This contribution describes in detail the relationships between dcd and (specific) learning disabilities: the differences found in literature are discussed in relation to the different definitions of both dcd and dsa, and to the new theoretical approaches to neurodevelopmental disorders, defined by their complexity, heterogeneity and multifactoriality, and then for the multidisciplinary approach required for their diagnosis and clinical management.
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