LA SUPERVISIONE DEL TERAPISTA DELLA NEUROPSICOMOTRICITÀ DELL’ETÀ EVOLUTIVA

Claudio Ambrosini TNPEE, Centro R.TP., Milano

L’articolo descrive una tipologia di supervisione neuropsicomotoria basata sul dialogo verbale. Definisce il TNPEE come il referente per la supervisione e ne analizza le funzioni. Vengono riportati i passaggi attorno a cui si snoda il percorso, ricordando che al centro di esso vi sono le azioni che intercorrono tra terapista e bambino.

L’articolo illustra i motivi per cui una supervisione viene richiesta e circoscrive i limiti che il supervisore deve mantenere affinché il discorso rimanga negli ambiti specifici della professione.

Alcuni accenni vengono fatti su altri tipi di supervisione, differenziandone le modalità, e conclude con una metafora sul difficile equilibrio che il TNPEE deve saper mantenere per preservare l’identità della professione. 

Il termine supervisione è importato dall’inglese supervision con cui si intende la sovraintendenza alle componenti che nel loro insieme realizzano un film, il quale è un’opera che, per l’appunto, si vede.

Super è il termine più interessante, che contrasta nel suo primordiale significato con l’idea corrente di qualcosa «fuori dal normale», eccezionale. Ha a che fare, infatti, con upa (dal sanscrito): vicinanza, «prossimità con cui si intreccia». Ed è proprio questo elemento di prossimità che è alla base della supervisione, il cui significato estensivo è applicabile a qualsiasi disciplina.

Una «visione» vicina, sentita, proprio nel senso uditivo dell’ascolto delle parole, rappresentazione che appare, si genera nel corso del racconto creando nuovi significati.

La supervisione è un incontro tra chi svolge la funzione di supervisore e colui/colei che porta il proprio racconto.

Affronto subito due punti preliminari senza i quali potrebbero nascere equivoci:

  1. la supervisione del neuropsicomotricista avviene attraverso il dialogo verbale;
  2. il TNPEE è supervisionato dal collega TNPEE (per entrambi, i punti citati, altre modalità sono possibili e praticabili con utilità, ma lascerei a fine articolo le riflessioni sulle loro varianze).

Il punto zero sono le competenze del supervisore neuropsicomotricista (NPM): gli anni di professione, la casistica di cui è dotato e la sua diversità, il percorso formativo personale, un chiaro approccio terapeutico riconoscibile nei suoi principi teorici, metodologici e tecnici.

Descriverò, quindi, una tipologia di supervisione neuropsicomotoria che affonda le sue radici nella modernità del Novecento con i lavori di Julian de Ajuriaguerra e Jean Piaget. Al primo autore aggiungerei l’avverbio «ovviamente», per il suo contributo dato alla disciplina psicomotoria nel secondo dopoguerra; il secondo è diventato riferimento essenziale per la definizione del concetto epistemologico di azione e della sua funzione nella costruzione della realtà e per le implicazioni energetiche affettive che in esso vengono convogliate.

Nella contemporaneità mi affido alle neuroscienze con i lavori di Alain Berthoz e dell’italiano Giacomo Rizzolatti che con la sua équipe ha portato alle scoperte dei neuroni specchio e ancor prima dei meno conosciuti (e non di moda) «neuroni canonici». Questi ultimi riconoscono, o meglio certificano, il valore delle osservazioni «piagettiane» da cui nacque il concetto di schema d’azione, il quale conferisce significato all’atto, che può riferirsi coerentemente all’oggetto proprio grazie alla presenza dei neuroni canonici.

Al centro della nostra metodologia (il gruppo di lavoro del Centro RTP di Milano), vi è quindi l’atto della relazione terapeutica nelle sue molteplici valenze che si esplicitano contemporaneamente: starà poi al terapista interpretarne il senso e declinare la risposta.

 

L’ATTO AL CENTRO DELLA SUPERVISIONE

Gli atti si esplicitano in un luogo, la stanza, le cui caratteristiche fisiche sono, per la maggior parte delle volte, determinate dai differenti contesti lavorativi. La stanza, con al suo interno gli oggetti utili per la terapia, si trasformerà in un luogo dinamico e simbolico durante la costruzione dei significati. In tal modo accoglierà le prime proiezioni professionali/personali del terapista, cui ne succederanno altre. Le proiezioni, ovvero ciò che ognuno porta di sé negli ambienti, si mescolano infatti con il percorso formativo, con le idee «operative» del posto di lavoro, con la cultura di aiuto che la società pone come istanza politica. Perché questo discorso? Perché ciò che le giovani colleghe/i portano inizialmente e sempre più spesso in supervisione è proprio il tipo di richiesta della struttura sanitaria di riferimento. Una richiesta che oggi, in fase valutativa, concentra la sua attenzione sugli strumenti testistici aspecifici rispetto alla professione del TNPEE.

Sia ben chiaro che non si vuole qui contestare il valore di un ADOS, di un ABC-2, o di altri test, bensì affermare il valore e l’utilità che alla diagnosi possono derivare dalla valutazione neuropsicomotoria e distinguere gli strumenti specifici (osservazione ed esame psicomotorio) utilizzati dal NPM da quelli che, come i test, non ne fanno parte.

Questi ultimi vengono sempre più utilizzati in maniera esclusiva nella valutazione del bambino, con la conseguenza che il bilancio neuropsicomotorio deriva dall’uso esclusivo di test e non dalla somministrazione degli strumenti specifici della nostra professione. Un esempio tra i tanti? Nell’indagine sui Disturbi della Coordinazione Motoria si usa l’ABC-2 e non l’Esame Psicomotorio, non riuscendo così a distinguere le componenti prassiche da quelle di coordinazione, per cui sarà poi molto difficile delineare un chiaro progetto terapeutico.

Una prima parte del percorso di supervisione è quindi quella di offrire una possibile conciliazione tra le esigenze del servizio (ricordo che non è solo un’esigenza del servizio, ma politica) e quella della professione. Operazione che riesce, con un costo affettivo alto, poiché si deve compiere un progressivo e continuo adattamento al contesto lavorativo senza perdere i contenuti identificativi della professione.

A sostegno della mia riflessione riporto le considerazioni di due autorevoli autori: Rizzolatti nel libro Sei tu il mio io. Conversazione sui neuroni specchio con Antonio Gnoli, a proposito dello spettro autistico e Umberto Galimberti, per il ricordo di un suo discorso rispetto ai giovani e ai test. E infine un invito alla lettura di un libro di Allen Frances che cito più sotto.

A seguito di questa domanda che Antonio Gnoli rivolge a Rizzolatti, «Per una patologia come l’autismo, ad esempio, si è parlato di Broken Mirror. Potrebbe dirci qualcosa in proposito?», la sua risposta è stata la seguente: «L’autismo è un tema del quale mi sono occupato e sul quale ho delle idee, ma mi spaventa il fatto che sotto la parola autismo vengano raggruppati tutti i soggetti che hanno difficoltà sociali, di comunicazione [...] è evidente, invece, che tra loro ci sono differenze enormi. [...] Metterli tutti in un solo calderone e pensare di trovare una terapia generale per l’autismo è a mio parere privo di senso, perché si tratta di una questione estremamente complessa» (Rizzolatti, 2016, pp. 46-47).

E Galimberti, a proposito dei giovani professionisti e dei test che dovrebbero utilizzare, ha affermato che essi, i giovani, nel prioritario utilizzo di tali strumenti, vengono esclusivamente posti a confronto con la parte problematica del soggetto in terapia e di conseguenza con l’esigenza di affrontare il disturbo e non la complessità dell’individuo. Galimberti ha poi definito l’atteggiamento clinico come una declinazione nella verità che l’altro abita, per comprenderla nel luogo dove sorge, nella sua condizione meno mascherata e, aggiungo io, meno difesa, quindi aperta alla possibile accoglienza. Infine consiglio, come accennato sopra, il libro dello psichiatra Frances (che ha guidato la «task force» che ha pubblicato il DSM-IV): Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie (Frances, 2013). Il titolo si riferisce al DSM-5 ® e nel libro, il nuovo manuale 1diagnostico viene sottoposto a una critica, non proprio benevola.

Ma ritorniamo ora ai primi due punti citati a inizio articolo.

 

LA SUPERVISIONE ATTRAVERSO IL DIALOGO VERBALE

Il linguaggio è un sistema di segni rappresentativo della realtà, che da esso viene raccontata sia in termini di trasmissione di informazioni e contenuti, sia in termini simbolici, connotandola di un sistema di significazione soggettivo. Il linguaggio è al centro del lavoro di supervisione poiché è il materiale che accompagna la descrizione dei fatti e contemporaneamente la riflessione su di essi.

È lo strumento che consente di porre a distanza l’accaduto della seduta, ma non è solo uno strumento, poiché è indissolubilmente legato sia al pensiero cognitivo e alla sua logica interna, sia al sistema emotivo-affettivo: è l’atto che si compie nel racconto, oggetto della supervisione.

L’immagine (le riprese video della seduta), soluzione tecnica che il lavoro potrebbe utilizzare, non assolverebbe la stessa funzione. Il suo potere, infatti, è proprio in ciò che essa veicola spostando l’attenzione dal racconto ascolto interattivo dei due interlocutori agli ulteriori significati depositati in essa. Un oggetto terzo sulla scena, non utile per una supervisione che fa del racconto-ascolto l’azione determinante per la comprensione dei fatti.

IL SUPERVISORE Il TNPEE è supervisionato dal collega TNPEE: non potrebbe essere altrimenti. Il riferimento è il professionista che conosce, usa, padroneggia gli strumenti della disciplina. Se l’atto è la centralità del lavoro sarà nel suo utilizzo terapeutico che il supervisore, nel racconto del/della collega, osserverà le diverse sfumature in esso contenute e le implicazioni che istante per istante ne veicolano il senso.

Uno stesso atto possiede valenze differenti, cioè rappresenta azioni diverse e il lavoro del NPM è proprio quello di comprenderne i significati che a volte sono adattivi e altre ludici, a volte sono centrati sulle abilità motorie, altre su implicazioni cognitive e altre ancora sugli affetti in gioco nel rapporto con il terapista o con gli oggetti. Atti, infine, tracimanti emozioni.

Solo una formazione che ha tali competenze può favorire il processo di riconoscimento dell’agire della/del collega che richiede la supervisione.

 

PERCHÉ VIENE RICHIESTA UNA SUPERVISIONE

Nella maggior parte dei casi, la supervisione avviene come aiuto di quei percorsi terapeutici sentiti come difficili.

Situazioni dove è evidente una problematicità di conduzione causata da atti del bambino che con il suo comportamento pone al terapista domande evolutive complesse.

Trattandosi di atti, lo scambio avviene velocemente e a volte, soprattutto quando si ha meno esperienza, in maniera non sempre o immediatamente chiara. Le informazioni che il terapista riceve dal bambino, infatti, sono molteplici e trasmettono bisogni, desideri, richieste diverse che si intersecano con emozioni, vissuti, affetti che inevitabilmente accompagnano la relazione terapeutica e rischiano risposte (anche inconsapevoli) affrettate, che precipitano come massi lungo una scarpata.

Tutto si compie in una situazione dinamica di cui progressivamente si cercherà di portare a conoscenza il senso, come vedremo, in una rielaborazione dell’accaduto.

Dedicherei spazio, allora, a questo tipo di supervisioni ricordando soltanto che altre volte la richiesta può essere su argomenti settoriali, come potrebbe essere quella relativa alle procedure di valutazione, ai colloqui con i genitori, al ruolo del TNPEE nell’équipe. Solitamente però è difficile che la prima richiesta sia focalizzata su questi argomenti che invece possono trovare ambiti di dialogo quando il tema principale della supervisione è stato sufficientemente affrontato.

Dunque, situazioni difficili dove la domanda della/del collega è attorno all’elaborazione della risposta terapeutica.

Il punto di partenza, successivo al racconto clinico del caso, è l’ambiente (l’articolo ha posto subito in primo piano la stanza di terapia), evidenza visuo-percettiva immediata della prima seduta di terapia, prima indicazione che il NPM offre al bambino (Arcelloni e Magnifico, 2006).

Nell’arredo è implicito il discorso dei primi scopi terapeutici; la scelta degli oggetti e la loro disposizione dichiarano possibili piste di azioni che in parte si snoderanno secondo le anticipazioni 1 del NPM, ma che saranno anche la conseguenza del percorso interattivo dei protagonisti. Il bambino 2 nel primo periodo di terapia porterà con forza le proprie esigenze assimilative, il che non significa che siano ludiche, né evidentemente simboliche

 

AMBITI E CONFINI DELLA SUPERVISIONE NEUROPSICOMOTORIA

Il supporto che la supervisione può offrire, dopo aver concordato le norme vincolanti, 3 si pone su più livelli:

il primo è accogliere il racconto senza aver fornito particolari indicazioni su come procedere, se non quella di partire dai fatti che si vogliono raccontare (vengono quindi in evidenza i temi principali su cui sono convogliate le energie del NPM); il secondo è suggerire una descrizione accurata dell’accaduto/degli accadimenti in modo che nell’analisi degli atti si possa progressivamente discernere i possibili significati in gioco (box 1); il terzo è l’individuazione di alcune ricorrenze, nodi evolutivi, su cui concentrare l’attenzione poiché in essi vi è la domanda del bimbo; il quarto è l’organizzazione della risposta.

 

BOX 1

Descrizione e analisi degli avvenimenti portati in supervisione

  1. Analisi del contesto fisico e motivazioni per cui è stato creato in quel modo (la scena).
  2. Analisi degli atti del bambino a confronto con quelli del NPM. Atti che sono espressione del suo stato psichico e che si configurano nel/nella;
    • prossemica (nella sua parte riferibile all’occupazione dello spazio);
    • atteggiamento posturo-motorio;
    • dosaggio tonico;
    • cinetica dei movimenti settoriali in MP (Motricità di Posizione);
    • cinetica delle coordinazioni cinetiche in MS (Motricità di Spostamento);
    • linguaggio verbale.
  3. Riflessioni che accompagnano il suo agire.
  4. Ipotesi sul senso che il bambino sta dando all’azione in corso.

Questi quattro passaggi hanno necessità di un tempo affinché possano divenire materiale fluido di lavoro.

Un tempo per entrambi gli interlocutori, così da trovare un filo conduttore comune che li accompagni verso una comprensione dei fatti, traducibile in un aiuto per il bambino conseguente ad alcune modificazioni dell’impianto personale/professionale in gioco per il/la collega supervisionato/a.

I passaggi devono mantenere quell’upa (vicinanza) di cui si accennava all’inizio dell’articolo, ma così facendo, in certi punti del percorso, la componente personale emerge con forza: è chiaro che le azioni del bambino evocano nel terapista contenuti controtransferali. Qui vi è il limite che il supervisore deve saper rispettare: «Guardi che qui, in questo suo agire, vi è qualcosa di suo, altre volte ci è capitato di osservare la stessa dinamica, oggi in modo più intenso. Sappiamo entrambi che è qualcosa che la riguarda con intensità, ma non è questo, guardare dentro di lei, lo scopo del nostro lavoro, ma è tema di una sua riflessione e di chiarimento in altro ambito».

Necessario e indispensabile è porre dei limiti in un lavoro che muove ogni nostro muscolo e su cui è stampata e trattenuta in ogni fibra la nostra storia. Per cui alcuni aspetti fanno parte del percorso interpretativo che la nostra professione ha l’obbligo di fare, altri sono invece esclusi anche se alcune considerazioni, proprio per il percorso personale formativo che ogni supervisore dovrebbe avere svolto, possono essere utili.

La supervisione, per le giovani colleghe che si avviano al lavoro terapeutico dovrebbe essere uno strumento prioritario del percorso formativo. Andrei a distinguere: un conto è la supervisione che avviene all’interno di un servizio, che sia pubblico, convenzionato o privato non fa differenza, altra è la scelta personale che un TNPEE fa di intraprendere una supervisione. Nel primo caso la funzione è prevalentemente professionalizzante e finalizzata al sistema operativo del servizio, anche se tali componenti non vengono esplicitate; nel secondo prevalgono, invece, la componente personale e l’indirizzo metodologico professionale che si vuole approfondire, per cui viene scelto il collega TNPEE che meglio può rispondere alle esigenze.

Il percorso di supervisione che ho descritto si riferisce a questo secondo modello che ritengo più utile nel momento in cui il NPM ha intenzione di riflettere sul metodo e di riconoscere nel lavoro alcune condizioni soggettive che con esso interferiscono. Con i limiti già descritti.

Vero è che alcune tipologie di bambini pongono in precario equilibrio la conduzione quando ciò che mettono in scena racchiude contenuti simbolico-affettivi profondi. Sono i bambini di cui ho discusso in un precedente articolo (Ambrosini, 2015) che trascinano il NPM in un «paludoso» terreno psicodinamico. Bambini comunque inviati in terapia neuropsicomotoria dal medico, quindi casi per cui è stata valutata un’utilità terapeutica non psicoterapica. In tali situazioni è ipotizzabile che il referente supervisore possa essere una figura diversa dal NPM. È più utile uno psicoterapeuta e, anche in questo caso, vi sarà una scelta da compiere rispetto ai riferimenti teorici e metodologici.

La supervisione è un percorso che accompagna il lavoro del NPM nel corso degli anni, 4 non vi è un momento in cui se ne possa fare a meno. Con il tempo certamente si modificano le richieste e le conoscenze sui disturbi, anche perché una società in rapido cambiamento impone avvicinamenti diversi (si pensi alla moltitudine di bambini con culture diverse che vivono nel nostro paese e sono in cura a colleghi NPM).

Un’attenzione particolare dovrebbe essere data al linguaggio verbale usato in seduta, conseguenza del tipo di conduzione scelta, in riferimento agli scopi terapeutici del periodo.

Il linguaggio, infatti, è uno strumento su cui delle volte non vi è una sufficiente attenzione, mentre nel nostro lavoro il suo utilizzo dovrebbe essere ben calibrato in quanto strumento di regolazione delle azioni, di informazione, di passaggi in funzione di apprendimenti di atti e di verbalizzazione di contenuti simbolici (Massenz, 2015).

Il linguaggio del NPM in supervisione è un segnale delmodo in cui non solo egli vive gli atti della seduta, ma come li conosce e come ne diviene consapevole. L’attenzione del supervisore al lessico (perché quella parola) e alla sintassi (perché i fatti sono legati linguisticamente in un certo modo) è parte fondamentale del suo lavoro e può togliere il velo a una situazione fin lì oscura.

Tra le varianze tecniche citerei quella supervisione che utilizza foto, riprese video, registrazioni audio, utili quando il processo terapeutico è ben chiaro e quindi è possibile focalizzare l’attenzione su aspetti particolari che gli strumenti citati possono ben mostrare.

Ritengo, comunque, che nel momento in cui un/una giovane collega inizi a lavorare, il riferimento sia il TNPEE che svolge il suo operato così come descritto, poiché questo rapporto permetterà di entrare in possesso degli strumenti specifici della professione e solo successivamente potrà essere utile variare le condizioni del lavoro qualora ne sorgesse la necessità.

 

CONCLUSIONI

La nostra è una professione in un perenne rapporto con l’equilibrio e, quando si cammina su un filo sospeso, il rischio di cadere è sempre possibile. È pur vero che Philippe Petit, ritenuto il più grande equilibrista del mondo, dalle vertiginose altezze dove la sua fune veniva sospesa, precipitato non è.

Nel suo libro (Petit, 1999) è affascinante la descrizione delle funi usate, delle tecniche impiegate per costruirle, terminali di competenze professionali e pulsioni personali che l’hanno portato a camminare sui punti più alti degli edifici di città della Terra.

L’atto è contemporaneamente terminale e attivatore di processi neurali e, a seconda di come lo si interpreta o di cosa ci vuole rivelare, racconta le varie componenti della persona.

Essendo l’atto al centro del mio agire professionale, il rischio di scivolare in campi del sapere contigui alla professione è reale (generalizzerei, senza timore di essere smentito: tale rischio, indipendentemente dalle metodologie diverse, è un rischio voluto della terapia NPM).

Per tale motivo il percorso formativo post-universitario dovrebbe proseguire nell’appropriazione degli strumenti specifici della professione, e ritengo la supervisione un percorso prioritario poiché consente di lavorare in vicinanza e osservare gli aspetti personali/professionali e così di collaborare con le/i giovani colleghe/i affinché possanointeriorizzare l’identità della professione

  1. Le anticipazioni provengono dal bilancio in cui sono delineati progetto e programmi con i rispettivi obiettivi.
  2. Indipendentemente dalla diagnosi, i casi che vengono portati in supervisione si riferiscono a quei bambini che «deviano» dagli obiettivi terapeutici, ponendo il NPM in difficoltà nella conduzione delle sedute, difficoltà che prima di essere tecnica è in rapporto diretto con la persona-terapista e «tocca» la sua struttura motorio-posturo-affettiva. (Ambrosini e Pellegatta, 2012), le quali interferiranno con le anticipazioni ipotizzate.
  3. Le norme sono poche: decisione della frequenza con cui gli incontri avvengono (settimanale, quindicinale, mensile, altro) e costanza nel mantenere la frequenza; durata dell’incontro (un’ora/due ore) e rispetto degli orari; l’articolo è dedicato alla supervisione individuale, ma le supervisioni possono essere anche di gruppo. La differenza principale sta nell’approfondimento del discorso rispetto a sé (supervisione individuale) che permette una maggiore riflessione sui contenuti personali/professionali: riflessione che esiste anche nella supervisione di gruppo, ma quest’ultimo limita tale approfondimento, a vantaggio di un ventaglio di considerazioni arricchenti, in quanto molteplici e di diversi orientamenti.
  4. In riferimento a casi di bambini con disturbi della sfera emotivo-affettiva il nostro gruppo di lavoro del Centro RTP si rivolge a una psicoterapeuta

 

ABSTRACT

This article describes a type of neuropsychomotor therapy supervision based on a verbal exchange. The therapist is defined as the referent for supervision and his/her role is analysed. Passages are reported that are important to therapy’s evolution while keeping in mind that the actions between the child and the therapist are central.

The article illustrates the motives for which supervision is requested and circumscribes the supervisor’s role in order to remain in a specific professional sphere. Some mention is given to other types of supervision and how their modalities differentiate. A metaphor on how a TNPEE has to know how to maintain a difficult balance in order to preserve a professional identity concldes the article.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Ambrosini C. (2015), Datemi il ciuccio, bastardi,«Psicomotricità», vol. 1, n. 54, pp. 27-35.
  • Ambrosini C. e Pellegatta S. (2012), Il gioco nello sviluppo e nella terapia psicomotoria, Trento, Erickson.
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  • Frances A. (2013),Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie, Torino, Bollati Boringhieri.
  • Massenz M. (2015), Parola, simbolo, metafora, «Psicomotricità», vol. 1, n. 53, pp. 27-33.
  • Petit P. (1999), Trattato di funambolismo, Firenze, Ponte Alle Grazie.
  • Rizzolatti G. (2016), Sei tu il mio io. Conversazione sui neuroni specchio con Antonio Gnoli, Bellinzona, Casagrande.

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