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di Simone Cuva (a) e Marilina Mastrogiuseppe (b)
(a) Neuropsichiatra - (b)Psicologa, dottoranda di ricerca Dipartimento di Scienze della cognizione e della formazione, Università degli studi di Trento
La gestualità è un’importante via di comunicazione alternativa per compensare i deficit delle competenze comunicative e linguistiche. Nel caso dei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico, invece, le limitazioni nella comunicazione verbale non sono compensate dall’utilizzo del gesto che, al contrario, si dimostra particolarmente povero sia relativamente alla frequenza con cui è prodotto che alla qualità della sua esecuzione. L’articolo sottolinea l’importanza di rivalutare le funzioni gestuali legate allo sviluppo del pensiero simbolico e alla pragmatica della comunicazione, aspetti a oggi ancora piuttosto trascurati, e sottolinea come la psicomotricità possa ricoprire un ruolo importante e specifico nella presa in carico del bambino con autismo, a patto che integri le nuove conoscenze e sia applicata con criteri definiti e obiettivi precisi, secondo protocolli e modelli condivisibili.
INTRODUZIONE
Marco, tre anni, non guarda l’altro negli occhi, non si gira quando viene chiamato per nome, esplora la stanza in maniera afinalistica, muovendosi come una scheggia impazzita e passando da un oggetto all’altro. Quando vuole qualcosa si arrampica fino a rischiare di farsi male, non riesce a effettuare richieste, né a compiere un’azione apparentemente semplice come alzare un braccio ed estendere il dito indice per comunicare ciò che desidera. Eventualmente, se l’adulto è a portata di mano, con la sua mano gli prende il braccio, come se fosse una protesi, un attrezzo, un’estensione, una sorta di «bastone articolato», e lo utilizza per riuscire nel suo intento. Di fronte a oggetti che lo interessano particolarmente si ferma e comincia a saltare e «sfarfallare». Anche se non sembra assolutamente avere disturbi di coordinazione, l’impressione è che il corpo sia disorganizzato nel suo rapporto con lo spazio e che il bambino si muova come avvolto in una bolla che lo separa dall’ambiente circostante, impedendogli apparentemente un contatto.
Giovanni è un bambino di dieci anni e ha una passione per i videogiochi e i fumetti, che disegna a getto continuo in maniera stereotipata e ripetitiva, chino sul tavolo senza guardare l’interlocutore negli occhi, ma mantenendo uno sguardo sempre laterale. Il tono di voce ha una prosodia piatta e cantilenante, monotona: è una voce che rimane immobile rispetto ai contenuti emotivi di ciò di cui parla. Nei disegni, che spesso sono solo degli schizzi, tende a riproporre scene di azione dei cartoni animati, molto attive e concitate. Non ha disturbi evidenti nel movimento, ma quando si alza per uscire dalla stanza trasmette la sensazione di trascinare i quattro arti e il tronco; sembra non possedere i normali movimenti che rendono fluidi i passaggi di postura e che permettono sottilmente la naturalezza degli scambi tra organismo e ambiente.
Alessandro ha quattordici anni. È un ragazzo molto ansioso che riporta nell’interazione un pensiero di tipo ossessivo; il pensiero e il linguaggio si inceppano costantemente inciampando su se stessi. Quando inciampa mentalmente negli ostacoli rappresentati dai suoi tortuosi e poco comunicabili percorsi di pensiero, sembra provare una sorta di dolore fisico, quanto meno una forte irritazione che gli attiva dei movimenti quasi parossistici, delle stereotipie molto evocative dello stato interno: avvicina le mani davanti agli occhi, estende le dita della destra e stringe a pugno la sinistra per due-tre-quattro volte di seguito. Lo sguardo, che evita sempre l’interlocutore, si concentra invece sulle mani, come se fossero loro che non riescono ad aiutarlo a esprimere il suo pensiero. Pur non essendo mai aggressivo a scuola spesso si allarmano: incute timore Alessandro, quando si altera. È alto e forte e la sua difficoltà di esprimere e condividere il proprio mondo
interiore sembra a volte suscitargli una tale pressione interna da portarlo sul punto di esplodere: le fibre muscolari contratte, lo sguardo perso, la voce che ecolalicamente ripete anche quando non ha fatto niente: «sono stato bravo? Scusa non lo faccio più, vero che non lo faccio più?».
Marco, Giovanni e Alessandro sono tre pazienti con una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico. Nonostante le diverse forme del disturbo — Marco ha una diagnosi di Autismo, Giovanni presenta una Sindrome di Asperger, Alessandro ha una diagnosi di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DGS NAS) con una forte componente ossessiva — e le diverse età dei bambini, è evidente un tratto comune ai tre: nell’osservazione di questi pazienti e nell’interazione con loro, l’altro (sia esso un operatore sanitario, un familiare, un compagno di scuola o un insegnante), fin quando non venga costruito un vocabolario condiviso con la persona autistica, percepisce un senso di estraneità, una difficoltà di contatto, un’impossibilità a entrare in uno spazio condiviso che è specifica dell’interazione con l’autismo.
A nostro avviso questo tratto comune è legato, oltre che — ovviamente — ai deficit socio-comunicativi specifici della sindrome, alla centralità della dimensione corporea nell’autismo e delle sue disfunzioni e al modo in cui il corpo, pur non avendo subito danni apparenti, riesce a tradurre e rispecchiare i vissuti interni di questi pazienti.
In questo lavoro proporremo una riflessione sul ruolo della comunicazione non verbale e della dimensione corporea nella comprensione dei Disturbi dello Spettro Autistico. In una prima sezione presenteremo lo stato dell’arte, in una seconda un’esemplificazione clinica di come un lavoro incentrato sulla comunicazione non verbale, con una forte attenzione alla dimensione spaziale come luogo elettivo di intervento, potrebbe rivelarsi di enorme aiuto per l’intervento e la comprensione di queste condizioni cliniche.
LO STATO DELL’ARTE: CHE RUOLO HA IL CORPO NELLA DEFINIZIONE E NELLA CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO?
I Disturbi dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorders/ASD) sono disturbi del neurosviluppo con esordio nei primi anni di vita che, come indicato nel DSMIV-TR (APA, 2000), sono caratterizzati clinicamente da compromissioni qualitative delle interazioni sociali e della comunicazione oltre che da un repertorio limitato, stereotipato, ripetitivo di interessi e di attività. Nel DSM-5, di prossima pubblicazione negli Stati Uniti, dovrebbe essere proposta una sostanziale revisione dei criteri per la diagnosi dei Disturbi dello Spettro Autistico. Al posto delle tre dimensioni, quella sociale, comunicativa e degli interessi ristretti e stereotipati, saranno due i domini principali per caratterizzare gli individui con ASD nella loro eterogeneità: l’area del deficit socio-comunicativo e quella degli interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Nella prima area verranno inclusi anche i deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati nelle interazioni sociali, che vanno da una comunicazione verbale e non verbale poveramente integrate, ad anomalie nel contatto oculare e nel linguaggio corporeo, a una totale mancanza di espressioni facciali e gesti.
Nonostante i significativi progressi concettuali e operativi rappresentati dal DSM-V nell’attribuire un ruolo maggiore alle compromissioni nella comunicazione non-verbale, l’impressione generale è che, nelle attuali concezioni dell’autismo e del suo trattamento, la dimensione corporea trovi inspiegabilmente poco spazio. Ciò viene dimostrato anche dalle recenti Linee Guida Italiane (ISS, 2011) che, essendo costruite su una rigorosa revisione della letteratura scientifica attualmente esistente, con l’importante obiettivo di offrire a clinici e famiglie una panoramica scientificamente fondata delle attuali prospettive sull’autismo, non possono includere nella loro disamina questioni ancora poco affrontate nella ricerca.
Il corpo, la motricità e il modo in cui le alterazioni della comunicazione non verbale (a partire dallo sguardo, per arrivare al gesto) sono centrali nella comprensione dell’esperienza di questi pazienti sono stati poco affrontati e studiati, così come lo sono stati i trattamenti che passano per il corpo. Queste carenze sono comprensibili se si pensa all’ottica in cui è proceduta negli ultimi anni la ricerca sull’autismo. Da una parte, infatti, essa è stata sempre più incentrata sull’individuazione del disfunzionamento delle «componenti hardware» del sistema nervoso centrale (siano esse di tipo
genetico o di tipo anatomico), spesso con importanti risultati (Birmingham, Cerf e Adolphs, 2011) ma anche con la sempre maggiore e disarmante consapevolezza del fatto che l’autismo è un disturbo enormemente complesso di cui per certi versi più si sa e meno si capisce.
Dall’altra parte il fecondo filone degli studi neuropsicologici sull’autismo, con le importanti conquiste nella costruzione di modelli della mente utili a comprendere alcune carenze, alcune peculiarità e alcuni stili cognitivi (Frith e Happé, 1994), ha studiato come funziona la mente autistica, ma apparentemente in maniera scissa dal corpo, come se nell’essere umano fosse possibile concepire una mente che, sviluppandosi in astratto, vada a innestarsi su una struttura «contenitore» con poca o scarsa funzione, se non quella di permetterne l’estrinsecazione.
In maniera un po’ provocatoria e paradossale vorremmo qui porre la domanda: e se fosse vero il contrario? Siamo sicuri che sia giusto non contemplare l’alternativa per cui forse è l’atipia della corporeità, intendendo in senso lato il corpo come lo strumento attraverso cui l’essere umano entra in relazione con l’altro e con l’ambiente (raccogliendo anche gli input dall’altro e dall’ambiente) a concorrere alla costruzione di un modello mentale atipico e alle atipie della comunicazione?
Non stiamo certo dicendo che la causa sia nel corpo, poiché esiste una quantità vastissima di deficit corporei che non compromette l’area socio-comunicativa-relazionale. Stiamo piuttosto dicendo che, pur non dovendo essere considerate come fattori causali, si potrebbe cautamente prendere in considerazione il fatto che le anomalie della corporeità costituiscono una delle strade attraverso cui si arriva a un determinato esito. O, ancora più cautamente, stiamo proponendo di considerare in maniera specifica come viene vissuta l’esperienza corporea di una persona che, sin dalle prime fasi della vita, non modula il contatto di sguardo, non indica, fissa alcune sequenze motorie tendendo a eseguire movimenti stereotipati, ecc.
Questo vertice di osservazione ha il senso di aprire una finestra nuova sulla comprensione del mondo autistico, possibile solo ripercorrendo il modo in cui nel corso dei primi anni di vita le esperienze interne ed esterne, i processi di sviluppo dell’individuo e dell’ambiente hanno creato il funzionamento e le modalità di percezione e interazione con la realtà.
L’AUTISMO IN UN’OTTICA «DEVELOPMENTAL»: INSIGHT SULLE POSSIBILI ORIGINI E INTERROGATIVI SUL RUOLO DEL CORPO
Alcuni studi recentemente pubblicati su importanti riviste internazionali si stanno rivelando di enorme utilità nella definizione dei percorsi di sviluppo dei bambini con autismo. Si tratta di studi longitudinali che stanno permettendo di comprendere quando sia possibile individuare il fenotipo di bambini effettivamente a rischio di diventare autistici e quali caratteristiche esso abbia (Zwaigenbaum et al., 2009). La maggior parte di questi studi sottolinea come, fino ai 6-12 mesi di vita, il bambino che svilupperà l’autismo sia indistinguibile da quello che intraprenderà una via di sviluppo più o meno «tipico». Dai 12 mesi di vita in poi cominciano a emergere alcuni segni di sospetto che si manifestano con compromissioni o atipicità in diversi domini dello sviluppo (per approfondimenti, vedi tabella 1).
È interessante notare che il periodo in questione è quello dell’esplosione delle competenze grosso-motorie che hanno chiaramente un ruolo trainante nell’integrazione delle aree socio-comunicative-affettive; a titolo esemplificativo si pensi a come la conquista della deambulazione autonoma renda possibile l’esplorazione dell’ambiente e quindi inneschi il gioco di ricerca di equilibrio tra esplorazione e bisogno di sicurezza affettiva con il caregiver, che si estrinseca nel fenomeno della base sicura (vedi Cuva e Waters, 2005).
Se ragioniamo analiticamente su alcuni dei primi segni di identificazione dell’autismo (non si gira quando viene chiamato per nome, non indica, non guarda), vediamo che essi hanno a che fare con un repertorio di azioni e comportamenti che coinvolgono almeno a livello funzionale anche la motricità e la sua scarsa integrazione con le altre dimensioni evolutive. Pure in assenza di un deficit di tipo neuromotorio si realizza in effetti un’impossibilità di condivisione dello spazio interpersonale, che influisce inevitabilmente sulla peculiare strutturazione della modalità autistica di percezione della realtà.
Alcuni studi recenti (Scalzeri, Esposito e Venuti, 2011; Esposito e Venuti, 2008) hanno il merito di
essersi focalizzati sullo sviluppo motorio del bambino con autismo, evidenziando come i bambini con ASD rispetto a bambini con sviluppo tipico e con disabilità intellettiva presentino, già nel primo anno di vita, un’asimmetria più accentuata in tutte le posture (giacere, sedere, camminare), e sottolineano l’importanza di considerare le alterazioni del movimento al fine di formulare la diagnosi differenziale e impostare il trattamento nell’autismo. Lo studio del movimento si rivela dunque indispensabile per la comprensione dello sviluppo nell’autismo; in particolare proponiamo ora un approfondimento su una particolare dimensione che collega l’aspetto motorio a quello comunicativo: il gesto e le sue funzioni.
Tabella 1 - – Segni precoci di autismo (Zwaigenbaum et al., 2009)
Sviluppo socio-comunicativo con deficit/atipicità in:
* contatto di sguardo e attenzione condivisa
* espressione e regolazione emotiva (ridotta espressione di emozioni positive)
* sorriso sociale
* interessi sociali e piacere condiviso (in assenza di contatto fisico)
* orientamento al nome
* sviluppo dei gesti (ad esempio, il pointing)
* coordinazione di differenti modalità comunicative (sguardo, espressione facciale, gesti, vocalizzazioni)
Gioco
* ridotta imitazione di azioni con gli oggetti
* eccessiva manipolazione ed esplorazione visiva degli oggetti
* limitate e ripetitive azioni di gioco con gli oggetti
Linguaggio e cognizione con una mancanza/ritardo nei seguenti ambiti:
* babbling
* comprensione e produzione linguistica (prime parole strane e ripetitive)
* inusuale prosodia o tono della voce
Sviluppo visivo/percettivo e motorio
* atipicità nel controllo visivo e nella fissazione/ispezione degli oggetti
* risposta atipica ai suoni o ad altre forme di stimolazione sensoriale
* ridotti livelli di attività e una deficitaria abilità motoria fine e grossolana
* comportamenti ripetitivi e atipici, manierismi motori e atipicità nella postura
Funzioni regolatorie
* correlate al sonno, all’attenzione, all’alimentazione
PERCHÉ È IMPORTANTE STUDIARE LA COMUNICAZIONE GESTUALE NELL’AUTISMO?
Dal nostro punto di vista la comunicazione gestuale si presta a rappresentare una vera e propria sintesi delle difficoltà tipiche dell’autismo. I gesti comunicativi assumono fin dall’inizio dell’ontogenesi un ruolo importante nella comunicazione, grazie alla relazione privilegiata che hanno con il linguaggio. I gesti sono forme comportamentali che sfruttano la motricità del bambino; attraverso essi, però, il movimento in un certo senso perde la funzione per cui è nato: da movimento strumentale usato per compiere azioni sulla realtà fisica diventa, infatti, movimento comunicativo che ha la funzione di influenzare la realtà sociale. Attraverso l’utilizzo della gestualità il bambino è attivo nella comunicazione, può dire senza parlare. I gesti predicono e preparano lo sviluppo comunicativo e linguistico e hanno un ruolo centrale nella comprensione intersoggettiva (Capirci et al., 2010), strutturandosi lentamente durante i primi anni di vita di un bambino secondo tappe ben delineate.
Il percorso di sviluppo dei gesti comincia intorno ai nove mesi e prosegue per tutto il secondo anno di vita, partendo con i gesti performativi o deittici (indicare, mostrare, dare, richiedere) e arrivando ai gesti convenzionali, culturalmente definiti e usati per regolare l’interazione (ad esempio, fare
«ciao» con le mani, «buono» con l’indice sulla guancia), fino ai gesti rappresentativo-iconici che simboleggiano un’idea astratta in modo metaforico o metonimico, ad esempio avvicinare la mano alla bocca per «mangiare», portare il pugnetto chiuso all’orecchio per «telefonare» (ibidem).
La presenza di deficit nell’utilizzo della gestualità per fini comunicativi è centrale nei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico. Compromissioni nella produzione gestuale emergono in modo evidente dai punteggi in misure diagnostiche in cui l’assenza o la scarsa frequenza del gesto è valutata come sintomatica.
Lo sviluppo dei gesti segue nell’autismo un andamento del tutto peculiare sia rispetto allo sviluppo tipico (Luyster, Lopez e Lord, 2007) sia rispetto ad altre popolazioni con sviluppo atipico, come nel caso dei disturbi specifici del linguaggio, della sindrome di Down e della sordità congenita. Nei bambini con queste patologie i gesti costituiscono un’importante via di comunicazione alternativa per supplire i deficit nello sviluppo comunicativo e linguistico (Caselli et al., 2008).
Nel caso dei bambini con ASD, invece, le limitazioni nella comunicazione verbale non sono compensate dall’utilizzo del gesto che, al contrario, si dimostra particolarmente povero relativamente sia alla frequenza con cui è prodotto che alla qualità della sua esecuzione (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007).
Alcune evidenze cliniche e di ricerca dimostrano come i bambini con autismo possano raggiungere un certo livello di produzione gestuale, caratterizzato tuttavia da azioni ritualizzate e gesti strumentali, con una prevalenza di gesti che esprimono funzioni di regolazione comportamentale piuttosto che propositi dichiarativi. Il gesto del bambino autistico tende inoltre a rimanere azione concreta, non assumendo appieno la connotazione di azione comunicativa, come dimostrato anche dall’assenza della modulazione dello sguardo che solitamente accompagna il gesto comunicativo rendendolo tale.
La compromissione fondamentale alla base di tutte queste atipie sembra essere il deficit nei meccanismi di condivisione dell’attenzione, in generale considerati ottimi predittori del successivo sviluppo linguistico. Il ruolo fondamentale dell’attenzione condivisa nell’autismo ha però fatto sì che i gesti venissero considerati il tramite per lo studio dell’attenzione congiunta e non considerati come modalità comunicative di per sé (Paparella et al., 2011).
Altre funzioni gestuali legate allo sviluppo del pensiero simbolico (gesti rappresentativo-iconici) e alla pragmatica della comunicazione (gesti pragmatici e convenzionali) sono aspetti a oggi ancora trascurati. Emerge tuttavia l’importanza di un sistema di classificazione globale e completo che possa consentire una dettagliata analisi delle diverse funzioni del gesto e che consenta di descriverne gli aspetti più qualitativi. La definizione di questa tassonomia (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007) e la possibilità di effettuare uno studio più approfondito della comunicazione gestuale potrebbero rivelarsi molto importanti sia per scopi di ricerca sia per scopi clinici, come sarà in parte mostrato nel prossimo paragrafo.
ESEMPLIFICAZIONE CLINICA: LA CONDIVISIONE DELLO SPAZIO COME PARTENZA PER LA COSTRUZIONE DELL’INTERSOGGETTIVITÀ
In questo paragrafo descriveremo un protocollo di primo intervento sulle competenze di attenzione congiunta in bambini con Disturbi dello Spettro Autistico e affini (in questo caso si parlerà di un bambino di 26 mesi con Disturbo Multisistemico dello Sviluppo). Il presupposto generale, in linea con quanto esposto in precedenza, è che un primo intervento su una dimensione spaziale della relazione, che parte dal mettere genitori e bambino a giocare per terra (Greenspan, 2008), curando gradualmente le posture, le distanze, i posizionamenti, il rapporto con l’oggetto, la sollecitazione dello sguardo, siano tutti aspetti centrali per la riparazione e la costruzione delle competenze intersoggettive e di una più fertile matrice interattiva-relazionale (Cuva et al., 2011; in preparazione).
Riportiamo alcuni estratti di questo percorso terapeutico di intervento mediato dai genitori. Il percorso ha avuto una durata di 10 sedute e si è incentrato sulla diade genitore-bambino con il terapeuta, che ha avuto la funzione di «mediare le distanze» portando a una sempre maggiore condivisione e a una riduzione dello spazio interpersonale tra bambino e genitori.
Il percorso terapeutico è stato analizzato partendo dall’osservazione di una prima seduta triadica, in cui è stato possibile osservare lo schema relazionale «di partenza» dei genitori e del bambino come «punto zero» per uno studio geometrico delle distanze.
Il campo
Quando Davide e i suoi genitori vengono invitati a giocare nella maniera più spontanea possibile, si delinea uno scenario denso di difficoltà: i tre componenti della famiglia sono seduti attorno al tappeto ove sono stati distribuiti alcuni giochi. Sono presenti una pervasiva disorganizzazione e una globale mancanza di sintonizzazione tra bambino e genitori. Il bambino esplora l’ambiente a lui sconosciuto, è interessato ai diversi oggetti presenti ma non cerca l’interazione con i genitori che, a loro volta, cercano di proporre diverse attività, in maniera poco organizzata, integrata e spesso conflittuale tra loro, senza riuscire neanche a valutare quanto il bambino possa vedere le attività proposte.
Quando qualche oggetto proposto cattura l’attenzione del bambino, lui si getta sull’oggetto, senza riuscire a condividere, e comincia a giocare in maniera isolata. Osservando l’interazione dall’esterno, sembra che ognuno dei tre individui presenti sia circondato da ostacoli invisibili che non solo non permettono di entrare in contatto ma che anzi determinano una distanza sempre maggiore. Emerge un triangolo disfunzionale, i cui vertici tendono al collasso e non sembrano favorire interazioni di complessità crescente.
Inizio dell’intervento
Anche all’inizio delle sedute terapeutiche la configurazione spaziale si delinea come un aspetto molto importante. Due sequenze si dimostrano di particolare interesse in questo senso: nella prima, la madre cerca di coinvolgere il bambino in un gioco di causa-effetto; vorrebbe utilizzare il gioco per favorire l’alternanza dei turni ma alla fine si affanna nel seguire il bambino che, rivolgendole le spalle, getta le palline a distanza e cambia continuamente attività. Il bambino è perennemente di spalle e la madre, che cerca di trovare aperture, non riesce a entrare nel suo campo di azione e sperimenta continui sensi di fallimento.
Nella seconda sequenza, madre e bambino disegnano usando pennarelli colorati; la madre, tuttavia, propone un’attività molto complessa aspettando una risposta da parte del bambino, il quale non è interessato a tutte le proposte della madre, ma continua a scarabocchiare da solo. Il bambino e la madre sono ora uno di fronte all’altra, ma la madre sperimenta comunque difficoltà nell’accedere allo spazio del bambino e creare uno spazio nuovo, condiviso.
Nel primo caso il terapeuta mostra alla madre un altro modo per coinvolgere il bambino: seduto di fronte a lui e portando tutte le palline a distanza (ponendo quindi un ostacolo fisico), le mostra al bambino una alla volta mentre lo chiama per nome e avvicina le palline ai suoi occhi al fine di promuovere il contatto di sguardo (interazione di sguardo) e «imponendo» gradualmente l’alternanza dei turni.
Nel secondo caso, il terapista ha usato i pennarelli colorati per creare il ritmo (battendoli sul tavolo) e il piacere condiviso, accompagnando con suoni le macchie colorate prodotte sul foglio di carta. Il bambino ha reagito con attivazione emotiva positiva, attivando una ricerca della fonte di quello stato piacevole (l’Altro) e accedendo dunque a un primo spazio condiviso, nato dall’incontro dei due campi personali.
A metà dell’intervento
La madre ha colto molto rapidamente i suggerimenti del terapista e ha compreso che, per le specifiche modalità di funzionamento del bambino, la costruzione di un campo interpersonale non è una questione spontanea come solitamente accade: tale costruzione deve essere il primo obiettivo dell’interazione. Ad esempio, quando gioca con lo stesso gioco causa-effetto descritto nella seduta precedente ora la madre è attenta a stare seduta di fronte al bambino: da questo nuovo assetto spaziale, la madre promuove turni comunicativi ed è più in grado di utilizzare gli ostacoli fisici come mezzo per coinvolgere il bambino e promuovere l’interazione di sguardo. Il bambino sorride
in risposta alle stimolazioni della madre (sembrano adesso davvero impegnati congiuntamente nell’attività di gioco) e inizia scambi interattivi usando diversi gesti comunicativi (che la madre riconosce e a cui risponde). Il campo intersoggettivo si espande.
Mentre la madre usa i pennarelli produce ora suoni piacevoli (battendoli sul tavolo), facendo finta di fare una partita di scherma e co-costruendo il ritmo. Davide sembra divertirsi e produce molti suoni che accompagnano tutte queste differenti attività. Il terapista interviene proponendo un’attività con un maggior livello di complessità (ad esempio, usando l’embodiment per insegnare quando colpire forte o piano); successivamente la madre è invitata a partecipare all’interazione triadica proposta. Durante questa sessione emerge una crescita significativa nell’utilizzo del gioco simbolico: la madre prende in braccio la bambola e propone semplici sequenze di gioco, come dar da mangiare alla bambola e metterla a dormire, ecc. Quando Davide getta bruscamente la bambola a distanza, la mamma va subito a prenderla e fa finta di confortarla; questa sequenza è prontamente — e sorprendentemente — imitata dal bambino.
La fine dell’intervento
Durante l’interazione con la mamma, Davide inizia a essere molto interessato alle attività di gioco simbolico: madre e bambino iniziano spontaneamente un’attività in sequenza che consiste nel preparare la pappa alla bambola. Durante questa attività che sembra divertire entrambi (è presente un alto livello di emozioni positive), Davide produce una serie di gesti del mostrare accompagnati da un buon contatto visivo. Davide mostra anche attività di gioco simbolico: ad esempio, fa finta di parlare al telefono con la nonna usando semplici parole (linguaggio idiosincratico) ma in modo perfetto, quasi seguendo uno script del «parlare al telefono», con pause adeguate e prosodia di buona qualità, mentre rivolge lo sguardo alla madre e al terapista e mostra sorrisi sociali. Il campo interpersonale ormai stabile permette dunque l’accesso alla dimensione simbolica intesa come creazione di significati nuovi e condivisi, verosimilmente preliminari alla nascita del linguaggio.
Attraverso l’applicazione della griglia di codifica (Capirci, Pirchio e Soldano, 2007) è stato possibile registrare un’evoluzione dei gesti comunicativi da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo. Si sono evidenziate, infatti, una crescita significativa del numero di gesti comunicativi distali e l’emergenza dei gesti del mostrare rivolti alla madre, entrambi accompagnati dallo sguardo al partner e da espressioni emotive positive (Cuva et al., 2011; in preparazione). La ristrutturazione del campo fisico si è dunque accompagnata a una fioritura di competenze comunicative (chiaramente resa possibile in maniera così fluida e veloce anche dal fatto che il bambino presenta un quadro clinico dinamico, come quello del Disturbo Multisistemico dello Sviluppo).
CONCLUSIONI
La compromissione comunicativa e, in particolare, quella degli aspetti non verbali rappresenta un aspetto centrale dei Disturbi dello Spettro Autistico. Per proseguire nella loro comprensione è importante concentrarsi sulle caratteristiche di queste modalità, sul terreno in cui hanno luogo e su come possano prendere forma, non dimenticando che il corpo è necessariamente coinvolto, se non altro in quanto strumento di espressione del Sé.
Considerare il corpo centrale nell’intervento vuol dire rileggere in una nuova luce l’intervento psicomotorio, attualmente spesso tacciato di essere un intervento aspecifico e non utile al bambino con autismo.
Il tentativo di costruire una profonda comprensione dell’esperienza esistenziale del bambino autistico, sulla scorta delle esperienze cliniche e di ricerca (Fogassi e Ferrari, 2004), a nostro parere invece chiarisce come l’intervento psicomotorio abbia delle specifiche caratteristiche che lo rendono a tutti gli effetti una modalità terapeutica che può avere un ruolo davvero importante e specifico nella presa in carico del bambino con autismo.
Ovviamente, perché ciò avvenga, la psicomotricità deve saper integrare le nuove conoscenze ed essere applicata con criteri definiti e obiettivi precisi (ad esempio il lavoro sui diversi livelli di intersoggettività, sulla comprensione e significazione delle stereotipie, sulla creazione di un campo condiviso come terreno per la prima comparsa di significati simbolici) secondo protocolli e modelli condivisibili (Bonifacio e Gison, 2009).
ABSTRACT
Gestures are an important communication alternative that can compensate for deficits in linguistic and communicative abilities. When referring to children with ASD, however, the use of gestures doesn’t compensate verbal communication skills because they are particularly impoverished both in frequency and quality. This article emphasizes the importance of reevaluating the function of gestures in symbolic thought and pragmatic communication, issues taken into little account even today. Psychomotor intervention can play an important role in therapy with the autistic child, as long as it integrates new knowledge, applies defined criterion and precise objectives that follow protocol and mutual models.
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