di Andrea Bonifacio (a), Giovanna Gison (b) e Ermelinda Minghelli (c)
(a) TNPEE e Psicologo
(b) TNPEE e Dottore in Psicologia
(c) TNPEE
Centro Medico Riabilitativo, Pompei (NA)
L’articolo tratterà l’interazione tra le conoscenze teoriche acquisite, quelle della clinica e quelle proprie del modello neuropsicomotorio nello specifico dei Disturbi dello Spettro Autistico. Verranno analizzate le fasi precoci dell’intervento, le procedure valutative e quelle per l’individuazione delle strategie e degli obiettivi terapeutici. Il nostro modello d’intervento integrato in un’ottica neuropsicomotoria e neuropsicologica privilegia, nelle fasi iniziali, attività indirizzate in modo particolare a supportare la comunicazione sociale sulla base delle caratteristiche individuali e del profilo interattivo del bambino, in accordo con le Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità/ISS (2011).
Lo scopo di questo articolo è esporre i principi e le caratteristiche generali della metodologia di intervento che si è delineata nel corso dell’ultimo decennio, all’interno del nostro gruppo di lavoro. Durante questo periodo abbiamo seguito numerosi casi di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA), accomunati dalla significativa caratteristica della diagnosi precoce, stabilizzata intorno ai 24-30 mesi circa. Abbiamo analizzato in maniera sistematica le caratteristiche del disturbo precoce, la loro evoluzione e le aree prioritarie di intervento, in quanto organizzatrici dello sviluppo successivo. Questo non ci ha portato a un nuovo, ennesimo, metodo di trattamento, ma a organizzare nella maniera più dichiarabile, tracciabile e verificabile possibile l’approccio abilitativo e terapeutico proprio della cultura neuropsicomotoria.
Il modello di intervento proposto, OPeN-Intervento Integrato in ottica Neuropsicomotoria e Neuropsicologica, si fonda su alcuni principi, primo fra tutti quello dell’integrazione non solo di diverse ottiche, ma anche di professioni e persone che, rivestendo ruoli differenti, accompagnano il bambino nel suo processo di crescita. Tale principio risponde alla necessità di contrastare la tendenza alla moltiplicazione e, talvolta, sovrapposizione degli interventi; la prospettiva dell’integrazione si esplica, infatti, attraverso la coerenza interna del percorso unita al posizionamento attivo di tutte le persone che partecipano ad esso.
L’approccio integrato rappresenta per noi, inoltre, una certa idea di lavoro di équipe,1 in cui ogni operatore deve svolgere la funzione di facilitatore della comunicazione nella costruzione di reti tra i singoli servizi/sistemi implicati nella relazione di aiuto. Il tutto all’interno di un processo il cui fine è generare autonomia, non solo nel bambino, ma anche nelle persone che sono presenti e operano nel suo ambiente di vita. Ciò anche in accordo con il modello bio-psico-sociale dell’ICF-CY, che in relazione ai fattori ambientali dà grande importanza a tutti gli elementi «che formano il contesto di vita di un individuo e, come tali, hanno un impatto sul funzionamento della persona. Tali fattori includono l’ambiente fisico e le sue caratteristiche, il mondo fisico creato dall’uomo, altre persone in diverse relazioni e ruoli, atteggiamenti e valori, sistemi sociali, servizi, regole e leggi».2
La necessità di un approccio integrato viene, inoltre, sostenuta all’interno del documento Bioetica e Riabilitazione prodotto dal Comitato Nazionale per la Bioetica, in cui si pone l’accento sul concetto di relazionalità, in termini di collaborazione, fiducia, solidarietà e aiuto tra le persone impegnate nel percorso riabilitativo: la persona con disabilità, il medico, i terapisti, la famiglia, ecc. Le strategie educative e terapeutiche devono nascere dalla condivisione del progetto, da «un’alleanza riabilitativa» alimentata dal dialogo continuo e dalla collaborazione reciproca di tutti i soggetti coinvolti (Comitato Nazionale per la Bioetica, 2006). L’assunzione di questi principi, non solo da un punto di vista teorico, ma attraverso una reale integrazione nel proprio sistema di lavoro, è fondamentale innanzitutto al fine di contrastare fenomeni di autoreferenzialità. Facilitare la costruzione di reti, infatti, consente di esplorare i diversi livelli di complessità del DSA e di prestare attenzione alle barriere, alle facilitazioni, ai limiti e alle risorse presenti nel contesto di vita del bambino. L’assenza di un simile modello concettuale comporterebbe il rischio di una «importazione acritica» di tipologie d’intervento, avulse dalle risorse territoriali, dai reali bisogni del bambino e della sua famiglia.
DALL’OSSERVAZIONE AL PROFILO INTERATTIVO
Ogni bambino con DSA si presenta con il proprio stile interattivo, le proprie caratteristiche funzionali, neuropsicomotorie e cognitive e l’intervento che proponiamo si pone l’obiettivo di rispondere a queste esigenze diversificate attraverso un approccio altamente individualizzato. Questo principio lo ritroviamo espresso, sotto forma di Raccomandazione, nelle Linea Guida 2011 dell’ISS: Gli interventi a supporto della comunicazione sociale vanno presi in considerazione per i bambini e gli adolescenti con DSA; la scelta di quale sia l’intervento più appropriato deve essere formulata sulla base di una valutazione delle caratteristiche individuali del soggetto. Secondo il parere degli esperti, è consigliabile adattare l’ambiente comunicativo, sociale e fisico di bambini e adolescenti con DSA: le possibilità comprendono il fornire suggerimenti visivi, ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, seguire una routine, un programma prevedibile e utilizzare dei suggerimenti, minimizzando le stimolazioni sensoriali disturbanti.
Questa raccomandazione sottolinea ancora una volta la necessità di favorire processi di condivisione tra i diversi ambienti di vita, che devono adattarsi e modificarsi al fine di facilitare la comunicazione e l’interazione in tutti i suoi aspetti. Ma, analizzandone le implicazioni in relazione alla pratica clinica, rileviamo come tale raccomandazione abbia da sempre costituito un perno centrale nel contesto di osservazione e intervento neuropsicomotorio.
Proprio in relazione al fornire suggerimenti visivi, seguire una routine e un programma prevedibile, si pensi infatti all’importanza che rivestono la costruzione del setting e l’organizzazione della seduta, che avvengono mediante dispositivi spazio-temporali fondati su regolarità, predicibilità e coerenza, principi che sono organizzati attraverso specifiche strategie. Ad esempio, il setting psicomotorio individua e struttura due luoghi distinti nel medesimo spazio d’azione della seduta: il primo, connotato da materiale poco strutturato (materassi, cuscini, spalliere, corde), che consente e facilita l’accesso del bambino a esperienze di attivazione e interazione con l’adulto sul piano corporeo, di tipo sensoriale, cinestesico, motorio, che sono alla base dello sviluppo di schemi sensomotori e interattivi; il secondo, corrispondente a una successiva fase della seduta sul piano temporale, è organizzato in modo differente (solitamente vi sono un armadio, un tavolo e delle sedie) e definisce l’incontro del bambino con oggetti e immagini e, più in generale, favorisce attività di decentramento, al servizio dell’organizzazione funzionale, simbolica, prassica e comunicativa.
Questa strutturazione sollecita una nuova organizzazione tonico-posturale, che progressivamente permette al bambino e al terapista di circoscrivere lo spazio di condivisione, focalizzare un obiettivo comune e attivare precisi codici di scambio. Tale suddivisione stabile del setting rappresenta un principio organizzatore, elemento che ci permette da subito di osservare cambiamenti temperamentali e comportamentali, in termini di competenze adattive e di intenzionalità in rapporto alle azioni prodotte dal bambino.
Un altro aspetto riguarda la necessità di minimizzare le stimolazioni sensoriali disturbanti, obiettivo centrale in una prima fase del progetto riabilitativo e che richiede una notevole attenzione a una serie di particolari che, a partire dall’osservazione individualizzata di ogni bambino accompagnata dalle informazioni fondamentali raccolte dalla famiglia, ci consente di costruire specifici profili sensoriali. Pertanto particolare attenzione è data alla fase dell’osservazione neuropsicomotoria, guidata da ipotesi, sistematica e continuativa nel tempo; una metodologia osservativa in cui si modificano le condizioni naturali per favorire la comparsa di determinate azioni, che si avvale del ruolo di supporto dell’adulto nelle attività condivise con il bambino. Tale stile osservativo non può prescindere, di conseguenza, dalla co-regolazione interpersonale, vale a dire dal processo di mutuo e continuo aggiustamento dei partner di un’interazione.3
Questa specifica strategia di osservazione, e più in generale d’intervento, sostiene il principio di ridurre le richieste di interazioni sociali complesse, o meglio di adattarle al profilo interattivo del bambino.
Un altro principio fondante è rappresentato dalla specifica attitudine, tipica della cultura psicomotoria, nel privilegiare l’interazione mediata dall’esperienza del corpo come condizione primaria per l’integrazione delle relazioni interpersonali e delle funzioni mentali, così da prevedere, durante l’intervento, facilitazioni costanti e stabili, finalizzate a promuovere processi di regolazione, continuità e integrazione.
Progressivamente, attraverso la sintonizzazione dell’adulto sugli indici espressivi del bambino, è possibile individuare il suo specifico profilo interattivo, vale a dire la sintesi tra competenze funzionali, stile interattivo, profilo sensoriale e aspetti temperamentali. Definito questo, si procede fissando gli obiettivi evolutivi dell’intervento terapeutico, per il cui raggiungimento ci avvaliamo dell’attivazione delle seguenti aree di gioco:
– giochi di attivazione sociale;
– giochi di esplorazione, imitazione e uso sociale dell’oggetto;
– giochi sensomotori a valenza rappresentativa.
DAGLI OBIETTIVI ALLA METODOLOGIA D’INTERVENTO
All’interno di ogni area di gioco, alla fase osservativo-valutativa segue la fase d’individuazione degli obiettivi, resi condivisibili e verificabili attraverso l’uso integrato della scheda di osservazione neuropsicomotoria (SON)4 e l’ICF-CY. La selezione degli obiettivi specifici avviene individuando di volta in volta la competenza emergente, che rappresenta il livello di sviluppo potenziale in cui collocare le sollecitazioni. In particolare consideriamo competenza emergente quella competenza espressa dal bambino solo a partire da una facilitazione proposta dal terapista. La procedura che conduce, quindi, dall’osservazione fino all’individuazione degli obiettivi è strettamente correlata all’individuazione delle facilitazioni e delle strategie e non può prescindere dal ruolo e dal sistema di attitudine del TNPEE. Ci riferiamo nello specifico alla sua competenza a stimolare, condividere e contenere lo scambio emozionale con il bambino, alla sua capacità di assumere una funzione di rispecchiamento, al fine di amplificare, ridurre, rallentare, esagerare gli indici espressivi. Queste modalità, acquisite attraverso una formazione specifica, rappresentano i mediatori che sostengono l’attenzione del bambino all’altro, o meglio all’interazione. In altre parole, il punto di partenza di ogni incontro con il bambino, che rappresenta lo stile e il filo conduttore dell’intervento, deve essere la ricerca di temporanee condizioni di allineamento a livello tonico, posturale, spaziale, temporale e motorio, che determinano situazioni di accordo emotivo tra il terapista e il bambino.
Queste condizioni, come ad esempio un determinato contatto fisico o visivo, rappresentano un aspetto necessario ma non sufficiente alla costruzione di una configurazione interattiva stabile. Essa necessita, infatti, anche e soprattutto della capacità di osservare il bambino e d’individuare precisamente il momento in cui ha bisogno di essere lasciato solo, oppure di distogliere attivamente lo sguardo, a sostegno di un processo di autonomia, che gli consentirà di scegliere di allontanarsi o avvicinarsi all’altro. L’alternanza di tali schemi gli garantirà la possibilità di sperimentarsi nell’interazione come individuo attivo e non solo re-attivo o responsivo; un soggetto dell’interazione che partecipa nel definirne i tempi, i confini e le modalità. Il percorso per il raggiungimento degli obiettivi evolutivi è segnato dal raggiungimento di micro-obiettivi a breve termine e specifici. Tutto il processo che conduce al determinarsi di ogni configurazione interattiva risulta fondamentale, in quanto essa funge sempre da vettore per l’attivazione delle aree di gioco.
Le tre aree sopra individuate (attivazione sociale, esplorazione e giochi sensomotori), sia nello sviluppo tipico che nella pratica clinica, si presentano ricche di contaminazioni, sovrapposizioni e in stretta relazione tra di loro; al contrario la loro schematizzazione e separazione ci consente di esplorarne le caratteristiche, individuandone le relative strategie e gli obiettivi terapeutici. Va precisato d’altronde che lo sfondo dell’intervento è dato proprio dalla ricerca e dalla sollecitazione di connessioni tra le diverse aree. Per ciò che concerne i giochi di attivazione sociale, essi sono riferiti a tutte quelle interazioni che, nello sviluppo tipico, si manifestano a partire dai primi mesi di vita sotto forma di giochi faccia a faccia, tra l’adulto e il bambino, in cui prevalgono mutui processi di regolazione, di attenzione e di scambio comunicativo, sostenuti dalla reciproca organizzazione tonico-posturale.
A partire da queste condizioni di vero e proprio dialogo tonico l’adulto, attraverso vocalizzazioni ed espressioni facciali amplificate, facilita l’espressività di alcuni segnalatori dello sviluppo comunicativo sociale, quali sguardo referenziale, sorriso, attenzione condivisa e imitazione, sullo sfondo di un assetto tonico-posturale costantemente adattato e modulato in relazione alle variazioni esperite. Si vengono così a creare delle configurazioni interattive; in altre parole, si delinea quello specifico pattern che caratterizzerà le interazioni tra «quel bambino e quell’adulto». La costruzione di queste configurazioni si rivela particolarmente importante con i bambini con DSA, «in quanto nelle prime fasi dello sviluppo essi mostrano deficit fluttuanti dell’intersoggettività e cioè di quella particolare sincronia tra le espressioni facciali, vocali e gestuali dei lattanti e delle loro madri».5 Ne consegue che, soprattutto nelle prime fasi, il nostro intervento è caratterizzato da un contesto relazionale stabile, permeato da interazioni emotivamente sostenute, volte a supportare esperienze di efficacia comunicativa. A favore di questo orientamento metodologico, negli anni si sono susseguite numerose evidenze scientifiche che sottolineano l’importanza della sollecitazione dell’area comunicativo-sociale, in quanto essa «può ridurre gli effetti cumulativi a valle delle disfunzioni dell’intersoggetività e favorire la maturazione biologica del cervello sociale» (Wetherby, 2006; Greenspan, 1998- 2006; Rogers, 1991).6
Nel bambino con DSA colpisce da subito l’alterazione dell’attenzione visiva coordinata,7 sia in termini di difficoltà a spostare il proprio sguardo dall’oggetto al volto dell’adulto, che in termini di guardare nella direzione in cui l’adulto sta guardando. Si rilevano spesso, inoltre, un interesse atipico per alcune caratteristiche senso-percettive dell’oggetto (forme, suoni, logo), una manipolazione e un uso estremamente poveri, scarsamente variabili e talvolta stereotipati. Al contrario in alcuni bambini possono presentarsi delle isole di abilità: ad esempio, essi possono comporre rapidamente puzzle o compiere movimenti sofisticati producendo rotazioni oppure oscillazioni, imprimendo così movimenti atipici agli oggetti. Alcuni bambini sviluppano veri e propri rituali con l’oggetto, che si esprimono attraverso attività di allineamento, spezzettamento, serialità, ecc.
L’intervento, in quest’area, si organizza a partire dall’identificazione degli oggetti/materiali che suscitano maggiormente l’interesse del bambino, dal facilitare l’assunzione di un assetto posturale adattato allo scambio e alla condivisione dell’attività con l’oggetto. Alcune strategie si sono rivelate nel tempo molto efficaci, quali, ad esempio, un’accurata selezione del materiale e la sua presentazione graduale: tali strategie sono soggette a un’elevata individualizzazione. Altre riflessioni riguardano il gioco sensomotorio a valenza rappresentativa: esso è costituito da azioni che coinvolgono prevalentemente il corpo e il movimento, con schemi che, nello sviluppo tipico, si manifestano attraverso azioni quali apparire e scomparire, scappare ed essere presi, entrare e uscire, giochi di caduta e simili. Queste azioni, unite al piacere associato alla loro attuazione e ripetizione, esprimono il modo in cui il bambino esercita e potenzia le sue competenze motorie, prassiche e rappresentative. Quest’area di gioco si caratterizza per la rapidità delle acquisizioni, per le sue caratteristiche universali e per la portata simbolica, in quanto per noi terapisti l’azione è sempre il prodotto di un’interazione. Quello che si rileva nei bambini con DSA è che possono presentare un tono di base spesso scarsamente modulato e regolato in rapporto all’azione e all’altro, accompagnato da un’organizzazione gestuale altamente deficitaria; l’orientamento posturale e l’organizzazione spazio-temporale del movimento risultano spesso disfunzionali. La presenza di stereotipie e di movimenti ripetitivi, inoltre, può pervadere il livello di attivazione. Anche in questo caso si tratta di deficit fluttuanti, di intensità variabile, che in generale caratterizzano l’espressività ludico-sensomotoria, rendendola frammentata, caotica e con finalità scarsamente riconoscibili.
Come ben delineato dagli studi di Piaget fino alle scoperte più recenti della psicologia dello sviluppo, questo livello ludico sostiene i processi rappresentativi e simbolici attraverso la progressiva maturazione di rappresentazioni mentali a partire dal graduale affinamento degli schemi di azione. Pertanto assumono particolare importanza le strategie fondate sul riconoscimento del valore dell’azione spontanea del bambino, strategie che, attraverso processi di attribuzione di senso, di selezione e di strutturazione del contesto di gioco, perseguono il fine di costruire anche in questo caso esperienze di un sé agente efficace.
L’intervento OPeN prevede, infine, un’articolazione per fasi, in quanto riteniamo che esso debba adattarsi progressivamente ai mutevoli bisogni di un soggetto affetto da DSA, mutevoli in rapporto all’età, all’evoluzione del quadro clinico e ai cambiamenti del contesto di vita. All’interno di questa articolazione è possibile distinguere:
– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento delle competenze interattivo-sociali e comunicativolinguistiche;
– metodologie orientate allo sviluppo e al potenziamento delle competenze simboliche e cognitive;
– intervento mediato dai genitori;
– sviluppo di programmi psico-pedagogici;
– progetti per lo sviluppo delle autonomie personali e sociali;
– proposte finalizzate a favorire la condivisione di attività all’interno di piccoli gruppi.
Per l’applicazione del modello OPeN è previsto l’utilizzo della documentazione scritta, che implica l’impegno, da parte di tutti, a utilizzare un linguaggio condivisibile. Essa, inoltre, facilita i processi di decentramento auspicabili per tutti i soggetti coinvolti nella relazione di aiuto. Occorre inoltre evidenziare che in questi anni l’impegno rivolto alla sistematizzazione della metodologia di lavoro esposta ha raggiunto l’obiettivo apparentemente periferico, ma per noi centrale, di aumentare il grado di consapevolezza e comunicabilità delle proprie intenzioni e azioni terapeutiche.
In conclusione ci sembra importante sottolineare ciò che abbiamo appreso in questi anni di lavoro dall’esperienza di trattamento di bambini e famiglie nell’ambito di patologie complesse e pervasive come i DSA:
La questione più importante sulla quale ci si deve periodicamente interrogare riguarda la capacità di restituire a tutti i soggetti implicati, compresi gli operatori, un senso di efficacia, che produca una spinta ulteriore al cambiamento e alla trasformazione.
Quest’apparente «utopia» riabilitativa può realizzarsi in quei momenti in cui riusciamo a mettere in primo piano le risorse e le aree di sviluppo potenziale della persona coinvolta nel processo di aiuto.
In questo modo si può depotenziare, almeno nei momenti critici del trattamento, la carica negativa rappresentata dai sintomi, che nella loro pervasività e ripetitività rischiano di ingabbiare in una rappresentazione rigida tutti i soggetti coinvolti.8
NOTE
1. La nostra équipe riabilitativa è formata da: Neuropsichiatra Infantile, Psicologo, Assistente sociale, Logopedista e Neuropsicomotricista dell’età evolutiva. Essa generalmente si interfaccia con operatori scolastici, famiglia e servizi del territorio.
2. Organizzazione Mondiale della Sanità/OMS, ICF CY/Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Versione per Bambini e Adolescenti, Trento, Erickson, 2007, p. 213.
3. A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN. In P. Venuti e G. Esposito (a cura di), Percorsi terapeutici e lavoro di rete per i disturbi dello spettro autistico, Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 86.
4. G. Gison, E. Minghelli e V. Di Matteo, Una testimonianza del percorso per l’individuazione di procedure valutative neuropsicomotorie, «Psicomotricità», vol. 11, n. 3, 2007.
5. F. Muratori et al., La diagnosi precoce di autismo: dalla ricerca degli indici precoci ai programmi di screening, «Percorsi terapeutici e lavoro di rete», Savigliano (CN), Percorsi, 2009, p. 31.
6. Ibidem, p. 49.
7. M. Lavelli, Intersoggettività. Origini e primi sviluppi, Milano, Raffaello Cortina, 2007.
8. A. Bonifacio e G. Gison, Modello integrato OPeN, op. cit., p. 98.
ABSTRACT
This article examines the interaction between recent theoretical and clinical knowledge and the neuropsychomotor model in Autism Spectrum Disorders. Specific strategies and early intervention are analysed as well as evaluation procedures for identifying therapeutic objectives. Our intervention model integrates a neuropsychological and neuropsychomotor point of view. It gives priority to activity that supports social communication. The activity is based on individual characteristics and the child’s interaction profile, in accordance with the ISS Guidelines, 2011.
BIBLIOGRAFIA
Bonifacio A. e Gison G. (2009), Modello integrato OPeN. In E. Venuti (a cura di), Percorsi terapeutici e lavoro di rete per i DSA, Savigliano (CN), Percorsi.
Bonifacio A., Gison G. e Minghelli E. (2012), Autismo e Psicomotricità, Trento, Erickson.
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Gison G., Minghelli E. e Di Matteo V. (2007), Una testimonianza del percorso per l’individuazione di procedure valutative neuropsicomotorie, Trento, Erickson.
Istituto Superiore di Sanità/ISS (2011), Linee Guida, http://www.iss.it/auti/serv/cont.php?id=437〈=1&tipo=5-
Lavelli M. (2007), Intersoggettività. Origini e primi sviluppi, Milano, Raffaello Cortina.
Muratori F. et al. (2009), La diagnosi precoce di autismo: Dalla ricerca degli indici precoci ai programmi di screening. In P. Venuti e G. Esposito (a cura di), Percorsi terapeutici e lavoro di rete per i disturbi dello spettro autistico, Savigliano (CN), Percorsi.
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